giovedì 30 dicembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - quinta e ULTIMA parte

Ed eccoci arrivati all’ultimo giorno, il primo novembre. L’inizio non è particolarmente scoppiettante: la colazione in questo albergo non è che la lontana e poverissima parente di quella rumorosa e frequentatissima del Bulldog.
Claudio ci fa vedere le foto che ha scattato quella mattina in giro per Brugge e che sono belle assai; praticamente ha girato tutta la città mentre noi agonizzavamo nei nostri letti in preda ai succhi gastrici impazziti. L’Uomo Bionico prenderebbe appunti.
Quando finalmente riusciamo a uscire dall’albergo e c’incamminiamo verso il centro città, il tempo è decisamente minaccioso ma noi continuiamo imperterriti, avendo una destinazione irrinunciabile: il giorno prima ho trovato un volantino in cui si pubblicizzava niente di meno che “il museo della patatina fritta” di Brugge e ovviamente devo assolutamente vederlo.

Non è molto difficile da trovare ma, una volta arrivati là, essendo io l’unica interessata, ci limitiamo a qualche foto ricordo davanti all’ingresso del museo. Mi rimane il rimpianto di non avere seguito il mio cuore e di aver forse mancato l’esperienza più bella e assurda dell’intera vacanza.
 Ci fermiamo davanti a una cioccolateria belga e Farnedi decide di comprare delle fette di arancia caramellate ricoperte di cioccolato fondente. Le compra per tutti ma sopravvaluta la nostra capacità di gestire gli zuccheri e infatti il sacchetto delle arance ci farà compagnia fino a casa in Italia, diventando il decimo membro del gruppo, (l’undicesimo, il decimo è ovviamente I pilastri della terra).
Dopo aver passeggiato per il centro in mezzo a orde di turisti e alle solite carrozze kitschissime, decidiamo di fare il giro dei canali in barca e ci mettiamo pazientemente in fila. Non dobbiamo aspettare molto e, se si eccettuano un paio di momenti difficili, la mezzora di attesa trascorre piacevolmente. I momenti difficili si presentano quando una delle barche attracca al molo e scarica i turisti per poi accogliere il nuovo gruppo; detti turisti dovrebbero uscire da dove sono entrati, il problema è che lungo quel percorso ci siamo noi in fila, quindi ci tocca appiattirci contro i muri e sperare in dio. Proprio mentre il serpente umano in uscita le si avvicina, la Cecca si posiziona frontalmente, per poi cambiare idea e mettersi di fianco nel tentativo di occupare meno spazio; mentre la folla le sfila di fianco, si riposiziona frontalmente e conclude: “Sono tonda”
La fortuna ci bacia, assegnandoci una guida che diventa immediatamente il moroso della Rinaldi: un omone grande e grosso che intrattiene il suo pubblico in inglese e francese. Ogni tanto dimentica di ripetere in una delle due lingue quindi c’è sempre qualcuno che chiede “cos’è che ha detto?”
Mentre la barca scivola sull’acqua noi, cullati dalla voce del pifferaio poliglotta, ammiriamo il panorama autunnale e fotografiamo fino a slogarci il collo, distraendoci solo raramente e per comprensibili motivi (la Cecca si è messa di nuovo gli occhiali finti senza preavviso).
Al momento del pranzo la compagnia si riunisce e troviamo un bistrot che offre omelette, insalate, tramezzini, insomma dovrebbe andare bene a tutti. Entriamo e si scopre immediatamente che non hanno tavoli per nove quindi dobbiamo dividerci tra due tavoli tondi con sedile circolare. Segue un sacco di “passami quello” “Dai qua” ecc.
Non avendo ancora preso un’omelette, mi lascio tentare da una con prosciutto e formaggio che, nonostante ne mangi solo metà, mi farà compagnia per molte ore a venire. In una sola parola: burro.
Si fa l’ora di partire per l’aeroporto di Bruxelles; riprendiamo le macchine e arriviamo senza grossi problemi al noleggio auto. Peccato che siamo a secco e non volendo pagare un milione di euro per la benzina siamo costretti a tornare indietro al distributore.
Una volta restituita l’auto, ci avviamo verso il terminal carichi di bagagli (e omelette). All’entrata c’è un bel cartello che avverte che tutto l’aeroporto è SMOKE FREE. La Berti, in evidente delirio tossico, cerca di convincerci che “smoke free” vuol dire che sei libero di fumare. Pur apprezzando la creatività, la copriamo di brutture e le facciamo spegnere la sigaretta. All’ingresso del terminal ci dà il benvenuto un tappeto di M&Ms che inizialmente ipotizziamo siano cadute a qualche bambino ma, essendocene una vagonata, è più probabile che fosse una squadra di calcio. Resistendo a fatica all’impulso di raccoglierle, dargli una spolveratina e via, procediamo verso il macchinotto del check-in. E a questo punto si presenta il problema dell’interfaccia tecnologica; in realtà non ci sarebbe nessunissimo problema (non è la prima volta che lo facciamo), senonché arriva una pazza furibonda travestita da simpatica assistente di volo la quale, con la scusa di prenotarci i posti vicini, combina dei casini mai visti, spargendoci alla boia del cane per l’aereo.
Il clou però arriva al momento di pesare le valige: ricorderete che la maggior parte di noi è partita con il solo bagaglio a mano (il principe no, la corona d’oro massiccio pesava troppo). Al ritorno imbarchiamo tutti, quindi ci pesano il bagaglio e si scoprono aumenti assolutamente inspiegabili, ipotizzo che ci abbiano usato per trafugare lingotti di piombo per una qualche strana ragione.
Sul volo da Bruxelles a Monaco tutto fila liscio, eccetto quando Claudio decide che vuole accendere il navigatore dell’iphone per vedere dove siamo; gli faccio presente che il navigatore si è perso più di una volta andando agli 80 sugli svincoli di Bruxelles quindi è improbabile che possa essere utile alla nostra attuale velocità di crociera (quelle stracentinaia di km/ora) ma lui decide di provare comunque. Mentre io mi copro gli occhi, prevedendo da un momento all’altro l’arrivo della hostess e il conseguente cazziatone per aver acceso apparecchiature elettriche in volo, Claudio accende il telefono ma scopre che il navigatore non è utilizzabile in modalità aeroplano. Resta la curiosità di sapere per quanto avrebbe scampanato a morto detto navigatore, impostato con un limite di velocità massimo di 130 km/ora.
Essendo che tra un volo e l’altro c’è giusto il tempo di un respiro, appena toccato terra ci lanciamo fuori dall’aereo e arriviamo correndo all’altro gate, per poi scoprire che il volo è stato ritardato per “motivi tecnici”. Dopo mezzora di attesa, sentendo per l’ennesima volta la scusa dei motivi tecnici, iniziano a fiorire ipotesi sulle reali motivazioni del ritardo, tra cui:

1)      “Il pilota è ancora ubriaco dalla festa di Halloween, in questo momento le hostess lo stanno prendendo a schiaffoni, tentando di farlo tornare in sé”;
2)      “La festa di Halloween era proprio sul nostro aereo e stanno passando l’aspirapolvere per nascondere le tracce dei bagordi”;

Quando finalmente ci comunicano che possiamo partire siamo decisamente provati (qualcuno di noi domattina lavora!) e strisciamo sull’aereo senza tante cerimonie.

Sembra impossibile ma atterriamo a Bologna; ovviamente a questo punto ci aspettiamo che ai nostri bagagli sia successo di tutto, che siano alle Fiji o sul K2 invece, dopo un’attesa piuttosto lunga, arrivano tutti sani e salvi. Ci attardiamo giusto il tempo di fare una foto al nostro “I pilastri della terra” sul nastro trasportatore e poi usciamo diretti alla navetta che ci porterà alle macchine. Peccato che non sia un’idea originale; al punto shuttle troviamo altre venti persone più o meno nelle nostre pietose condizioni. Siamo a un passo dalla rissa per un posto sul pulmino. Durante i venti minuti di attesa ci ripetiamo come un mantra che la prossima volta che si decide di andare in vacanza si guarda quali voli partono da Forlì (massimo Rimini) e si decide sulla base del volo più comodo, la destinazione ci rimbalza.
Arrivati finalmente alle macchine ci salutiamo rapidamente e dopo poco più di un’ora siamo, incredibilmente, A CASA.

A questo punto il resoconto dovrebbe terminare ma lungo il percorso sono andati smarriti alcuni dettagli che meritano menzione:

1)      L’idea del cerino acceso in bagno a cui dobbiamo la vita è arrivata dalla Clodia e non da Rico;
2)      In uno dei mille bar di Amsterdam dove ci siamo fermati per un tè c’era un barista matto da legare che ha tirato i piattini di ceramica a Rico e aperto la porta del bagno dando una manigliata in testa alla Toda;
3)      Nel bagno dell’appartamento di là, qualcuno faceva delle puzze così puzze che la gente scappava e ficcava la testa nelle scarpe alla ricerca di un po’ d’aria buona;
4)      Mi attardo a controllare internet dopo colazione e quando arrivo all’appartamento mi rendo conto che non ho le chiavi dell’ingresso e fuori piove; provo il cellulare ma nessuno di quelli di sopra risponde, mi salva il buttafuori del pub lì accanto, consigliandomi di fregarmene e suonare un campanello a caso fino a che non mi aprono;
5)      Durante la nostra visita di Brugge la Berti e la Cecca, incappottate e sciallose, si fermano ad ammirare la statua di Papageno. Rico le guarda, scatta una foto e urla “la Compagnia dell’Anello!”;

6)      L’autista della nostra macchina è sempre stata la Rini, quindi immaginate un po’ chi era quell’altra che voleva fermarsi a fare pipì al semaforo….
7)      La seconda sera Mauro arriva e chiede a Rico: “Avete dello shampoo da prestarmi? Il mio me l’hanno sequestrato all’aeroporto” Rico: “C’è un campioncino nel beauty” Risposta “Sì, nel beauty ci ho già guardato, ma avete portato solo quello?” Due pensieri: 1) Ha frugato nel beauty di un altro senza chiedere il permesso, appendetelo per i piedi e frustatelo, 2) Lui si è fatto sequestrare lo shampoo e si lamenta perché noi non ne abbiamo portato abbastanza anche per lui? Vedi frustate precedenti;
8)      Come una iattura, la cartolina della bambina brutta ci si è rivoltata contro; è arrivata per posta dopo qualche giorno. Il postino ha sofferto. Maledetta Rini, sempre un passo avanti!

lunedì 6 dicembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - quarta parte

La partenza per Bruges è prevista in tarda mattinata; ci alziamo per tempo in modo da finire la valigia e svegliamo Mauro dicendogli che si dia una mossa altrimenti si fa tardi.
Dopo un po’ il poveretto arriva con una faccia alquanto perplessa e chiede: “Ma l’avete messo l’orologio indietro di un’ora?”
Improvvisa impennata del numero di brutture giornaliere. Con tutto il bisogno di dormire che c’era, abbiamo buttato giù per il cesso un’ora di sonno. Boia l’ora legale e i nostri tre neuroni fancazzisti. Ma andiamo avanti.
Ovviamente, come in tutte le giornate di viaggio, c’è voluta una vita per arrivare a destinazione perché come sempre accade in gruppo, uno doveva andare in bagno, uno voleva il caffè, uno voleva il croissant, uno doveva fumare la sigaretta, uno affilava il coltello pensando a chi sgozzare per primo, tra quello del bagno, quello del caffè o quello del croissant, tanto quello della sigaretta ci pensavano già catrame e nicotina.
Abbiamo fatto una breve camminata verso la stazione e anche lì a ogni curva della strada dovevamo avere mille occhi altrimenti qualcuno rimaneva per strada (anch’io, a dir la verità); con il biglietto in mano ci dirigiamo verso la scala che porta ai binari mentre un gruppo di astuti prende l’ascensore per fare prima e non dover trascinare su i bagagli. Peccato che l’ascensore porti al binario di fianco. Pacchi di risate.
Arriviamo in aeroporto e via a prendere le macchine. Per un attimo ci illudiamo alla vista di una cinquecento rosa shocking ma non è la nostra macchina, sigh. Ci infiliamo nella seconda macchina tutti contenti con la Cecca al volante ma all’improvviso Mauro decide che nell’altra macchina in tre dietro stanno stretti e noi invece in due mooolto più larghi (loro hanno una focus, noi una fiesta, boh) quindi comincia a fare una gran scena che lui dietro non ci vuole stare. A quel punto alla sottoscritta che di pazienza non è che ne abbia da dar via, le girano gli zebedei (virtuali), quindi manda a cagare il sopracitato Mauro andandosi a sedere al suo posto nella focus. Il viaggio può finalmente cominciare.
Il nostro bolide condotto con mano sicura dalla Berti divora la strada con l’occasionale supporto del navigatore nel telefono di Claudio che si rivela di grande utilità in più di un’occasione; la strada è costellata di campi, torri eoliche, boschi, pecore, torri eoliche, mucche, torri eoliche. Qui le torri eoliche vanno molto.
L’unico neo del navigatore in questione è un’impostazione demoniaca per cui se superi di 1 km il limite di velocità suona un allarme che fa il rumore delle campane a morto, un po’ un monito “Chi va forte va alla morte”, che non contribuisce alla spensieratezza del viaggio. La radio però ci dà una mano con una programmazione che si fa dare del lei e a un certo punto io, la Clodia e la Berti ci troviamo a cantare a squarciagola “Hot stuff” ballando sguaiatamente nonostante le infamate del Principe e i sospiri rassegnati di Claudio.

E finalmente, dopo un lungo peregrinare, raggiungiamo Bruges che è in effetti molto pittoresca e molto ben tenuta, anche se un po’ cartolinosa. Check in e poi via in esplorazione, approfittando del bel tempo. Valanghe di foto, belle, brutte e soprattutto deficienti.

Probabilmente il fatto che sia il weekend dei morti spiega la folla oceanica che riempie il centro. In giro ci sono carrozze e cavalli che portano a spasso i turisti e le strade sono piene di negozietti di cioccolata, cartoline e merletti. Ora, non fraintendiamoci, non è che ci si auguri che un colossale incendio distrugga tutti i pizzi e i merletti di questo mondo e spazzi via coloro che li fabbricano; però qui non giri angolo senza sbattere in qualche vetrina merlettata, alla lunga è un po’ una maletta.
Arrivati alla piazza principale, guardandomi intorno, noto una fila chilometrica che finisce nel mezzo della piazza, intorno il nulla. Cos’è? Un’opera d’arte contemporanea? Scatteranno una foto con il satellite? La risposta arriva pacchianamente decorata e trainata da due cavalli: tutta questa gente in fila VUOLE essere scarrozzata in giro per la città su uno di quei cosi. Di fronte a tutto ciò tornerebbe utile il famoso incendio colossale di cui si parlava prima, facciamo tabula rasa e speriamo nelle nuove generazioni.
Ovviamente non può mancare la quotidiana sosta cum birretta; in questo caso però riuscire a trovare posto per nove persone ci costa parecchia fatica ma alla fine trionfiamo e ci sediamo intorno ai tavolini  di un bar all’aperto con vista sui canali della città. Il panorama è molto bello, la birra è buona, per non parlare degli scrocchini di dubbia origine ma decisamente masticabili; ciononostante, ci vediamo costretti a porre fine al magico momento, dovendo tornare in hotel a prepararci per la grande soirée che ci attende.
Sì, perché la Berti, che conosce praticamente mezzo mondo, ha due fornitori in zona (niente spaccio, niente contrabbando, solo trasporti) i quali, sapendo che si trova a Bruges, l’hanno invitata a cena e, informati della nostra presenza, hanno esteso l’invito all’intera compagnia.
L’inquietudine si fa strada; noi si era partiti convinti di fare un viaggio alla buona, quindi non è che si abbia in valigia roba da poter sfoggiare al ristorante. L’unica che avrebbe la mise adatta per la serata, la Gioia, l’ha indossata la sera prima al ristorante messicano e forse per scaramanzia, rifiuta di metterla di nuovo, non si sa mai.
Partiamo quindi tutti un po’ “informali”, eccetto la Berti che almeno ha una stola/foularino/pashmina che fa già vestito figo. La Rini, onde ovviare al problema, ha messo una maglia con una scollatura vertiginosa, confidando che nessuno si accorgerà di cosa indossa. Vorrei poter fare altrettanto ma purtroppo.
Partiamo alla volta di Zeebrugge (sul mare), sempre accompagnati dagli allegri rintocchi a morto del navigatore di Claudio il quale, dopo che la Berti gli ha chiesto di non metterle ansia mentre guida, ripete a intervalli regolari quanto manca all’arrivo, sottolineando quando il tempo di percorrenza aumenta. Tuttora ci si chiede come abbia fatto ad arrivare indenne al ristorante.
Entriamo e i camerieri vengono a prenderci i cappotti mentre noi ci scambiamo sguardi della serie “Oddio, dove siamo finiti, qui ci tolgono anche le mutande!”
I due ospiti, marito e moglie, sono già arrivati. Prendiamo posto a tavola e io, seduta di fianco alla Berti, alzando lo sguardo mi rendo conto che nessuno si è seduto a fianco della signora. Dico a Mauro di scalare di un posto, non possiamo certo trattarli come dei lebbrosi. Lui mi guarda col panico negli occhi e fa segno di no, che lui non sa una parola di francese. A risolvere la situazione ci pensa la Clodia che s’immola per la causa. Intanto la Berti è già in piena conversazione e brandisce minacciosamente un cocktail, mentre intorno a noi svolazzano miriadi di camerieri portando pane, burro, vino e alcuni centrotavola che reggono delle ciotoline con una strana salsa gialla. La studiamo perplessi, sarà una salsa per i crostini? Un intingolo per il fritto? Una crema da cucchiaio? Cosa diavolo è? L’unica è aspettare e vedere cosa fanno gli ospiti, i quali ospiti dopo un po’ prendono ciascuno una ciotolina e c’informano che trattasi di crema di zucca. Sospiro di sollievo.
Il vero momento magico, quello che resterà scolpito nella memoria della sottoscritta, arriva quando portano gli antipasti.
Faccio una premessa: la Berti, conoscendo i suoi polli, aveva chiesto il menù vegetariano per una persona e il cameriere aveva prontamente dichiarato la propria disponibilità. Sì, però il tapino non poteva sapere che noi si andava ben oltre il vegetarianesimo e giustamente, essendo ospiti, nessuno si è sentito di dirglielo. Ragion per cui, quando hanno portato gli antipasti, a noi sono toccate le crocchette al prosciutto e formaggio o le ostriche, mentre alla Clodia hanno servito una sontuosa insalata coperta da un palpabilissimo mare di cipolla. A casa Rini la cipolla è uno di quei cibi che se lo nomini dopo devi fare l’esorcismo quindi ci siamo trovati di fronte a un problema di galateo: dalla faccia della Clodia si capiva che mangiare la cipolla non era neanche pensabile ma, come evitare che l’ospite al suo fianco si rendesse conto della situazione? La soluzione ha richiesto uno sforzo di gruppo: la Clodia mangiava l’insalata evitando accuratamente la cipolla, mentre ogni tanto qualcuno di noi, Mauro tra tutti, chiedendo di assaggiarla, toglieva di mezzo parte della pestilenziale mostruosità.
La necessità si è ripresentata all’arrivo della portata principale, nel suo caso una pasta primavera disseminata di cavolfiori e altri ingredienti tabù, ma ormai il più era fatto, avevamo un sistema. Anche noi carnivori abbiamo avuto le nostre difficoltà: il mio filetto ben cotto era praticamente ancora vivo mentre il filetto al sangue della Berti era quasi carbonizzato, in quel caso è bastato un rapidissimo scambio di piatti e via andare. A quel punto però ci erano già passate per le mani almeno tre bottiglie di vino differenti, quindi si è fatto tutto un po’ confuso. A terminare la serata ci hanno pensato caffè e abbondanti ammazzacaffè e quando ci siamo congedati dai nostri ospiti e siamo saliti in macchina, pochi nutrivano concrete speranze di arrivare sani e salvi in camera, senza prima vedere da vicino un fosso belga.
Tra il livello etilico stellare di…un po’ tutti, il dannatissimo navigatore menagramo e il buio buissimo della notte, il viaggio di ritorno è stato un’impresa epica. A un certo punto qualcuno (non diremo chi) voleva scendere a fare la pipì, peccato fossimo fermi a un semaforo.
Contro ogni logica siamo riusciti a ritrovare l’albergo e a tornare nelle rispettive camere. Ci siamo attardati un momento in una camera (non diremo di chi) e mentre si chiacchierava allegramente qualcuno ha detto:”Mi sa che me la sono fatta addosso”. A quel punto per noi si era proprio fatta ora di andare a letto e abbiamo tagliato la corda al suono di: “Ecco, quando c’è da pulir dei culi se la filano tutti!”
Alla luce di questa travolgente esperienza posso affermare senza timore di essere smentita, che a noi la barriera linguistica ci fa una sonora pippa, che nonostante i due abbiano parlato francese per quasi tutta la sera (solo alla fine ho scoperto che parlavano anche inglese, dopo ore di sofferenza) abbiamo comunque fatto la nostra porca figura di italiani che sanno comunicare pure con le pietre. We rock.

sabato 4 dicembre 2010

Forse in miniera è peggio....forse

Qualche giorno fa mi chiamano per un lavoro: un'azienda ha bisogno di due interpreti per un meeting in una vicina città di mare. Fin qui niente di strano.  Dopo qualche ora scopro che il lavoro inizia alle 8 di mattina quindi dobbiamo essere là alle 7.30. Vabbè, una levataccia alle 5 ogni tanto non ti uccide. Peccato però che si lavori dalle 8 alle 19 con solo un'ora di pausa (dieci ore). Allora no, non voglio morire di sfinimento quindi chiedo la camera per la sera prima. Risposta, non c'è problema però dato che non possono spendere per l'attrezzatura per la simultanea (leggi pagare un tecnico) useranno un altro sistema ma senza la cabina per la traduzione.
Lo so che come introduzione è pallosa ma credetemi, serve.
In sostanza saremo sedute a un tavolino con un microfono in mano in una sala piena di gente e tradurremo per gli ospiti stranieri che ci sentiranno con le cuffie. Loro, perché noi col cavolo che abbiamo le cuffie, noi saremo in sala in mezzo al popolo bove.
Non so se avete presente cosa fa la gente alle conferenze: chiacchiera, legge il giornale, risponde al cellulare, starnutisce, tossisce ecc. E noi dovremmo cercare di capire cosa dicono dei tizi sul podio che spesso sono incomprensibili anche quando sei chiusa ermeticamente nel silenzio della tua cabina.
Vabbè, il lavoro è lavoro, forza e coraggio. Andremo io e Isabella.
Sono previsti 20 interventi e ovviamente chiediamo che mandino copia delle presentazioni che useranno; al momento della partenza verso la famosa cittadina, alle 20.30 di venerdì, ne abbiamo ricevuti ben 4. Allegria.
L'avventura parte bene, strada libera, tempo buono. Arrivo sul lungomare con la massima tranquillità, tanto chi vuoi che ci sia da queste parti in novembre? Una bolgia infernale. E' vero che è venerdì sera, ma cosa diavolo ci fa tutta sta gente qua? Lo scopro poco dopo; sono tutti diretti al mio albergo.
All'ingresso dell’hotel c'è uno che ha tutta l'aria del buttafuori; mi squadra e mi fa "Ciao, entra pure". Ora, non è che io me la tiri però mi chiedo:
a) chi diavolo è sto tizio?
b) cosa fa un buttafuori con tanto di auricolare davanti al mio albergo?
c) il buon vecchio Buonasera che fine ha fatto?
Entro e faccio il check in e, guardandomi intorno, mi rendo conto che dentro all'hotel deve esserci un ristorante o roba del genere, perché arrivano continuamente gruppi di gente tirata a balestra (oro e lustrini ovunque).
Mi danno la chiave e salgo in camera. Chiudo la porta e finalmente mi rilasso. Do un’occhiata in giro e niente da dire, la camera è grande, con un bel bagno. Il problema si pone al momento di dormire, quando spengo la tv: nel silenzio si sente una musica che pompa che non lascia dubbi, da qualche parte qui dentro c'è un locale notturno che fa un curioso casino.
Provo a spegnere la luce per vedere se la stanchezza ha la meglio; combatto per un'oretta ma non ho fatto i conti con il freddo polare della camera e il velo di copriletto a mia disposizione. Apro l'armadio per prendere la coperta. Non c’è'. La coperta non c'è! Un po’ come dire che si è seccato il mare, che la Nutella è blu e le Big Babol verdi. La coperta in hotel è una delle certezze della vita, di questo passo dove andremo a finire?!
Distrutta dalla stanchezza mi butto addosso il telo della doccia e, visto che il cuscino è un'ostia, prendo quello del letto di fianco e glielo metto sopra.
Adesso devo dormire, la sveglia suona alle 6.15 e sarà ormai l'una, dovrò dormire almeno qualche ora!!!
Spengo la luce e appoggio la testa sul cuscino che mi accoglie con uno spuntone non meglio identificato; allungo una mano e dopo aver tastato in qua e in là mi tocca ammettere l'incredibile: in questo cuscino c'è una molla di metallo. Perché? Chi mette una molla in un cuscino? Accendo la luce e lo esamino ma è cucito. Chi cuce una molla in un cuscino? Perché?
Non so bene quando ma a un certo punto crollo. Mi sveglio che è ancora buio, accendo il cellulare e scopro che sono le 5.36. Ma porc...adesso figurati se mi riaddormento. Dopo qualche tentativo poco convinto, accendo la luce e leggo.
Fortunatamente un libro l'ho portato, è "Orgoglio e pregiudizio e zombie" e francamente mi ci identifico abbastanza.

Incontro Isabella a colazione e poco dopo partiamo. La nebbia è fittissima e il paesaggio a dir poco spettrale, sarà un segno?Arrivate a destinazione scopriamo che, nonostante l'avessimo precisato, il tavolo per noi non è previsto; secondo loro dobbiamo stare sedute tra il pubblico in ultima fila con i computer sulle ginocchia. Va là che non è vero! Ci facciamo portare il tavolino ma pare sia troppo vicino al palco, il nostro sussurrare li disturba. Ma se noi sussurriamo e loro parlano col microfono! Misteri.
Mentre tentiamo di posizionare il tavolo in modo da vedere palco e schermo, arriva una tipa con tailleur inamidatissimo che, vedendoci lì sedute al tavolino fa una faccia come se avesse mangiato un limone e sbotta: “Ma io mi aspettavo che assumendo degli interpreti professionisti ci sarebbe stata anche la cabina! Alzo la testa e le rifilo un’occhiataccia delle mie, ribattendo gelida:” Francamente anch’io”
Iniziamo a lavorare sedute al dannato tavolino ma le proteste aumentano e a un certo punto mentre sto lavorando, Isabella mi fa capire che ci spostiamo in una stanza lì vicino. O almeno è quello che capisce quel decimo di cervello che può dedicarle attenzione. Invece quando vado di là scopro che ci hanno messo a lavorare al tavolo della reception! Non è una stanza ma l'ingresso dell'azienda! L'audio arriva da un televisore appeso al muro e quindi è strepitoso. Aggiungo che, nonostante il sabato l’azienda sia chiusa, passa puntualmente gente che sbatte porte, risponde al cellulare, accende la macchina del caffè, insomma, a parte i sacrifici umani, capita di tutto.
Passiamo buona parte del tempo a zittire quelli che passano di lì, lanciando occhiatacce a destra e a manca. Mi sento molto la signorina Rottermeier.
Dopo l’ennesima mezzora di lavoro, passo il testimone a Isabella e mi rifugio in bagno ma non sono al sicuro neppure lì; m’imbatto in una delle organizzatrici che mi comunica con la massima disinvoltura che può darsi che ci siano dei ritardi e lavoriamo più a lungo ma che ci pagheranno l’albergo per un’altra notte. Il solo pensiero di un’altra notte in quella ghiacciaia mi fa venire la pelle d’oca e le faccio capire senza mezzi termini che devono finire all’orario concordato perché più di dieci ore non si può lavorare, specialmente in quelle condizioni.
Ovviamente tutti i relatori arrivano con le loro belle presentazioni in power point piene di tabelle e grafici lillipuziani che, sul televisore della reception a cinque metri da noi, sembrano tante strane formichine.
Quando finalmente si fa ora di pranzo, siamo praticamente alla frutta. Raggiungiamo per tempo il buffet e riusciamo a vedere il tavolo prima che le cavallette lo spoglino. Ce n’è di ogni: coda di rospo, salmone, tagliolini allo scoglio, ravioli, carpaccio, pesci al forno, ecc ecc. Impossibile non chiedersi come sarebbero andate le cose se invece di spendere uno stramilione di euro nel super buffet pescioso, avessero optato per qualcosa di più semplice (e digeribile) e dirottato parte dei fondi verso il noleggio della cabina+tecnico. Non lo sapremo mai, in compenso mi trovo a sperare in un’intossicazione alimentare che metta fine alle mie sofferenze.
Il pomeriggio prosegue più o meno sulla falsariga della mattina, con solo qualche momento degno di nota:
a) nonostante ci avessero assicurato che l’azienda era chiusa, a un certo punto compare un ragazzo che ha tutta l’aria del corriere e, vedendoci al tavolo della reception, viene verso di noi parlandoci ad alta voce. Mi sbraccio come una forsennata e quello mi squadra come se mi avesse dato di volta il cervello ma almeno smette di parlare; lo trascino fuori e gli spiego la situazione. La faccia è un po’ dubbiosa ma almeno si avvia verso la cabina del custode (lui la cabina ce l’ha) e non lo vediamo più.
b) nel corso del pomeriggio mi levo la soddisfazione di zittire la tipa inamidata della mattina (aspettavo l’occasione da ore) e, per rilassarmi, nei momenti liberi inizio a scrivere questo resoconto, tra un’occhiataccia e un “shhhh!!!!!”

La ciliegina sulla torta arriva nel tardo pomeriggio: uno dei partecipanti esce dalla sala, si appoggia al nostro tavolo e viene colto da una crisi di tosse. Intere frasi che volano fuori dalla finestra. Evvai.
La frase più bella di tutta la giornata?

“E con questo abbiamo concluso”


mercoledì 1 dicembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - terza parte

La giornata di libertà inizia bene, il sabato i muratori non lavorano. Dopo la solita colazione affumicata e decisamente affollata, mentre un gruppo di eroi parte alla volta della casa di Anna Frank noi (che la casa di Anna Frank ci rimbalza) si parte verso il Rijksmuseum (caldamente consigliato da mio zio).
Arriviamo a destinazione dopo una stupenda passeggiata per le vie della città che al momento pare ancora addormentata. La mattinata promette bene.
Purtroppo non mantiene. Ad attenderci di fronte al museo troviamo una fila di quelle che ti fanno cadere le braccia, però pare si muova abbastanza in fretta quindi decidiamo di rimanere. Riusciamo a entrare proprio quando sta iniziando a piovigginare. Lo zio non me ne vorrà ma il museo in questione ti ricorda un po’ che esiste la morte. Sarà che nella nostra ignoranza non riusciamo ad apprezzare l’arte fiamminga, sarà che non avevamo la guida che ci guidasse, sarà che sarà che sarà, comunque una tristezza devastante, condita di gorgiere, occhiaie, e male di vivere. Il colpo di grazia ce lo dà il quadro di una bambina che sembra l’angelo della morte e ti ricorda che a questo mondo tutto è pianto e stridore di denti.
Il quadro della bambina brutta

A salvare la situazione arrivano alcune sale piene di case di bambole alte tre metri, perfette ricostruzioni delle case olandesi dell’epoca e un’ultima sala in cui esponevano i disegni dei vincitori di un concorso per illustratori di libri per bambini. Uno in particolare, un libro di sole immagini senza testi, ci ha restituito tutto ciò che avevamo perso nelle sale precedenti e quindi siamo usciti dal museo non proprio pimpanti ma quasi (ovviamente dopo aver acquistato una cartolina con il quadro della bambina brutta da portare come cadeau alla Rini).
Ci siamo avviati per raggiungere il gruppo delle donne che, dopo un’infruttuosa spedizione al museo A.F. (troppa fila) si era separato dagli uomini e procedeva diretto verso un mercato locale; prima però abbiamo fatto una breve sosta in un bar per un rapido spuntino a base di leverwurst (a me pareva Pressatella).
Abbiamo consegnato la foto della bambina brutta che ha avuto l’effetto atteso: sobbalzi, strabuzzamento d’occhi, segni della croce ecc.
Intanto si era fatta l’ora di pranzo e seppur stanchi per il tanto camminare, abbiamo esplorato i dintorni alla ricerca di un posto che andasse bene a tutti e sei (gli altri tre erano ancora in giro per conto loro). In questo caso il destino ci ha gettato un osso, avendoci bistrattato già abbastanza per quel giorno; abbiamo trovato un ristorante molto carino, tranquillo e oltretutto specializzato in zuppe (quello che volevo mangiare io!!!) dove abbiamo mangiato benissimo e ci siamo riposati a dovere. La mia zuppa col coriandolo fresco era buonissima anche se in diversi sostenevano che puzzasse di cimice (io non sniffo insetti abitualmente quindi non saprei).

Siamo tornati alla base sempre camminando, il modo migliore per godersi la città, anche se ogni tanto qualcuno sembrava lì lì per collassare e si temeva di dover buttare il corpo nel canale.
E’ importante precisare che l’esperienza è stata ancora più memorabile grazie a una luminosa iniziativa della Ceccarelli di cui non ho ancora fatto menzione ma che non posso certo ignorare. La gigina in questione ha approfittato di un momento di distrazione del popolo e si è infilata in un negozio dove ha proceduto all’acquisto di un paio di occhiali finti le cui lenti erano disegnate per dare l’impressione che dentro ci fossero gli occhi. E’ inutile tentarne una descrizione, le parole sono impotenti, date un’occhiata alla foto qui sotto e vi renderete conto da soli del genio.

Se li è infilati e poi ha iniziato a girarci intorno senza dire nulla. L’effetto è stato esplosivo. E non si è esaurito certo con la prima apparizione, una fonte di buonumore praticamente inesauribile al modico prezzo di euro 2,5. La Cecca regna, come sempre.
Una volta ripreso il controllo delle nostre facoltà (duramente provate dall’esperienza), abbiamo percorso un tratto di strada con la soggetta e i suoi occhiali che viaggiavano in testa al corteo (sempre scortati da qualcuno perché i due forellini che le permettevano di vedere non davano grandi garanzie e il canale non era poi molto distante). I fortunati che stavano dietro poteva godersi le facce dei malcapitati che li incrociavano: c’era chi scoppiava a ridere, chi distoglieva lo sguardo pensando che non fosse normale (e, diciamo la verità, non aveva tutti i torti) e chi la fissava come se non riuscisse a capire cosa stesse realmente guardando. I fumati ovviamente non facevano una piega.

Arrivati a casa e visto che il bel tempo teneva duro, mentre alcune rientravano in appartamento per le grandi manovre, noialtri ci siamo seduti a uno dei tavolini del pub sotto casa e abbiamo preso qualcosa da bere (leggi birrette), passando un’allegra mezzora a guardare la fauna locale che sciamava verso le vie del centro. C’era veramente di tutto. Al momento del secondo giro di beveraggi, la Cecca e Rico sono partiti verso la porta del pub, trovandosi però a dover fare la fila per entrare perché l’ingresso è vietato a chi ha meno di 16 anni e il buttafuori stava controllando i documenti di un gruppo di ragazzine davanti a loro. Io li osservavo da lontano, sembravano i prof che accompagnano le classi in gita.
Il buttafuori a testa bassa controllava i documenti uno a uno; quando è arrivato il suo turno la Cecca gli ha dato una tesserina (che ho scoperto dopo essere la chiave dell’appartamento) e lui ha alzato lo sguardo con un’espressione del tipo “Cosa fai mi prendi per il culo?” Quando ha visto la Cecca, è scoppiato a ridere e li ha fatti entrare. Ha continuato a ridere per parecchio. Anch’io.
Dopo un po’ ci ha raggiunto la Berti che voleva anche lei farsi una birretta però, come ha tenuto a precisare, “una pinta piccola”. Inevitabile il successivo massacro verbale a base di metri corti, chili leggeri e così via.

La sera ce la siamo presa comoda, chiacchierando e guardando la tv mentre una si stirava i capelli, l’altra se li arricciava e l’altra ancora rimpiangeva di non aver comprato la parrucca viola al mercato quella mattina. Quando finalmente siamo usciti per cenare era già parecchio tardi; dopo mezzora di discussioni, proposte e controproposte, qualcuno (per fortuna nessuno si ricorda chi) ha proposto un ristorante messicano lì vicino e il popolo, stremato dalla battaglia, ha approvato.
Taglio corto perché è inutile e doloroso rivivere il trauma; mi limito a pochi ma significativi dettagli per fare un quadro della situazione:
 a)      Le insalate che abbiamo ordinato non sono mai arrivate ma hanno tentato comunque di addebitarcele; ovviamente la Berti  li ha rimandati subito a casina loro;
b)      Il polpo era tenero quando un copertone di camion;
c)      La pannocchia di mais era bruciata, come pure il contorno di verdure della Clodia;
d)      Nella tortilla (si fa per dire) abbiamo trovato un guscio d’uovo.
 Come da manuale, il conto era pure salato.
Abbiamo abbandonato quel covo di rapinatori mugugnando e invocando a gran voce un controllo dell’Ufficio di Igiene locale; in mezzo allo scontento generale è arrivato il commento lapidario del Principe:
“Ci fotterono”.

Continua....

giovedì 25 novembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - seconda parte

Abbiamo salutato Claudio e il Principe che dormivano in una camera doppia nell’edificio principale del Bulldog e ci siamo incamminati verso i nostri due appartamenti qualche centinaio di metri più in là. Dopo la prima rampa di scale, praticamente verticale, in parecchi avrebbero dato un organo pur di avere valigie più leggere ma ormai era tardi. Mauro probabilmente ripensava alla botta di culo di quel sequestro di bottiglie all’aeroporto che l’aveva alleggerito di più di due chili di peso.
Gli appartamenti in stile nordeuropeo erano decisamente belli e ben tenuti; peccato per quella così nordica abitudine di separare stanza da bagno e toilette, la quale toilette diventa un loculo in cui si sta a fatica seduti. Nel nostro caso addirittura senza finestre, praticamente una camera a gas. Fortunatamente Rico ci ha svelato un segreto che ha permesso la sopravvivenza del gruppo durante i successivi tre giorni: se accendi un cerino, lo zolfo bruciandosi porta via anche gli odori più pestilenziali (se la situazione è disperata ne bruci due).
Dopo una breve pausa per darci una sistemata siamo ripartiti di gran carriera, diretti verso uno dei luoghi di culto della città, la friggitoria di patatine. Trattasi di negozietto dove per un paio di euro ti danno un cono di carta pieno di croccantissime e dorate delizie. L’unica avvertenza è non chiedere le salse perché:
1)      ti fanno pagare 70 centesimi in più,
2)      ci sono alcune salse che lo sa il cielo cosa c’è dentro,
3)      ti affogano le patatine e le mani rimangono unte per settimane.

Mangiare un quintale di carboidrati fritti annegati in litri di calorie salsose non è sport per principianti ma se riesci a sopravvivere puoi davvero partire alla conquista del mondo.
Io il paradiso me l'immagino così

L’ora successiva è trascorsa in giro per il centro e si è capito subito che girare in nove presenta alcune difficoltà di ordine logistico: c’è chi che vuole assolutamente vedere quella vetrina di scarpe, chi deve assolutamente fare la foto allo scorcio pittoresco, chi vuole assolutamente andare avanti alla ricerca del tal monumento, chi guarda assolutamente solo l’i-pod perché dentro c’è la guida e soprattutto, i soliti due che vogliono assolutamente andare a sedersi e farsi una birrina (leggi la Cecca e Rico). Insomma, assolutamente; in più c’è da dire che non siamo proprio una tribù di Watussi, quindi il rischio di perdere qualcuno per la strada sale esponenzialmente. Fortunatamente la Rini, che già è chilometrica di suo, ha pensato bene di portarsi in vacanza il suo famoso berretto nero con le orecchie e gli occhi da gatto (il berretto, non lei) quindi, come un faro nella notte, ci guida nella direzione giusta (o nella direzione che vuole lei).
Passiamo davanti alla piazza principale che ospita un luna park con tanto di castello degli orrori e calcinculo alto come un condominio, mentre al piano terra circolano tonnellate di zucchero filato rosa e giallo; per noi che di solito vediamo i luna park relegati alla periferia della città, trovarcene uno in pieno centro storico è uno shock culturale ma in fondo è per questo che siamo venuti, no? (sì, sì, anche per la birra…)

Data l’ora, le voci di coloro che vogliono fermarsi per la famosa birretta si fanno più insistenti e inizia la disperata ricerca di un locale che possa ospitare nove persone. La zona non è particolarmente adatta, essendo piena solo di negozi sciccosi (bar, ciccia), però dopo lungo peregrinare c’infiliamo in una viuzza e da quelle parti scopriamo un pub un po’ malandato e pieno di vecchi olandesi che puzza di una puzza non meglio identificabile. Perfetto. Entriamo, ci sediamo e stiamo già ordinando le birre.
Guardandomi intorno noto uno di quei distributori automatici di una volta, di quelli che mettevi dentro i soldi, giravi la rotella e venivano giù cicche, caramelle ecc. Impossibile resistere alla tentazione; mi avvicino e noto delle ciotoline di vetro lì vicino, il serbatoio sembra contenere delle mandorle. Inserisco i 50 centesimi richiesti e la ciotola si riempie di mandorle che paiono tali ma hanno una marcia in più, essendo affumicate.
L’esperienza del bar olandese si rivela decisamente positiva; passiamo un’ora piacevolmente seduti a dire stupidaggini varie e ce ne andiamo con l’unico cruccio di non essere riusciti a capire l’origine di quella misteriosa puzza che ha mantenuto una solida presa sui nostri vestiti (e capelli) anche una volta lasciato il locale.
Dopo un ulteriore giro e un animato dibattito su dove cenare, ci fermiamo in un take away giappo-cino-coreano con tavolini annessi. Siccome a una prima occhiata la Rini e la Berti non vedono cibo vegetariano, vanno nella rosticceria cinese a fianco e ordinano là, per poi unirsi a noi. Solo allora scoprono che:
a)      Quello che hanno ordinato lo cucinavano anche nel take away giappo cino…
b)      Uno dei cartoncini contiene un quantitativo di riso bollito che sfamerebbe una squadra di calcio giovanile.

Il problema di cui al punto b è comune: noi poveri sprovveduti che abbiamo ordinato una porzione ciascuno ci troviamo sommersi da tonnellate di roba da mangiare e, nonostante Farnedi dia il meglio di sè nel ruolo di  bidone aspiratutto, neanche lui può fare miracoli. A quel punto la Berti e la Rini (con suppongo il beneplacito della Cecca e della Toda) decidono di portare a casa i resti del cibo da consumare in un momento successivo (colazione, magari?). Ovviamente, nessuno ha più toccato la sbobba se non per gettare il tutto nel cassonetto dei rifiuti pericolosi prima di lasciare l’appartamento.

A questo punto, a rigor di logica, la città avrebbe dovuto spalancarci le sue notturne braccia e accoglierci nella movida più sfrenata (e devo dire che sembrava avere tutte le carte in regola per farlo); sfortunatamente, noi in quanto anziani e poco avvezzi a questi viaggi turbolenti, abbiamo deciso di tornare in camera, farci una tisana/caffè e terminare la serata in chiacchiere.
Claudio ha tentato un’opera di persuasione del popolo bove, il quale popolo però essendo bove non ne ha voluto sapere e si è diretto testardamente verso gli appartamenti, dopo una breve pausa in un negozietto per acquistare tè, tisane, zucchero ecc. Mentre alcuni acquistavano all’interno a prezzi da furto legalizzato (là legalizzano tutto), altri all’esterno contemplavano le meravigliose cartoline in vendita (un rettangolo coperto di pelo finto di vari colori) decidendo di mandarne alcune agli amici (ormai inevitabilmente ex amici).

La prima serata si è conclusa secondo programma; il mattino dopo ci siamo ritrovati nell’edificio principale del Bulldog per fare colazione; c’era un po’ di tutto, almeno quando siamo arrivati, dopo...le cavallette non fanno prigionieri. L’unico dettaglio non proprio graditissimo era il fatto di dover consumare tè e toast circondati da nuvole di mariagiovanna e parenti vari, consiglierei di investire in un aspiratore più potente.

Il comitato organizzatore ha deciso che quella mattina avremmo iniziato con una passeggiata per la città per ammirarne le tipiche abitazioni sbilenche affacciate sui canali e individuare quelle appartenute a individui celebri. Ottima idea, almeno per un’ora e mezza. Dopo circa 90 minuti il popolo ha iniziato ad accusare segni di stanchezza ma il suo capitano (leggi Claudio che era dotato di guida) ha proseguito con determinazione nel difficile tentativo d’instillare un po’ di cultura nelle loro menti (menti?). Vana speranza. Lo scontento serpeggiava tra le file mentre qualcuno, fiancheggiando il canale, meditava sulla possibilità di imboscarsi dietro una delle house-boat per poi dileguarsi. Alla fine, di fronte alla casa della cugina del nonno della lavandaia di Renoir, c’è stata l’inevitabile insurrezione  con conseguente ricerca di un bar ove riposarsi.
Relax a base di birra e tre porzioni di patatine. I lovaroni (Claudio e, credo, il Principe) ordinano bacon e formaggio.
Usciti dal bar, passeggiamo per un altro po’, dopodiché qualcuno suggerisce di cominciare a pensare a dove vogliamo pranzare, visto che siamo in tanti. Claudio ci guarda incredulo e chiede:”Perché, volete mangiare ancora?” Fortunatamente, la birra ha appesantito un po’ tutti e quindi nessuno lo butta nel canale, a riprova delle virtù miracolose di quest’antica bevanda.

Il pomeriggio lo si dedica alla visita del museo Van Gogh. Siamo appena entrati quando vedo Claudio che tira fuori il cellulare. Gli dico che non credo si possano scattare foto ai quadri ma lui ribatte che si fa sempre le foto di fianco ai quadri più famosi e per i successivi venti minuti ogni tanto lo si vede mentre gira per le sale tentando di eludere la sorveglianza dei custodi. M’immagino già la scena: io di fronte alle guardie e al direttore del museo che cerco di trovare una qualche scusa per impietosirli e fare in mondo che non gli facciano la multa. L’altra opzione sarebbe fingere di non conoscerlo e fuggire a rotta di collo nel caso lo becchino; ci penso per un momento e non la scarto.

Nella sala al pian terreno, seduta su uno dei divanetti e circondata da un capannello di donne, c’è la Rini che legge la descrizione delle opere; mi avvicino per sentire e noto che trattasi della Rini-guida, una personale e decisamente avvincente narrazione della vita e le opere di Vincent. La custode della sala squadra il gruppo con sospetto, sembra pensare che un assembramento così non promettere niente di buono; invece, l’attività esplicativa si mantiene discreta e accompagnata solo da qualche isolato scoppio di risate (del tutto giustificato).

A parte i soliti momenti, comuni a tutte le visite ai musei, in cui vorresti avere sotto mano un badile per ributtare a valle il troglodita che ti si piazza davanti (generalmente a max 10 cm dal quadro in questione) magari anche guardandoti male perché lo costringi a scavalcarti (poverino), l’esperienza è molto positiva. Poco a poco, ci ritroviamo al piano terra dove alcuni accoglienti divanetti danno asilo ai più provati tra noi.

La passeggiata pre-cena è molto piacevole ma termina, come da copione, in un vivace dibattito su dove mangiare; sempre camminando arriviamo davanti a un ristorante giapponese e, dopo attenta valutazione, decidiamo di entrare. L’attesa è lunga quanto un tavolo da nove ma alla fine riusciamo a sederci e gli omini del gruppo rimangono piacevolmente sorpresi nel trovarsi a dividere la tavolata con due giovani topolone, presumibilmente locali. Claudio dà prova di grande spirito d’iniziativa attaccando bottone immediatamente ma le due hanno praticamente finito di cenare quindi a breve l’idillio si spezza.
Segue meticoloso esame del menu nel tentativo di farsi un’idea precisa di cosa stiamo per ordinare (è scritto in inglese ma certi nomi sono giapponesi e allora addio); alla fine ci rassegniamo e ci buttiamo all’avventura. Con ottimi risultati (almeno per me).
Quando si fa ora di tornare al Bulldog, il gruppo si divide: alcuni prendono il taxi mentre un gruppetto decide di farsela a piedi nella speranza di digerire i quattro litri di zuppa di latte di cocco con frutti di mare, tofu fritto e chi più ne ha più ne metta.
Arrivati agli appartamenti, si tiene un consiglio di guerra il quale decide che, visti i variegati interessi del gruppo, domani sarà giornata libera. Si brinda alla decisione con varie tisane, tra cui una alla mariagiovanna comprata dalla Cecca che odora di piedi bruciati e un’altra con cannella  acquistata dal Principe che è invece molto buona e quando glielo dici il Principe ti guarda come dire “Bè, cosa ti aspettavi, l’ho comprata io”
Concludo la seconda giornata menzionando alcuni dettagli:
1)      la tv olandese ci viene tradotta in tempo reale dalla Berti che sospettiamo inventi le cose di sana pianta ma noi ci divertiamo un sacco anche così.
2)      Nonostante le abbiamo fatte analizzare da vari esperti (leggi Cecca, Mauro, Gioia, Berti, Rini, in pratica tutti quelli che c’erano in appartamento) non siamo riusciti a capire dove fosse l’interruttore delle abat-jour, magari erano a comando vocale, tipo apriti sesamo…
3)      I muratori che alle sette di mattina hanno iniziato a fare del casino li perdono solo perché avevo i tappi per le orecchie. Io.
4)      Con tutto quello che è successo non potevate aspettarvi che terminassi tutto in due puntate, il meglio deve ancora venire, e non parlo solo degli occhiali della Cecca…

martedì 9 novembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - prima parte

Questo reportage di viaggio sarà un po’ anomalo nel senso che cercherò di andare in fila, cronologicamente parlando, ma non faccio promesse, ho la memoria anarchica.
Viaggio così suddiviso: Volo bologna-francoforte-amsterdam, arrivo previsto verso le 14; tre notti ad amsterdam, indi partenza con macchine a nolo verso il belgio e brugge per l’ultima notte prima di ripartire con volo bruxelles-monaco-bologna. Tutto organizzato nei minimi dettagli dalla Berti (Santa subito), con la collaborazione della Rini (Santa tra un po’, forse, se impara a mangiare almeno la cipolla).

Ritrovo previsto alle 7.30 al Bevano ma la sera prima ci viene freddo ai piedi e monta l’ansia da partenza quindi arriva un sms che anticipa il tutto di UN’ORA. Avvisiamo Mauro che chiama allucinato dicendo”Ma perché partiamo alle 6.30 se l’aereo c’è alle 12.20?” Peccato che quello fosse l’orario di arrivo a Francoforte.
Comunque il giorno fatidico arriva e alle ore 6.30 il principe passa a prenderci; io esco di casa con il mio trolley, il giaccone e un annaffiatoio pieno d’acqua (non sto a spiegare la mia ossessione verde che ci vorrebbero dei giorni). E comunque l’annaffiatoio rimane a casa quindi il viaggio non lo riguarda.
La carovana di tre macchine e nove persone parte dal Bevano con le migliori intenzioni: Macchina numero 1: Berti, Toda, Mauro
Macchina numero 2: Cecca e Clodia
Macchina numero 3 Principe, Claudio, Rico e io
La Berti che fa strada (è l’unica che conosce l’ubicazione del parcheggio prenotato e non l’ha voluta rivelare a nessuno) decide di andare ai 100 perché ci si gode meglio il panorama e così la Rini viene meno mossa quando si fa l’autoscatto col cellulare; il principe costretto a rallentare scalpita come un cavallo prima del palio di Siena, smoccolando in varie lingue. E ovviamente a un certo punto, nel marasma della tangenziale, le perdiamo. Seguono altri vari moccoli.
Arrivati al parcheggio scarichiamo tutte le nostre cose mentre i tre valorosi autisti vanno a pagare il parcheggio. Arriva la navetta per l’aeroporto e notiamo che Mauro regge in mano un tomo spaventoso (I pilastri della terra di Ken Follett) del peso approssimativo di 4,5 kg. Indagando si scopre che si tratta del libro che la Berti ha portato da leggere, in quanti mesi non si sa. Il mattone in questione diventa immediatamente la mascotte della vacanza e viene fotografato ripetutamente.
Una volta arrivati sani e salvi al Marconi, ci sediamo nella hall  in attesa che inizi il check-in. Poco a poco, tramite gomitate, occhiatine cariche di significato e colpi di tosse, tutto il gruppo si accorge della signora che con l’aiuto dell’amica sta tentando di avvolgere la sua valigia nella pellicola trasparente, un po’ come fanno quei macchinini che ci sono negli aeroporti che t’imballano la valigia come se dovessi mandarla in guerra o nello spazio. Solo che la signora è turista fai da te e sta tentando di avvolgere il trolley usando un rotolo di pellicola da cucina. Niente di male, se non fosse che il trolley è grande e la signora no, quindi la costringe a piegarsi in ogni direzione nel tentativo di avvolgerlo tutto e la nostra eroina per questo suo viaggio ha indossato la tipica tenuta da viaggio: minigonna a pieghe e stivaletti con calze scure velate. Ad ogni piegamento si vede questo sedere che svetta orgoglioso e molto, come dire, nudo. Avrà il perizoma. Speriamo.
Dopo quest’inizio, diciamo insolito, partiamo alla volta del check-in e poi direttamente al controllo bagagli. C’è un po’ di fila, quindi ci separiamo, salvo poi riunirci alla fine del percorso e scoprire che:
come sempre, Farnedi l’hanno perquisito (sarà la faccia da terrorista),
pure Claudio che indossa gli stivali (che chiamano essere tolti),
E,
dico E,
Mauro ha tentato d’imbarcare, nell’ordine:
Una bottiglia di shampoo da 250 ml (a suo dire imbarcabilissima perché mezza vuota)
Una bottiglia d’acqua DA 1,5 LITRI.

Comunque, nonostante i vari tentativi, non hanno arrestato nessuno (anche se secondo alcuni volevano sequestrare i pilastri della terra in quanto arma di distruzione di massa, e che massa!) e siamo arrivati al nostro gate. Ovviamente, appena arrivai di là, le due tossiche del gruppo (leggi Berti e Cecca) sono partite alla ricerca (vana) di un posto dove fumare.

Una volta in aereo ci siamo resi conto che i nostri trolley non stavano da nessuna parte e che dei simpatici buontemponi si erano seduti nei nostri posti. Alla fine uno steward si è deciso a venire a vedere e gli abbiamo dato le valigie mentre, a forza di occhiatacce, gli squatter hanno mollato i nostri posti.
Appena atterrati, tutti sono schizzati in piedi pronti a precipitarsi fuori, peccato che i nostri bagagli fossero ostaggio dell’equipaggio e che l’unico pensile che non si apriva fosse quello contenente il giaccone e la borsa di Mauro.
Una volta arrivati a destinazione, il viaggio fino al centro città è stato tranquillo, i veri problemi sono iniziati all’uscita della stazione, quando il gruppo è entrato in contatto con la città e soprattutto con le sue mille vetrine; ogni due minuti qualcuno si fermava a guardare qualcosa (c’erano decinaia di friggitorie che vendevano delle patatine fritte atomiche, come facevi a non fermarti in religiosa contemplazione?); commento del Principe: “Per me in hotel arriviamo stasera verso le otto”
E invece, nonostante gli erotic shop e le altre amenità varie incontrate lungo la strada, siamo arrivati che era ancora giorno e, dopo aver fatto il check-in con una receptionist incazzata come una biscia (probabilmente le avevano rubato la sua copia dei pilastri della terra e non se ne faceva una ragione), siamo riusciti a mollare le nostre cose e a partire alla scoperta del luogo (e che luogo).
Il resto alla prossima puntata….

Compagno inseparabile
 

martedì 26 ottobre 2010

Terrazza con vista e predisposizioni

Oggi facciamo colazione al bar e sul tavolo c'è La Voce di Romagna; il tuo primo errore è girare la pagina ma ancora non puoi saperlo.
Il titolo recita Terrazza con vista e a seguire trovi un paio di fotografie che ritraggono due fanciulle, a dir poco prosperose, con la canottierina iperscollata di ordinanza e il sorriso Durbans a trentadue denti. Finora tutto regolare, purtroppo, quando apri certi giornali è sempre di quella. Se non fosse che l'occhio cade sulle didascalie delle foto.

Didascalia n. 1:"Laura: bellezza italiana viene da Napoli e ha una particolare predisposizione per i tatuaggi. Qui se ne intravede uno sotto la canottierina anche se, ovviamente, di lei si fa caso ad altro.
Didascalia n.2:"Patty: anche lei sventola il tricolore, ma stavolta la provenienza è toscana, Con tanto di sorriso che non ammette diverse interpretazioni. Ama giocare e scherzare. E chi non giocherebbe con lei?"

Tra la miriade di interrogativi che questa pagina suscita a prima vista, alcuni sgomitano per le prime posizioni:
1) La particolare predisposizione per i tatuaggi in cosa consiste esattamente? Le vengono se sta troppo al sole? Spuntano come funghi durante la notte?

2)Con tanto di sorriso che non ammette diverse interpretazioni...cosa diavolo vuol dire?

3) Non c'era un'avvistamento alieno o un trapianto di piante dei piedi che potesse prendere eroicamente il posto di questa sottospecie di, quest'accozzaglia di, questo...chiamiamolo articolo?

A completare l'opera arrivano alcuni tra i titoli delle colonne laterali:

UOMO MENO SEXY CON TROPPE SORELLE IN CASA
VIVE CON DUE PARTNER E FA SESSO ALTERNATO
TROPPO HARD LA MASCHERA DI NAPOLITANO

Ecco, in quei giorni in cui vi sembra che tutto vada a rotoli, sfogliate la copia del giorno così vi fate due risate. Per sicurezza andate in biblioteca dove potete leggerlo gratis, perché temo che pagare un euro per averlo si possa considerare istigazione a delinquere.

venerdì 8 ottobre 2010

Saluti Calvario a voi

Questa è una mail che ho ricevuto qualche giorno fa. Non avendo, sfortunatamente, la possibilità di accorrere in aiuto della benedetta nel signore Sig.ra Mary Joseph, dovendo combattere il colera, Ebola e un'unghia incarnita, metto a disposizione questa toccante lettera a chiunque stia passando una giornata un po' così. Fatevi quattro risate e magari mandatemi una cartolina dalla Costa D'Avorio quando sarete miliardari.

P.S. Non fate cazzate, che la Bibbia è contro.


Più caro nel Signore,
Saluti Calvario a voi nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Sono la signora Mary Joseph dal Kuwait. Ero sposata con Mr. John Joseph, che ha lavorato con l'ambasciata del Kuwait in Costa d'Avorio per nove anni prima di morire l'anno scorso. Ci siamo sposati da undici anni senza un bambino. Mio marito è morto dopo una breve malattia che è durata solo quattro giorni. Prima della sua morte, siamo nati di nuovo i cristiani.

Mia caro, lo so che sei sorpreso nel ricevere questa lettera, ma come un figlio del Dio vivente, si dovrebbe sapere che le nostre strade non sono le sue vie. La Bibbia mi dice che lavora in molti modi e tutto funziona al bene di coloro che hanno creduto in Gesù Cristo. Neonato, è anche il leader dello Spirito Santo di Dio che ho scelto voi in obbedienza e l'amore per soddisfare il desiderio del mio defunto marito, che ho sostenuto per la gloria di Dio. Voglio capire che questa benevolenza è in adempimento del desiderio e la decisione del mio defunto marito che io sono convinto di attualizzare.

Dopo la morte del mio amato marito, ho deciso di non risposarsi o avere un figlio fuori dalla mia casa dei coniugi, che la Bibbia è contro. Quando mio marito era vivo ha depositato la somma di dollari 2, 5 milioni dollari (due milioni cinquecentomila dollari) in una banca qui a Abidjan, Costa d'Avorio. Attualmente, questo denaro è ancora in banca.

Recentemente, il mio medico mi ha detto che non sarebbe durato per il periodo di nove mesi a causa del mio problema cancro. Quello che mi disturba di più è la mia malattia ictus. Aver conosciuto la mia condizione, ho deciso di donare questo fondo ad una organizzazione di carità, la chiesa, organizzazione cristiana, o di un vero credente, che utilizzerà questi soldi la strada che sto per istruire qui.

Voglio che questo fondo da utilizzare per gli orfanotrofi, scuole, chiese, le vedove, e il privilegio di persone in meno di moltiplicazione della parola di Dio e per assicurarsi che la casa di Dio è mantenuta. La Bibbia ci ha fatto capire che "Benedetto è la mano che dà". Ho preso questa decisione perché non ha nessun figlio che erediteranno questo denaro e mio marito, i parenti sono increduli e non voglio che gli sforzi di mio marito per essere utilizzati da non credenti.

Non voglio una situazione in cui questi soldi saranno utilizzati in modo empi. È per questo che mi prendere questa decisione. Io non ho paura della morte, quindi so dove sto andando. So che sto per essere nel seno del Signore. Esodo 14 VS 14 dice che "Il Signore combatterà il mio caso e mi tiene la mia pace". Non ho bisogno di alcuna comunicazione telefonica in questo senso a causa della mia condizione di salute e la presenza di parenti di mio marito è sempre intorno a me cercando di rivendicare questo denaro da me che mio marito partì per me. Io non li voglio sapere di questo sviluppo. Con Dio tutto è possibile.

Io voglio che tu a gestire da soli perché la mia salute non può permettere che a me come mi sono stati immessi in dialisi visita medica periodica. Anche io sto scrivendo questa lettera con l'assistenza di una sorella che utilizza per aiutare me. Io voglio che tu mandami il tuo nome, cognome e indirizzo in modo che posso giurare di una dichiarazione giurata, sotto giuramento, che ufficialmente e legalmente riconosciuti voi come lo parente più prossimo a questo fondo che, anche se io sono morto il vostro reclamo per il fondo nel la banca non sarà in dubbio. Sarò inviando la dichiarazione giurata del giuramento e il certificato di deposito di questo fondo subito dopo la deposizione è pronto.

Non appena riceveremo la sua risposta ti darò il contatto con la banca in Abidjan Costa d'Avorio, dove questo denaro è stato depositato dal mio amato marito. Farò anche questione è la dichiarazione giurata del g iuramento che giuridicamente e approvare ufficialmente che il parente più prossimo e nuovi beneficiari al fondo insieme con il certificato di deposito di questo fondo, che il mio defunto marito utilizzato per pagare i soldi in banca. Voglio che tu sempre pregare per me perché il Signore è il mio pastore.

La mia felicità è che ho vissuto una vita degna di un cristiano. Chiunque che vuole servire il Signore deve servirlo in spirito e verità. Si prega di essere sempre preghiera per tutta la vita. Qualsiasi ritardo nella sua risposta mi darà spazio ad approvvigionarsi di un'altra persona con il medesimo scopo

Sperando di ricevere la vostra risposta urgente. Restano benedetta nel Signore. Suo in Cristo Signora Mary Joseph.

martedì 27 luglio 2010

E a chi osa cambiare operatore, legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti


Importante premessa: lo so che cambiare operatore telefonico comporta sempre una serie infinita di
beghe, e so pure di non essere un fulmine di guerra per quanto riguarda la tecnologia, ma qui siamo arrivati ai confini della realtà.
Cominciamo dal principio: da qualche tempo il fatto di non poter controllare la posta mentre sei fuori per lavoro sembra diventato un dramma, non a livello della fame nel mondo ma quasi quindi, mio malgrado, comincio a considerare la possibilità di fare uno di quegli abbonamenti che includono la connessione a Internet.
A una cena un amico mi dice che ha l’abbonamento con Tre e si trova bene. Ok.
Vado al negozio e spiego al tipo che quello che mi serve è un abbonamento che mi permetta di ricevere/mandare mail e navigare con il PC usando il cellulare come modem (per fare ricerche mentre lavoro, ve lo spiego un’altra volta).
Lui risponde che non c’è problema, l’abbonamento che mi propone mi permette di fare quello che mi serve e siamo tutti felici.
La conversazione prosegue così:

Io: “Al momento ho un telefono preistorico, appena comprato quello nuovo, torno e faccio l’abbonamento”
Lui: “Se vuoi c’è questo telefonino a soli 89 euro che per quello che ti serve va benissimo”
Io: “Ok, perché no?*”

Gli do i dati per la fattura del telefono e sovrappensiero gli chiedo se gli serve anche la partita IVA (Perché? Perché? Signore Benedetto, Perché?)
A quel punto lui mi consiglia un abbonamento business che mi permette di scaricare una parte maggiore della spesa, anche se ha una tassa mensile superiore.
E’ mezzora che sono lì dentro e non capisco più niente, accetto. (Perché? Perché? Signore Benedetto, Perché?)
Chiedo quanto ci vorrà per il passaggio a Tre. Risposta, qualche giorno, max una settimana.
Torno a casa felice. Ah, l’innocenza, che tenerezza.

Dopo due settimane di silenzio torno in negozio e dopo un’attesa di mezzora (negozio molto gettonato) chiedo spiegazioni.

Lui: “Siccome per il tuo vecchio operatore eri cliente privato e noi chiediamo l’abbonamento business, gli serve la tua partita iva”
Io: “Allora cosa faccio, passo a portargliela?”
Lui: “No, no, posso farlo direttamente io”

Passa un’altra settimana. Nel frattempo mi sono accorta che il cellulare non mi permette di navigare, né di vedere la posta. Bene. Torno al negozio (ormai sono come Lassie). Altra mezzora di fila.

Lui: “Hanno fatto delle storie, la partita iva devi portarla tu personalmente”
Io: “Sgrunt. Ah, ho un problema col telefono, non mi permette di navigare. Non è la sim perché l’ho messa in un altro telefono e lì funziona”

Risposta strepitosa dell’uomo:

“Ma sai, i telefoni come questo sono molto basici, non le hanno certe funzioni”

OH, GAGIO, GUARDA CHE ME L’HAI VENDUTO TU!

Gli faccio presente la cosa e lui, con una faccia di bronzo che ci spacchi le noci di cocco, ammette che di questo tipo di telefoni (riferito ai basici) non ne sa molto ma c’è un suo amico che ha un negozio Tre a Bellaria-Igea e che forse può aiutarmi. Mi sento su Scherzi A Parte, solo che nessuno salta fuori urlando “Sorpresa!”

Vado al negozio del mio precedente operatore per comunicare questa benedetta partita IVA; sono piuttosto arrabbiata e me la prendo col commesso, salvo poi capire che il casino l’ha fatto quello di Tre non comunicandomi che è prassi, in questi casi, che io fornisca una visura camerale che attesti che ho partita iva. Quindi perché diavolo mi hanno mandato lì? Me la sono presa con la persona sbagliata. Senso di colpa monumentale seguito da accidenti di vario genere al tipo del negozio Tre. I suoi capelli hanno i giorni contati.

Qualche giorno dopo vado a Bellaria al famoso negozio Tre dell’amico. Purtroppo, proprio quel giorno, ha chiuso il negozio per andare a un corso di formazione. Il pensiero di farla finita fa capolino ma trovo la forza di reagire e torno smadonnando verso casa.
Segue altra spedizione a Bellaria, stavolta il negozio è aperto: in questo caso trovo una persona competente e disponibile, che però quel tipo di telefono non lo vende neppure ma si fa comunque in quattro per aiutarmi e mi risolve almeno il problema della visura camerale (cosa che avrebbe dovuto saper fare anche il suo “collega”). E’ già qualcosa. Esco prostrandomi in ringraziamenti e torno a casa considerando seriamente la possibilità di buttare il telefono in un canale e dimenticarmene. Il mastino che è in me si oppone, non avrò speso tanto ma mi scoccia farmi prendere in giro.

Torno a casa e comincio a cercare informazioni su Internet. Guardando il cell di Enrico, parecchio simile al mio, vedo che ha un browser (Opera Mini) che nel mio non c’è. Me lo scarico e perlomeno così riesco a navigare e a vedere la posta tramite il Web.
Per il momento mi accontento ma continuo le ricerche.
Passa altro tempo e trovo un sito dove fanno recensioni di cellulari. Leggendo i commenti scopro che proprio questo modello Nokia, se acquistato presso i negozi Tre, manca di alcune funzioni che dovrebbe avere, secondo il manuale.

Torno al negozio. Per fortuna in Italia il porto d’armi te lo fanno sudare, altrimenti un pensierino…

Messo di fronte all’evidenza dei fatti, il nostro eroe non fa una piega e mi informa tranquillissimo che lui non si occupa dell’assistenza e che devo andare al negozio Tre che c’è a Cesena in via Matteotti (c’è un altro negozio Tre a Cesena? Allora perché mi ha spedito a Bellaria? Cos’è, un sadico?!!).

Quando finalmente arrivo al negozio che fa assistenza e spiego la situazione, il commesso commenta che questo modello basico non supporta certe funzioni.
Faccio un respiro profondo, apro la pagina del manuale dove è scritto che dentro “Messaggi” c’è la voce “email” e poi li invito a trovarla nel mio telefono.

Dopo qualche minuto il tipo mi guarda e fa: “In effetti non c’è” (Ma va!)

Chiedo quanto ci vorrà per ripararlo. Risposta: minimo due settimane. Faccio presente che ho bisogno di un telefono sostitutivo e mi presentano un modello giurassico che probabilmente va a carbone. Indago:

“Ma questo si collega a Internet? Può mandare le mail?”
“No, noi forniamo solo un telefono che permette di telefonare e mandare sms”
“Ma io da voi ho comprato un telefono per navigare e pago un abbonamento per un servizio che include la connessione a Internet. Posso almeno sospendere l’abbonamento, se non lo uso?”
“No, ma credo che questo telefono su Internet ci vada”

Non ne posso più. Prendo ‘sto telefono e me ne vado. Se questo coso mi permette di vedere le mail io sono Zorro. Per fortuna in estate non ci sono molte conferenze quindi sono a casa e la posta la posso controllare dal pc fisso.

Meno di due settimane dopo mi arriva un sms, il cell è pronto. Sono sbalordita. Vado a ritirarlo e sembra tutto risolto: navigo senza problemi e, una volta inseriti i parametri per la posta, riesco a scaricare le mail sul telefono. Funziona anche come modem. Sto per gettarmi un una sfrenata danza di felicità ma mi accorgo che la mail di risposta che ho inviato a una collega non è partita. Cavolo.
Faccio qualche prova e scopro che il cellulare riceve mail ma non le invia.
Sto per mettermi a piangere. Davvero. Ripensandoci, se in quel momento non ci fosse stato Enrico adesso sarei calva, il muro avrebbe delle crepe e la mia testa un sacco di lividi. Mi convince a mantenere la calma (almeno un po’) e qualche giorno dopo scopro, parlandone con un amico, che dovendomi collegare a Tre per inviare i messaggi, la configurazione del server in uscita deve essere quella di Tre. Ok, errore mio (vedi fulmine di guerra e tecnologia). Imposto smtp.tre.it e riprovo. Niente. AAAAAAAAAAAAAAAAA!!!!!!!!!!!!!

Dopo aver controllato di non avere bambole Voodoo sotto il letto, vado sul sito di Tre e mando una mail chiedendo la configurazione per la posta in uscita. Come richiesto, indico il mio numero di cellulare.
Arriva la risposta: gentile cliente….la configurazione è: smtp.tre.it.
Allora ci prendiamo in giro!
Prendo il cellulare e chiamo il 139 (facendomi violenza perché i numeri dell’assistenza ricordano molto i gironi dell’inferno: aspetti per un’eternità ascoltando sempre la stessa canzone, una punizione che Dante si mangerebbe le dita per non averci pensato lui).
Mi risponde un’operatrice cortese che, appena capito il problema mi chiede che configurazione ho usato e poi mi rivela che, ESSENDO IO CLIENTE BUSINESS (com’è che lei lo sa e il gigino che risponde per mail no?), devo digitare smtp.tre.BIZ. La ringrazio, riattacco e provo. E, mi venisse un colpo, funziona.

venerdì 26 febbraio 2010

Certe esperienze lasciano il segno

E' domenica e, vista la bella giornata con tanto di cielo turchino ecc ecc, decidiamo di andare a fare una corsettina in giro per la campagna.
Partiamo belli pimpanti e tutto sembra procedere bene finché, arrivati di fronte a una ridente casetta tutta recintata ma priva di cancello, ne esce un botolo peloso che, dopo averci abbaiato a morte da dentro il giardino, aspetta tranquillo che passiamo e poi azzanna allegramente il mio polpaccio.

Mi fermo, incredula, che io ricordi non mi aveva mai morso nessuno (nessun cane intendo, all'asilo succedeva di continuo ma lì c'era la guerra e poi ne davo tanti quanti ne prendevo).
Enrico mi guarda come a dire:"Vedi che avevo ragione, dovevamo fare un'altra strada", ma lo si perdona, in fondo l'ammasso di pulci in questione l'ha morso appena un anno fa.

Il botolo si allontana, presagendo rappresaglie. Suono il campanello ed ecco comparire la padrona col suo grembiulino. Le spiego brevemente l'accaduto.
Il suo commento:"Ah, è che lei è bastarda così"
E basta.
La guardo allucinata. Le faccio presente che non è la prima volta che succede, che se la cagna è abituata a mordere le persone può essere pericolosa, se passa un bambino o un anziano in bicicletta...dovrebbe mettere un cancello o legare l'animale.
Risposta "A dì, non so perché, lei morde solo certa gente"

Sono ancora lì che rifletto su quel "certa gente" (gli alieni? i podisti vestiti di verde?) e già sento la belva che mi ribolle dentro pronta ad avventarsi sulla vecchia. Riesco quasi a vedermi con una tanica di benzina che appicco fuoco alla casa, mando il cane nel fosso con un calcio e sorridendo dico alla signora: "è che io sono bastarda così"
Poi la società m'imbriglia di nuovo e a malincuore mi allontano. Per oggi niente rappresaglie cruente. Ma la prossima volta che passo di lì se quel botolo si azzarda ad avvicinarsi gli do un calcio che lo spedisco sulla luna*.



*Io e porgi l'altra guancia non siamo parenti.

sabato 13 febbraio 2010

Se Ulisse avesse volato British Aiways, Itaca non l'avrebbe vista neanche col binocolo

E finalmente, dopo giorni di preparativi e imprevisti da risolvere, è giunto il momento della partenza: si va in Islanda per una settimana di convegni.
Arriviamo a Malpensa e si nota subito un'atmosfera molto Shining: spazi enormi e quasi deserti, senza neanche un bambino in triciclo.
Dopo qualche giro a vuoto (non infierisco sulla segnaletica perché non ho tempo) arriviamo al banco British Airways: tre hostess E BASTA, neanche un passeggero. Perfetto, niente fila. Presentiamo il nostro biglietto (scalo a Londra poi Reykjavik) al check-in ma non possono servirci subito, una delle hostess sta intrattenendo le colleghe con il racconto del suo viaggio a New York e le si può capire poverine, chissà che palle tutto il giorno a scaldare sedie in questo androne (va là che un mese in miniera...).
Alla fine la situazione si sblocca e, quando finalmente prendiamo posto sull'aereo, mi giro verso Maura e commento soddisfatta "ce l'abbiamo fatta, ormai siamo a posto"

Arrivate a Londra, cerchiamo il volo per Reykjavik (che ovviamente è in un altro terminal) e solo dopo essere arrivate al controllo passaporti ci rendiamo conto che le care signore della British ci hanno fatto il check in solo fino a Londra (senza informarci, ovviamente).
Torniamo al terminal di arrivo ma il nostro bagaglio è già stato tolto dal nastro, quindi dobbiamo aspettare un tipo della sicurezza perché ci accompagni. Non solo, dobbiamo fare un altro controllo con metal detector ecc, sono le regole.
Siamo in lotta contro il tempo, rischiamo di perdere l'aereo ma sono le regole. Vabbè. Faccio per sfilarmi cintura e orologio e IL TIPO CHE STA AL CONTROLLO mi dice: "No, non c'è bisogno, vai pure". Ok,  allora passo. Ovviamente suona il detector e MI PERQUISISCONO E MI FANNO TOGLIERE LE SCARPE!!!!
E secondo voi il decerebrato della sicurezza dice qualcosa? Ma va là. Mi consola pensare che abbia ormai perso parecchie appendici a cui teneva. Intanto noi abbiamo perso minuti preziosi.

Arriviamo al mucchio di valigie n°11 ma delle nostre non c'è traccia. Si comincia a sudare freddo. Mentre ci guardiamo intorno disperate, Maura vede passare su un altro nastro la sua valigia. Urla. Dopo poco segue la mia. Le afferriamo e cominciamo la corsa più interminabile che io ricordi. Dobbiamo raggiungere il treno che porta all'altro terminal, trascinandoci dietro la valigia e portando in spalla il bagaglio a mano che, date le precedenti esperienze in materia, è stipato a morte in caso di smarrimento del bagaglio principale.
Forse sarebbe stato meglio lo smarrimento.
Quando arriviamo al binario scopriamo che il treno E' FERMO PER UN CONTROLLO DI SICUREZZA.
Il treno riparte dopo 15 interminabili minuti. Io intanto ho coltivato l'ulcera.
Sul treno, ormai distrutte, elaboriamo un piano: appena scese, lascerò le valigie a Maura e correrò più veloce possibile al banco del check in di Icelandair, sperando di arrivare in tempo.
Corro, corro e quando arrivo al banco la tipa mi informa che il check-in è chiuso da due minuti. Le spiego la situazione e lei mi risponde che è inutile che mi agiti, se è chiuso è chiuso, noi italiani ci agitiamo troppo*. Voglio ucciderla.
Fortunatamente, un residuo di umanità la spinge a telefonare giù ai tipi dei bagagli. Frase di esordio: "Ormai è chiuso vero?!" invece le rispondono che CI SONO ANCORA CINQUE MINUTI e io a quel punto sto per collassare.
Le lasciamo le valigie (la mia non ha più l'etichetta, si è strappata correndo, se me la perdono è finita) e ricominciamo a correre per arrivare all'imbarco.
E ci imbarchiamo. Non ci posso credere, ce l'abbiamo fatta. Arrivate sull'aereo spero ardentemente di non avere vicini di posto perché puzzo come una capra. Prima del decollo mando un sms all'organizzatrice per chiedere il nome dell'albergo (non ce l'ha ancora detto). Mi risponde che non staremo in quello previsto ma in uno lì vicino e comunque di non preoccuparci, ci sarà una navetta ad aspettarci in aeroporto.

Una volta atterrati (è mezzanotte e siamo in giro dalle 9 di mattina, sono un fiore), troviamo effettivamente un pulmino che ci aspetta e che spazza via le nostre ultime ansie.
Partiamo. Dopo qualche minuto l'autista, con la massima naturalezza, ci informa che il viaggio durerà DUE ORE. Saremo in albergo verso le due di notte. Il convegno inizia alle 8.30. Non ho più neanche la forza di incazzarmi, non ho più niente. Mi addormento. O perdo i sensi, non lo so.
La terra promessa
Mi sveglio mentre il pulmino parcheggia davanti al resort dove si terrà il convegno, scarichiamo le valigie e, una volta entrati, l'incaricato alla reception ci informa che non sa niente di noi, abbiamo sbagliato albergo. Peccato che nessuno sappia in quale albergo dovremmo stare, né noi né l'autista a cui hanno detto di portarci lì. Siamo come Maria e Giuseppe la vigilia di Natale.
Mosso a compassione dalle nostre facce (e non sapeva neanche la metà della storia), il sant'uomo alla reception ci offre una camera per quella notte. Vorrei baciarlo ma sono troppo stanca, guadagno il letto augurandomi che, davvero, domani sia un altro giorno.