venerdì 27 gennaio 2012

Lotta senza quartiere contro Marte e la Freccia Lenta

Guardando indietro vorrei poter dire che è stata tutta una concatenazione di eventi sfavorevoli, che gli dei non mi sorridevano, che avevo il Sole in opposizione, ma la cruda realtà dei fatti è che sono invornita e, in alcune occasioni, questo fatto emerge in maniera inequivocabile. Giudicate voi.

Devo andare a Firenze per un lavoro all’ultimo minuto, quindi mi tocca far tutto un po’ di corsa; prenoto i treni un paio di giorni prima (boia Trenitalia e l’invenzione dei frecciarossa, argento, zinco e chissà cos’altro, che devi sempre prenotare prima) e, dovendo essere al convegno entro le 9 di mattina, mi tocca prendere il treno delle 6.21, il che impone una levataccia, sveglia ore 5.20.
Esco di casa alle 5.55 e il paesaggio è da lupi: freddo boia, buio assoluto e giusto tre macchine di disperati in giro. Se non altro arrivo in stazione in un batter d’occhio e trovo parcheggio praticamente davanti all’ingresso. Scendo dalla macchina bardata come un omino Michelin (le previsioni su Firenze ieri sera davano coperto e 2-3 gradi) e arrivo sul binario in netto anticipo sul regionale. Fortuna vuole che proprio davanti a me si fermi una carrozza di prima classe declassata a seconda, il che mi regala un viaggio morbidoso su uno dei sedili scicchissimi della prima classe. Contrariamente alle mie aspettative, durante il viaggio non passa la hostess con il flute con lo sciampagn come si vede nelle pubblicità, forse a quell’ora del mattino non è il caso, però due salatini non ci avrebbero mica fatto schifo!
Scendo a Bologna con la massima calma, tanto il treno c’è tra venti minuti. Devo prendere il Freccia Qualcosa che va a Roma; controllo sul tabellone delle partenze per vedere che arrivi a Firenze alle 8.25 come previsto e, in quel momento, solo in quel momento, mi rendo conto che il treno ferma sì a Firenze ma a Campo di Marte e non a Santa Maria Novella come credevo io.
Aritmia.
Mi riprendo in fretta pensando che c’è sempre un treno che da Campo di Marte ti porta a Santa Maria Novella quindi al massimo impiegherò dieci minuti in più e, sommandoli ai dieci minuti che servono per raggiungere Palazzo Vecchio, sede del convegno, avrò comunque un quarto d’ora di margine. Bene, ma che strada faccio? Perché io la mappa per arrivarci non l’ho mica stampata! Tonta! Potrei forse usare le mappe sul cellulare ma non so gli indirizzi della stazione e del palazzo, potrei cercarli su internet, peccato che da Bologna a Firenze sia tutta una galleria quindi si è più isolati che in un bunker antiatomico. Nel frattempo, il Freccia Qualcosa è in ritardo di quindici minuti. Allegria.
Alla fine opto per il tradizionale sistema a base di “Scusi, per andare a Palazzo Vecchio vado bene di qua?” e, grazie a vari passanti gentilissimi incontrati lungo il percorso, arrivo a destinazione alle 9.05. Salgo le scale verso la sala dei duecento con una certa rapidità, pur sapendo che Ilaria, la mia collega, è già in cabina e il convegno non inizierà prima delle 9.15-9.30. La saluto, mi siedo in cabina e finalmente mi rilasso.
Il convegno in sè non si discosta dalla normale tipologia convegnistica, salvo per alcuni piccoli particolari:
1)    TUTTI, ripeto, TUTTI i relatori hanno delle presentazioni, in power point o acrobat o chi per lui, ma NESSUNO, ripeto, NESSUNO ce ne ha fatta avere una copia. Gli venisse un pizzichino.
2)    L’acqua per noi e per i relatori viene servita in brocche di vetro ed è chiaramente identificata come acqua dell’acquedotto. Tanto di cappello al comune di Firenze che, almeno a Palazzo Vecchio (non so altrove), ha smesso di comprare inutili bottiglie di vetro (o peggio plastica) e usa l’acqua pubblica. Ci tengo a precisare che alla fine della giornata nessuno ha riportato diarrea, vomito o mutazioni genetiche, pur avendo bevuto la pericolosissima acqua di rubinetto che, a sentire certa gente, farebbe più vittime del gas nervino.
3)    Nella sala faceva parecchio freddo, tanto che mi son dovuta mettere la sciarpa persino dentro la cabina di traduzione dove di solito il clima è tropicale. E quella era la sala più calda del palazzo! Nella sala dove servivano il pranzo, di riscaldamento non c’era neanche l’ombra, abbiamo mangiato con il cappotto e la sciarpa. E non parliamo della toilette! Però almeno i bagni si liberavano in fretta.
Dopo pranzo siamo uscite un momento a prendere una boccata d’aria sotto un cielo turchino e un bel sole caldo. Evidentemente quello delle previsioni aveva fumato della roba buona.
Il convegno è terminato alle 17.30 con la consueta mezz’ora di ritardo ma la cosa non mi ha turbato affatto, avendo prenotato un posto sul treno delle 18.35. Ho salutato Ilaria e mi sono diretta con passo tranquillo verso la stazione. Sono arrivata verso le 18 e mi sono seduta in sala d’aspetto, dato che il mio treno ancora non era sul tabellone. Dopo aver risposto a un paio di telefonate ho riguardato il tabellone e non vedendo ancora il treno indicato mi sono diretta verso i banchetti freccia rossa per chiedere chiarimenti, estraendo contemporaneamente il biglietto per mostrarlo a chi di dovere. Nel farlo mi è caduto l’occhio su una scritta che mi ha fatto gelare il sangue: Campo-di-Marte. Anche il treno del viaggio di ritorno partiva da là. Peccato che non ci fosse più tempo per prendere il treno di collegamento e ovviamente il mio biglietto, essendo una tariffa scontata, non era modificabile.
A quel punto avevo due opzioni:

1)    buttarmi in ginocchio urlando e strapparmi i capelli dandomi della deficiente.
2)    andare alla biglietteria e comprare un altro biglietto a prezzo pieno per il primo treno in partenza, sperando che arrivasse in tempo per prendere il regionale che da Bologna mi avrebbe portato a casa.

Sono orgogliosa di affermare che, mentre qualche anno fa sarei precipitata inesorabilmente verso l’opzione 1, con concomitante agitazione di estremità, questa volta ho scelto l’opzione 2 senza un attimo di esitazione, ho pagato i miei 25 euri e sono corsa al binario sei, sperando di non perdere almeno quel treno lì.
Superato quest’ultimo scoglio le cose sono proseguite senza ulteriori incidenti e, se escludiamo l’aroma ricco di etile che aveva il mio vicino di posto, il viaggio fino a casa è stato piuttosto tranquillo.
Tutto è bene ciò che finisce bene.
Da domani, giuro, pesce azzurro tutti i giorni.

lunedì 23 gennaio 2012

Mi sa che oggi non è aria.

Qualche giorno fa mio babbo, sant'uomo, mi ha portato un nuovo pacco di riviste usate; sono quelle che mia mamma ha già letto e che mi passa prima di buttarle (rigorosamente raccolta differenziata).
Le riviste in questione fanno parte di una strategia elaborata negli anni per cui a colazione leggo qualcosa che mi faccia fare due risate, in modo da riconciliarmi col mondo che di solito, appena sveglia, odio con tutte le mie forze.
Ieri mattina prima di colazione ho scelto una rivista dal pacco appena arrivato; il processo di selezione del numero non è stato semplice e per un ottimo motivo: essendosi appena concluso, per la gioia di tutti, l'incubo delle festività natalizie, volevo evitare i numeri caldi, quelli da fine novembre al 25 dicembre, notoriamente impestati di articoli pallosissimi su cosa regalare al fontaniere, alla nonna del portinaio, o al secondo cugino della cognata del migliore amico di turno.
Trovando un numero datato 26 dicembre mi sono sentita in una botte di ferro, i giochi ormai erano fatti quindi il peggio che potevo aspettarmi era un servizio sul sushi alla romagnola per il cenone di San Silvestro o su come apparecchiare la tavola perfetta definitiva, niente di più.

Apro il giornale e, dopo le inevitali trecentomila pagine di pubblicità, arrivo a un articolo che s'intitola "Il Natale è nell'ARIA"; trattasi di pezzo su candele profumate spray e diffusori per ambiente. Un po' mi sconvolge che a qualcuno venga in mente di dedicare all'agomeno una pagina intera però, in effetti, dopo aver analizzato tutto il regalabile per quattro o cinque numeri, non è che rimangano molte opzioni, fai con quello che hai.
Parto con la lettura, sia pur pesantemente ostacolata dai miei pregiudizi sul tema, trovandomi quasi subito faccia a faccia con l'inimmaginabile: il primo prodotto illustrato è una sfera di legno rossa con dentro bastoncini d'incenso, carino - penso, poi vedo il prezzo: 75 euri. Rileggo, è sempre 75 euri, strabuzzo gli occhi e per un attimo vacillo, poi però mi dico che è solo una buca sulla strada, stringo i denti e vado avanti, finendo dritta dritta tra le braccia di un profumo in confezione vintage provvista di pompettaspruzzatrice. Vabbè, il vintage è sempre di stramoda quindi non è una gran sorpresa, forse la confezione è un po' austera ma per il resto... Solo dopo un po', leggendo bene la didascalia, mi accorgo che sto mix di vaniglia arancia e ambra, che a sentir la giornalista sa di festa, non è come avevo pensato un profumo per donna bensì un profumo per la casa, in vendita alla modica cifra di 96 euri. Per un attimo me la vedo davanti, sta donna che passa da una stanza all'altra premendo la pompetta del profumo in qua e in là. Me l'immagino così, con i tacchi alti e la messa in piega perfetta, che vaporizza euri in giro per la magione accompagnata dal ticchettio (tacchettio?) delle immancabili décolleté.

Continuando coraggiosamente la lettura, mi trovo catapultata in quello che mi pare un universo parallelo; noto che parecchie candele sono in edizione limitata, adesso va molto sta roba di far le cose in edizione limitata. A me per esempio mi hanno fatto in edizione limitata, però non profumo di gelsomino nano del Borneo.
A quel punto mi rendo conto che l'articolo ha dato tutto quello che aveva, faccio un respiro e proseguo. Un po' più in là c'è un pezzo su panettoni e pandori che pare innocuo quindi pagaio un po' per la pagina e alla fine m'incaglio sul panettone al cioccolato piemontese con arance rosse di Sicilia, ovviamente in edizione limitata, che te lo tirano nella schiena per soli 108 euri, sì 108 euri, un pantettone, 108 euri. Ripeto: 108 euri.
Non credo ci sia altro da dire.
108 euri.



P.S. Per chi gioca al lotto i numeri di questo articolo sono: 25,26,75,96,86,62,108. Le ruote, vedete un po' voi.

mercoledì 18 gennaio 2012

Capodanno a Orvieto con l'amico dei fagioli

Non so bene come ma è arrivato il 31 dicembre e io trovomi a Orvieto per impegni lavorativi del Farnedi; non sono proprio di ottimo umore per varie ragioni, tra cui il fatto di essermi lasciata sfuggire, da vera invornita, un tesoro di quelli che avrebbero potuto fare la mia fortuna e la mia gioia per i mesi a venire.
Giovedì mattina passeggiavo tra le bancarelle del mercato cittadino e, tra una gonna di paillettes e un top di lustrini, sono arrivata davanti a un banco che vendeva libri; l’occhio è caduto su un libro di ricette vegetariane (titolo una roba del tipo cucinare vegetariano) e, pensando a tutte le volte che invito la Clodia e non so cosa farle da mangiare, l’ho preso in mano per vedere quali ricette proponesse.

 Una delle prime che ho notato era il ragù di tonno. Ora, non è per fare i talebani o cercare il pelo nell’uovo, però, a casa mia, quando dici vegetariano intendi che non contempla roba con occhi e gambe mentre il pesce, seppur in effetti sprovvisto di gambe, un paio d’occhi li ha eccome. Qualche pagina più in là c’era pure la pasta con gli scampi, al ché ho chiuso il libro e me ne sono andata borbottando. Se invitassi la Rinaldi a pranzo e le facessi trovare il ragù di tonno, probabilmente non sopravviverei per raccontarlo.
Ecco, il tragico, madornale errore è stato proprio quello, non mi sono resa conto del potenziale comico che avevo tra le mani, un libro (edito da qualcuno) di ricette vegetariane con il pesce. E chissà, a sfogliarlo con più attenzione, quante altre perle mi avrebbe regalato. E tutto alla modica cifra di tre euri. Da strapparsi i capelli.
È quindi con il morale sotto i piedi e il capo chino che mi sono preparata per la cena di quella sera. Alle ore 20.30, incredibilmente puntuali, siamo arrivati al luogo ove sfamavano musicisti, staff e accompagnatori, solo per sentirci dire che la cena era prevista alle 21.30 (avvisare non usa più?) Nonostante gli zebedi girassero a velocità sostenuta, ci siamo seduti al nostro tavolo decisi a far passare l’ora a suon di chiacchiere; la situazione è poi decisamente migliorata con l’arrivo del cameriere coi rifornimenti di vino. Penso positivo perché bevo (cit).
Alle 21.30, finalmente, le portate hanno fatto la loro comparsa sul tavolo del buffet e ci siamo pazientemente messi in fila. Io mi trovavo nella zona zuppa ma impossibilitata a sapere cosa bollisse in pentola, essendo circondata da energumeni piuttosto ingombranti (checché ne dicano, il musicista medio non è né pallido né emaciato). Improvvisamente ho visto sfilarmi di fianco un piatto di zuppa in cui galleggiavano evidenti mitili e mi son lasciata sfuggire un “Che bello, ci sono le cozze!” Il proprietario del piatto mi ha sorriso e ha detto “Lentejas” prima di dileguarsi. Sono tornata al tavolo con il mio bel piatto di zuppa e a quelli che chiedevano ho risposto trattarsi di zuppa di lenticchie con cozze; quando però il popolo mi ha fatto notare dei bozzi all’interno della zuppa che poco avevano delle lenticchie e parevano assai più fagiolo-style, la mia unica difesa è stata “Ciò (l’eleganza innanzitutto), ho chiesto a un tipo spagnolo che l’aveva appena preso e lui mi ha detto lenticchie!”
La zuppa però era assai gustosa, quindi non è che abbiam perso del gran tempo a mugugnare, ce la siamo divorata con una certa soddisfazione e di lì a poco io e Benny siamo ripartiti diretti verso cotechino, zampone e purè. Anche in questo caso la lotta per i manicaretti è stata serrata ma la nostra costanza ha dato i suoi frutti e Benny, che era davanti a me, dopo essersi rifornito adeguatamente, mi ha lasciato il cucchiaio, si è girato e se n’è andato lasciandomi libero il campo;  a quel punto mi sono ritrovata faccia a faccia con l’iberico ingannatore, anche lui in fila per il cotechino. Mi ha cortesemente ceduto il passo e non me lo sono fatto dire due volte, l’ho ringraziato e mi sono riempita il piatto. Quando ho raccontato del nostro secondo incontro, l’uomo misterioso è diventato "il tuo amico dei fagioli".
Una volta finito il cotechino le cose si sono molto tranquillizzate e, a parte qualche momento surreale in cui tutte le dieci persone a tavola giocavano con i cellulari/smartphone (ho aggiunto smartphone perché adesso se dici cellulare qualcuno è capace di offendersi), la serata è proseguita in tranquillità. Verso le dieci, quando i lavoratori erano già scesi a prepararsi, sono comparsi i dolci e ci siamo messe per l’ennesima volta in fila. Mi giro e di fianco a me c’è il mio amico dei fagioli. Ci siamo messi a ridere e gli ho assicurato che a dispetto delle apparenze non lo stavo pedinando; abbiamo chiacchierato un po’ e arrivati davanti ai dolci mi ha chiesto cosa fossero. Buona domanda. L’ho girata al cuoco che ha risposto imperturbabile “Torta Mimosa” senza sospettare per un istante che è come dire la pasta la facciamo alla Giuseppe, perché io non ho idea di cosa ci sia nella torta mimosa e per uno spagnolo una torta mimosa è boh, una torta coccolona? Alla fine ci ha salvato l’universalmente nota crema chantilly e, afferrati i nostri rispettivi piatti, ci siamo congedati.
Il brindisi della mezzanotte l’abbiamo fatto in tre sui gradini in fondo alla sala mentre i musici musicavano sul palco a mille leghe di distanza; la Manu ha rimediato pure un corteggiatore (anche se con un senso del colore un po’ discutibile) mentre a me è rimasto il texano che protestava perché non avevano suonato Auld Lang Syne e io a cercare di fargli capire che essendo in Italia, quella canzone qui non se la fila nessuno e quindi che se ne facesse una ragione che per quest’anno ciccia. Ah, che bello l’ultimo dell’anno!
Il giorno dopo Rico mi ha chiesto “Ma chi era poi il tuo amico dei fagioli?” e mi sono resa conto che non gli avevo neanche chiesto il nome (la solita zotica); sono andata a guardare sul programma e per fortuna c’era una sua foto, quindi ho scoperto che si chiamava Chano Dominguez e che a pomeriggio ci sarebbe stato un suo concerto: Chano Dominguez Flamenco Sketches, a sentire il programma una rivisitazione originalissima di Kind of Blue di Miles Davis. Ovviamente, data la mia ignoranza, la spiegazione aveva lo stesso effetto illuminante del famoso la pasta la facciamo alla Giuseppe.

Devo ammettere che il pensiero di andare all’ennesimo concerto di giass non è che mi elettrizzasse, io appartengo al popolo bove, alla plebe musicalmente non istruita e dopo aver ascoltato assoli di qualsiasi cosa, compresi quelli di contrabbasso a un volume talmente basso che lo sentivano giusto i pippistrelli e Batman, ero parecchio restia all’idea di farmi nuovamente del male (le perle ai porci direbbe qualcuno); però, da una parte  ero almeno un po’ curiosa, dall’altra noi col pass non si paga, quindi all’orario indicato ci siamo trovati con la Manu e Fabrais e siamo andati a dare un’occhiata.
C’erano Chano, il pianista, un percussionista che suonava credo il cajòn, un cantante che oltre a cantare batteva le mani seguendo un ritmo tutto flamenquero e un contrabbassista che ci ha un po’ spiazzato perché, essendo che si parla di flamenco, tu sei lì che ti aspetti un gruppo non dico spagnolo ma uberspagnolo, e invece ti arriva il contrabassista Mario Rossi e all’inizio devo ammettere che sembra strano, poi Mario inizia a suonare e te lo dimentichi come si chiama perché lì dov’è ci sta proprio bene e finalmente un suono che si sente e quello che senti ti piace, sembra che sappia dove sta andando, ha una direzione e lo capisci pure tu che di queste cose non ne hai un’idea, che bello. Con grande sorpresa nostra e soddisfazione della Manu, che è una danzatrice, oltre ai musicisti c’era un ballerino di flamenco il cui corpo si è presto trasformato in una percussione che giocava con gli altri a creare ritmi e disegni. A un certo punto, a metà concerto ho pensato Io di questa cosa devo scrivere! Ho cercato di fare una foto al gruppo da allegare a questo post; purtroppo, il mio cellulare è un po’ di seconda, quindi da dove ero io la foto faceva parecchio schifo per cui ho vinto la mia normale reticenza a uscire dall’ombra e mi sono alzata avvicinandomi silenziosissimamente da un lato per fare una foto. Repentina e implacabile, una maschera è scesa su di me intimandomi di non fare foto e me ne sono dovuta tornare al mio posto con le pive nel sacco, sentendomi come se mi avessero fermato mentre tentava di scippare una vecchietta della pensione. Passerà del tempo prima che ci provi di nuovo.
Mentre ascoltavo il concerto mi sono stupita notando un palloncino a forma di Grande Puffo che ondeggiava sul lato sinistro della sala mentre a destra ce n’era uno fatto a forma di margherita gigante; è raro a concerti di questo tipo trovare simboli dell’infanzia, qui è sempre tutto molto adulto e maturo, spesso fin troppo. Se ci ripenso quello stupore di fronte ai palloncini non era tanto diverso dallo stupore che mi ha causato il concerto, così diverso da quanto mi aspettassi. Che gioia, a volte, essere sorpresi.

Un grazie al mio amico dei fagioli e ai suoi amici, iberici e non.



Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

giovedì 12 gennaio 2012

A caval donato...e basta donar cavalli, grazie!

Bene,  adesso anche le feste ce le siamo tolte dai piedi, brindare abbiamo brindato, regalare abbiamo regalato, è tempo di andare avanti.
Prima però urge sbarazzarsi della zavorra, di tutti quei brutti ricordi che ci portiamo dietro dall'anno passato e, con tutta probabilità, quelli più devastanti sono collegati a regali ricevuti da parenti, amici e conoscenti vari, regali che nel 99% dei casi sono robe orrende, inguardabili, inutili, quando non effettivamente dannose.
Vediamo di fare qualche esempio tratto dalla mia personale e tragica esperienza: cosa ne dite di un bellissimo portafoglio di pelle nera lucida lungo quanto una cassa da morto e con lo stesso livello di allegria? O del porta candele marrone scuro pieno di candele profumate alla vaniglia, notoriamente profumo cariogeno e stomachevole che ancora non hanno messo al bando solo per le ingenti mazzette che mani misteriose distribuiscono copiosamente alle nostre spalle? Per non parlare della spazzola/specchio da borsetta con decori in argento a rilievo che ho ricevuto per ben due volte consecutive dalla stessa persona, che evidentemente mi conosce bene, considerando che io non mi trucco e non mi viene mai in mente di pettinarmi. Insomma, nella vita di ognuno di noi ci sono momenti difficili che, volenti o nolenti, lasciano un segno profondo nella nostra psiche e l'unico modo per venirne fuori è adottare un approccio diverso, laterale. Ragion per cui a ridosso delle feste ho fatto un giro per i negozi e fotografato alcuni oggettini che ora vi sottopongo. Salvateli sul vostro pc e quando vi capiterà (e vi capiterà) di ricevere un dono orrendo che dice a chiare lettere che l'autore non ha pensato a voi neanche per un momento, o peggio, che puzza lontano un chilometro di regalo riciclato, guardateli e consolatevi pensando che poteva andarvi peggio. Oppure, se siete sadici, potete trarrne ispirazione per i vostri prossimi cadeaux.


Un piccolo investimento che potrebbe avere un ritorno inaspettato: l'enorme conchiglia placcata in argento da regalare come fermaporta per la casa al mare della nonna stronza, nella speranza che inciampi nell'orrore e tiri le cuoia così finalmente si eredita.













Qui non c'è che l'imbarazzo della scelta, consiglio in particolare il candelabro da regalare a quelli che sapete fissati con la pulizia e che inevitabilmente ne cadranno schiavi, trovandosi alle tre di notte con uno spazzolino in mano a lucidare quella pieghina maledetta che si ossida sempre.

L'alzatina merlettosa porta cupcake vedrò di regalarla prima o poi alla Clodia che sono certa apprezzerà. Forse girata a testa in giù potrebbe fare da porta ombrelli, chissà.





Il regalo ideale per un amante dei cani, dei diademi e delle collane di perle. Se posso fare un appunto, mentre il davanti del cane è agghindato che pare un lampadario, il didietro risulta un po' misero, io avrei aggiunto un dettaglio, che so, un tutù rosa.









Ideale per l'uomo cacciatore, magari un po' avanti negli anni; l'unica cautela da adottare quando si regala un bastone da passeggio con testa di elefante è assicurarsi di essere a un buon metro e mezzo dal destinatario nel caso questi decidesse di esprimervi fattualmente la propria opinione in merito al grazioso oggettino (evitate in particolar modo la proboscide che ha l'aria tagliente).

mercoledì 4 gennaio 2012

Affrontando gli sgherri del Nero Signore, la nebbia e pure un caldo boia.

E’ un po’ che non scrivo un post di lavoro e questo potrebbe sembrare evidenza di un miglioramento delle condizioni professionali/umane; in realtà è solo che la pigrizia ha avuto il sopravvento e, in alcuni casi, la rimozione è stata l’inevitabile reazione al trauma.
Il lavoro di cui vi parlo oggi iniziava il pomeriggio di un venerdì e terminava il sabato all’ora di pranzo. Una cosa tranquilla, almeno sulla carta. Purtroppo sul programma l’orario d’inizio era le 14.30 quindi mi è toccato uscire di casa all’una, dovendo essere a destinazione per le due. Il viaggio non ha dato problemi, arrivata, parcheggiato e via verso il centro congressi.
Quando sono entrata in sala i tecnici, poveri, stavano ancora montando le cabine per la traduzione, mi sono avvicinata e mi hanno comunicato che non c’era posto sufficiente per inserire una porta normale, quindi avevano optato per una porta scorrevole sul retro della cabina. Purtroppo però la porta scorrevole in questione non scorreva neanche morta, trattandosi di una volgare asse di compensato rimediata lì per lì, per cui l’abbiamo lasciata aperta tutto il tempo e addio isolamento acustico. Il problema era però un altro, questa penuria di spazio li aveva obbligati a una sistemazione di fortuna, quindi per entrare in cabina mi è toccato appiattirmi contro il muro come una blatta e strisciare fino al pertugio, ringraziando il cielo che la corsa mi mantiene entro certi limiti di spessore oltre i quali non sarei mai riuscita a entrare, rimanendo probabilmente bloccata a mezza via in modo ben poco dignitoso. 
A rendere le cose ancor più gioiose ci aveva pensato l’addetto al sistema di condizionamento aria, impostando la temperatura della sala su quei 28-30 gradi. Ho iniziato a rimuovere il vestiario strato dopo strato (l’esperienza insegna che se c’è un caldo così in sala, dentro la cabina è come essere sul Sole) e, una volta rimasta in maniche corte, ho preso posizione. A quel punto abbiamo iniziato il controllo microfoni, un’operazione che se fila liscia ti occupa esattamente due minuti, se invece s’intoppa, son tragedie greche. Nel nostro caso ovviamente s’è intoppata, soprattutto perché quelli in regia con cui si doveva interfacciare il sistema per la traduzione simultanea, erano chiaramente posseduti dal Nero Signore.
Quando ho messo le cuffie per controllare che funzionasse l’audio, ho sentito una voce maschile che cantava una non meglio identificata ballata in cui l’autore magnificava le doti della sua bicicletta. E, prima che qualcuno possa chiedermelo, no, non ci avevo dato dentro con l’ammazzacaffè. Per i successivi venti minuti la situazione non si è modificata, nel senso che grazie a dio non si sentiva più il cantore di velocipedi, però non si sentiva nient’altro, se non qualche fischio fortissimo di tanto in tanto (evidente attentato ai miei timpani da parte degli indemoniati in regia). Aggiungo che grazie all’illuminato progetto di un geniale architetto, per avere accesso alla regia, i tecnici erano costretti a uscire dal centro congressi per poi entrare nella banca vicina e da lì percorrere un corridoio che portava all’antro della bestia. Mancava solo di dover far la riverenza e far la penitenza.
Tra un fischio e una maledizione mi sono improvvisamente resa conto che in sala c’eravamo solo io, i tecnici e le hostess; strano che non fosse arrivata neppure la mia collega, il convegno si supponeva iniziasse a minuti! Ho dato un’occhiata al pieghevole col programma e la rivelazione è arrivata con la dolcezza di un dito in un occhio: alle 14.30 era prevista solo la registrazione dei partecipanti ma il convegno vero e proprio iniziava alle 15. Avevo mangiato con l’imbuto per passare mezzora in più tra ronzii, biciclette e indemoniati. Son cose brutte che non dovrebbero capitare. Troppo poco pesce nella dieta.

Una volta arrivata anche la mia collega, siamo andate a parlare con il relatore ospite vip della giornata, un simpatico ottuagenario che ha esordito scusandosi per come parlava e aggiungendo allegramente che tutti gli dicevano sempre che era incomprensibile. Pur apprezzando il gesto, devo dire che aveva assolutamente ragione: intere frasi che volavano fuori dalla finestra in un susseguirsi di suoni assolutamente alieni. E con lui si è conclusa in gloria la prima giornata.
Il sabato mattina ho spalancato gli scuri abbastanza di buonumore, probabilmente al pensiero che tutto si sarebbe concluso entro pranzo; in realtà avrei potuto tranquillamente fare a meno di aprire le finestre al nuovo sole, c’era una nebbia da film horror di quelli di una volta. Dopo cinque minuti di guida in superstrada ero già stressatissima e ho iniziato ad aver delle visioni finché, all'udir la voce di Marco Masini che cantava perché ti fai del male, perché ce l'hai con te, ho scelto la Vita e mi sono messa dietro a un camion che mi ha amorevolmente accompagnato fin quasi a destinazione.
Chi tra voi ha sospirato di sollievo leggendo la frase qui sopra non deve aver letto molti dei miei post: non si pubblica niente che non superi una certa soglia di assurdità, abbiamo degli standard da rispettare. Ovviamente l'incubo era appena cominciato; in quell'edificio all'apparenza così innocuo mi aspettava una seconda erculea fatica a cui però non ero del tutto impreparata. Qualche giorno prima avevo ricevuto un file con il discorso di uno dei relatori del sabato, accompagnato da un commento della responsabile dell’agenzia di traduzione Buon divertimento! e devo dire che non aveva tutti i torti: a una prima (e seconda lettura) il testo risultava pressoché incomprensibile e il pensiero più agghiacciante era se scrive così male, chissà come parla!
Fortunatamente, il relatore in questione era indiano (dell’India, niente piume) e dunque facilmente individuabile, quindi siamo andate a chiedergli info sul suo discorso (ci avevano detto che non avrebbe avuto il tempo per leggere la relazione, grazie al cielo). E invece questo, tranquillo come pochi, ha detto che avrebbe letto il testo per intero (andando quindi alla velocità della luce, senza dar senso a niente), fregandosene altamente dei limiti di tempo imposti.
Se non altro eravamo riuscite a capire cosa aveva detto.
Alla fine di una mattinata sempre in bilico tra la candid camera e le comiche, abbiamo portato a casa la pelle, in un modo o nell'altro, nonostante alcuni momenti burrascosi in cui l’audio improvvisamente sveniva e la tentazione di raccontare una barzelletta si faceva forte; mi dà una certa soddisfazione poter affermare che siamo comunque riuscite, in barba a tutto e tutti, a fare un buon lavoro e il convegno si è concluso senza spargimento di sangue (qualcuno in regia però i capelli li perderà, temo, sempre che non li abbia già sacrificati al Nero Signore).


 Mentre navigavo alla ricerca della canzone sulla bicicletta, ho trovato questa che, pur non essendo quella giusta, penso possa rendere l'idea :)