È martedì 8 luglio, sono seduta su uno dei sedili metallici dell'Arena di Verona e fino a cinque minuti fa pioveva.
Non che la cosa mi sorprenda, non sembra aver fatto altro nelle ultime settimane, però non era esattamente quello che mi aspettavo quando, mesi fa, ho comprato i biglietti per vedere l'Aida.
Come ogni anno di questi tempi, stavo scegliendo il regalo di compleanno per mia sorella e mi sono ricordata di averle sentito dire che le sarebbe piaciuto vedere un'opera all'Arena, quindi ho colto la palla al balzo e avanzato la mia proposta.
Dopo un breve consulto si è optato per l'Aida perché, pur non essendo questo il nostro primo incontro con l'Operosa Arte (vedi Mozart in Babydoll), non siamo proprio ferratissime in materia (leggi non ne abbiamo un'idea) quindi si è preferito cominciare con un classico. Certo che anche il classico più classico può riservare delle sorprese, specie se, come ho scoperto successivamente all'acquisto, l'allestimento è a cura de La Fura Dels Baus, collettivo catalano che non definirei proprio tradizionalissimo.
Dalla mia metallica sistemazione osservo il pubblico: quasi tutti indossano degli impermeabili usa e getta, il tipico indumento che ti tocca comprare
quando il maltempo ti coglie impreparato; resta da chiarire come abbia fatto a coglierli impreparati quando da settimane viviamo sott'acqua come gli Snorky...
Il colore favorito sembra essere l'azzurro-chiaro-sacco-dell'immondizia e, in effetti, visti da lontano potremmo fare l'effetto di una discarica a cielo aperto.
Inizia finalmente lo spettacolo ed è subito evidente che non sarà una passeggiata, sì perché questi plasticosi poncho quando ti muovi anche solo di un millimetro fanno swoosh swoosh e, se lo fa una persona è un conto, quando lo fanno in centinaia la musica cambia (figurativamente parlando ma anche no). Provate voi a capire cosa cantano i cantanti d'opera (che già normalmente cantano un po' nei pallotti), quando intorno a voi c'è un tale sciabordio che sembra di essere su una nave in tempesta.
Un improvviso movimento attira la mia attenzione, qualcuno si è sentito male, i suoi vicini tentano di attirare l'attenzione di quelli del soccorso ma essendo la performance in pieno svolgimento non è facile, solo dopo qualche minuto si riesce a fare arrivare il messaggio e i soccorritori finalmente si attivano. Morale della favola: stasera conviene stare bene.
Poco a poco il cielo sopra l'arena viene illuminato dal sorgere della luna e devo ammettere che è un momento molto coinvolgente, almeno fino a quando non si sente venire dall'esterno dell'Arena uno scroscio di vetri rotti, stanno svuotando una campana del vetro e con i cocci si portano via anche quel poco di atmosfera che si era creata.
Arriva finalmente il primo intervallo e molti si alzano per andare a prendere qualche rinfresco; noi che siamo nel girone dei poveri possiamo solo osservare da lontano l'angolo bar allestito nell'area vips dove ci sono due camerieri in giacca e papillon che servono prosecco in bicchieri lunghi da proposta di matrimonio con anello in fondo al bicchiere (Beautiful insegna) mentre intorno a noi si aggira il classico venditore da spiaggia al suono di "PESSIFANTABIRA!"
Vorrei ora dedicare qualche riga alla signora che durante le pause usciva a intervalli regolari, dava il suo colpo al gong e si ritirava tra gli applausi del pubblico; sicuramente più chic di un campanello per scandire il tempo ma, se mi metto per un attimo nei panni dei cantanti, viene spontaneo meditare sulle ingiustizie della vita: tu ti giochi le tonsille e mezzo polmone per strappare un applauso al pubblico mentre questa dà una botta a un piatto e gli applausi le piovono in grembo. Che vita matrigna!
L'allestimento dei Fura non ha deluso: bighe a motore, cammelli ed elefanti meccanici, c'erano pure due gru che issavano enormi cuboni a incastro, l'effetto era vagamente Tetris.
Durante il secondo intervallo i venditori avevano sostituito gli impermeabili, prodotto ormai obsoleto, con dei simpatici pile che, vista la temperatura, sospetto siano andati via come il pane. W l'estate.
Proprio alla fine del secondo intervallo si è messo improvvisamente a piovere; mentre una voce comunicava che la performance era sospesa fino all'interruzione della pioggia, i contrabbassisti se la solo data a gambe (non senza qualche difficoltà data la stazza dello strumento) seguiti rapidamente da tutti gli altri mentre il pubblico si rifugiava sotto le arcate dell'arena.
Mentre osservavo il fuggi fuggi generale al riparo del mio ombrello mi è caduto l'occhio sull'orologio: erano le 23.20 e ho realizzato che dovevamo vedere ancora due atti con in mezzo un intervallo, per non parlare delle quasi tre ore di macchina per tornare a casa.
A quel punto un'idea si è fatta strada prepotentemente nella mia mente: si potrebbe anche andare via, in fondo due ore di opera ce le siamo viste e non è che si debba restare per scoprire come va a finire, no?
Mentre concludevo che la qualità della vita vale ben più di un gorgheggio, il nostro DNA comune si è fatto sentire e la Checca ha proposto di togliere le tende, subito approvata da me e da Luca.
E così ce ne siamo andati felici, dopo una serata quasi perfetta: cena al giapponese, due ore di opera e ritorno a casa non troppo tardi, cosa volere di più?
Oltre alle motivazioni addotte qui sopra, la decisione ha avuto anche un risvolto comico non indifferente: la faccia di Farnedi la mattina dopo quando gli ho detto che avevamo piantato lì l'opera prima della fine.
È proprio vero che certe cose non hanno prezzo.
P.S. Questo articolo è stato scritto per la mia rubrica L'angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Express
Nessun commento:
Posta un commento