Gli appartamenti in stile nordeuropeo erano decisamente belli e ben tenuti; peccato per quella così nordica abitudine di separare stanza da bagno e toilette, la quale toilette diventa un loculo in cui si sta a fatica seduti. Nel nostro caso addirittura senza finestre, praticamente una camera a gas. Fortunatamente Rico ci ha svelato un segreto che ha permesso la sopravvivenza del gruppo durante i successivi tre giorni: se accendi un cerino, lo zolfo bruciandosi porta via anche gli odori più pestilenziali (se la situazione è disperata ne bruci due).
Dopo una breve pausa per darci una sistemata siamo ripartiti di gran carriera, diretti verso uno dei luoghi di culto della città, la friggitoria di patatine. Trattasi di negozietto dove per un paio di euro ti danno un cono di carta pieno di croccantissime e dorate delizie. L’unica avvertenza è non chiedere le salse perché:
1) ti fanno pagare 70 centesimi in più,
2) ci sono alcune salse che lo sa il cielo cosa c’è dentro,
3) ti affogano le patatine e le mani rimangono unte per settimane.
Mangiare un quintale di carboidrati fritti annegati in litri di calorie salsose non è sport per principianti ma se riesci a sopravvivere puoi davvero partire alla conquista del mondo.
Io il paradiso me l'immagino così |
L’ora successiva è trascorsa in giro per il centro e si è capito subito che girare in nove presenta alcune difficoltà di ordine logistico: c’è chi che vuole assolutamente vedere quella vetrina di scarpe, chi deve assolutamente fare la foto allo scorcio pittoresco, chi vuole assolutamente andare avanti alla ricerca del tal monumento, chi guarda assolutamente solo l’i-pod perché dentro c’è la guida e soprattutto, i soliti due che vogliono assolutamente andare a sedersi e farsi una birrina (leggi la Cecca e Rico). Insomma, assolutamente; in più c’è da dire che non siamo proprio una tribù di Watussi, quindi il rischio di perdere qualcuno per la strada sale esponenzialmente. Fortunatamente la Rini, che già è chilometrica di suo, ha pensato bene di portarsi in vacanza il suo famoso berretto nero con le orecchie e gli occhi da gatto (il berretto, non lei) quindi, come un faro nella notte, ci guida nella direzione giusta (o nella direzione che vuole lei).
Passiamo davanti alla piazza principale che ospita un luna park con tanto di castello degli orrori e calcinculo alto come un condominio, mentre al piano terra circolano tonnellate di zucchero filato rosa e giallo; per noi che di solito vediamo i luna park relegati alla periferia della città, trovarcene uno in pieno centro storico è uno shock culturale ma in fondo è per questo che siamo venuti, no? (sì, sì, anche per la birra…)
Data l’ora, le voci di coloro che vogliono fermarsi per la famosa birretta si fanno più insistenti e inizia la disperata ricerca di un locale che possa ospitare nove persone. La zona non è particolarmente adatta, essendo piena solo di negozi sciccosi (bar, ciccia), però dopo lungo peregrinare c’infiliamo in una viuzza e da quelle parti scopriamo un pub un po’ malandato e pieno di vecchi olandesi che puzza di una puzza non meglio identificabile. Perfetto. Entriamo, ci sediamo e stiamo già ordinando le birre.
Guardandomi intorno noto uno di quei distributori automatici di una volta, di quelli che mettevi dentro i soldi, giravi la rotella e venivano giù cicche, caramelle ecc. Impossibile resistere alla tentazione; mi avvicino e noto delle ciotoline di vetro lì vicino, il serbatoio sembra contenere delle mandorle. Inserisco i 50 centesimi richiesti e la ciotola si riempie di mandorle che paiono tali ma hanno una marcia in più, essendo affumicate.
L’esperienza del bar olandese si rivela decisamente positiva; passiamo un’ora piacevolmente seduti a dire stupidaggini varie e ce ne andiamo con l’unico cruccio di non essere riusciti a capire l’origine di quella misteriosa puzza che ha mantenuto una solida presa sui nostri vestiti (e capelli) anche una volta lasciato il locale.
Dopo un ulteriore giro e un animato dibattito su dove cenare, ci fermiamo in un take away giappo-cino-coreano con tavolini annessi. Siccome a una prima occhiata la Rini e la Berti non vedono cibo vegetariano, vanno nella rosticceria cinese a fianco e ordinano là, per poi unirsi a noi. Solo allora scoprono che:
a) Quello che hanno ordinato lo cucinavano anche nel take away giappo cino…
b) Uno dei cartoncini contiene un quantitativo di riso bollito che sfamerebbe una squadra di calcio giovanile.
Il problema di cui al punto b è comune: noi poveri sprovveduti che abbiamo ordinato una porzione ciascuno ci troviamo sommersi da tonnellate di roba da mangiare e, nonostante Farnedi dia il meglio di sè nel ruolo di bidone aspiratutto, neanche lui può fare miracoli. A quel punto la Berti e la Rini (con suppongo il beneplacito della Cecca e della Toda) decidono di portare a casa i resti del cibo da consumare in un momento successivo (colazione, magari?). Ovviamente, nessuno ha più toccato la sbobba se non per gettare il tutto nel cassonetto dei rifiuti pericolosi prima di lasciare l’appartamento.
A questo punto, a rigor di logica, la città avrebbe dovuto spalancarci le sue notturne braccia e accoglierci nella movida più sfrenata (e devo dire che sembrava avere tutte le carte in regola per farlo); sfortunatamente, noi in quanto anziani e poco avvezzi a questi viaggi turbolenti, abbiamo deciso di tornare in camera, farci una tisana/caffè e terminare la serata in chiacchiere.
Claudio ha tentato un’opera di persuasione del popolo bove, il quale popolo però essendo bove non ne ha voluto sapere e si è diretto testardamente verso gli appartamenti, dopo una breve pausa in un negozietto per acquistare tè, tisane, zucchero ecc. Mentre alcuni acquistavano all’interno a prezzi da furto legalizzato (là legalizzano tutto), altri all’esterno contemplavano le meravigliose cartoline in vendita (un rettangolo coperto di pelo finto di vari colori) decidendo di mandarne alcune agli amici (ormai inevitabilmente ex amici).
La prima serata si è conclusa secondo programma; il mattino dopo ci siamo ritrovati nell’edificio principale del Bulldog per fare colazione; c’era un po’ di tutto, almeno quando siamo arrivati, dopo...le cavallette non fanno prigionieri. L’unico dettaglio non proprio graditissimo era il fatto di dover consumare tè e toast circondati da nuvole di mariagiovanna e parenti vari, consiglierei di investire in un aspiratore più potente.
Il comitato organizzatore ha deciso che quella mattina avremmo iniziato con una passeggiata per la città per ammirarne le tipiche abitazioni sbilenche affacciate sui canali e individuare quelle appartenute a individui celebri. Ottima idea, almeno per un’ora e mezza. Dopo circa 90 minuti il popolo ha iniziato ad accusare segni di stanchezza ma il suo capitano (leggi Claudio che era dotato di guida) ha proseguito con determinazione nel difficile tentativo d’instillare un po’ di cultura nelle loro menti (menti?). Vana speranza. Lo scontento serpeggiava tra le file mentre qualcuno, fiancheggiando il canale, meditava sulla possibilità di imboscarsi dietro una delle house-boat per poi dileguarsi. Alla fine, di fronte alla casa della cugina del nonno della lavandaia di Renoir, c’è stata l’inevitabile insurrezione con conseguente ricerca di un bar ove riposarsi.
Relax a base di birra e tre porzioni di patatine. I lovaroni (Claudio e, credo, il Principe) ordinano bacon e formaggio.
Usciti dal bar, passeggiamo per un altro po’, dopodiché qualcuno suggerisce di cominciare a pensare a dove vogliamo pranzare, visto che siamo in tanti. Claudio ci guarda incredulo e chiede:”Perché, volete mangiare ancora?” Fortunatamente, la birra ha appesantito un po’ tutti e quindi nessuno lo butta nel canale, a riprova delle virtù miracolose di quest’antica bevanda.
Il pomeriggio lo si dedica alla visita del museo Van Gogh. Siamo appena entrati quando vedo Claudio che tira fuori il cellulare. Gli dico che non credo si possano scattare foto ai quadri ma lui ribatte che si fa sempre le foto di fianco ai quadri più famosi e per i successivi venti minuti ogni tanto lo si vede mentre gira per le sale tentando di eludere la sorveglianza dei custodi. M’immagino già la scena: io di fronte alle guardie e al direttore del museo che cerco di trovare una qualche scusa per impietosirli e fare in mondo che non gli facciano la multa. L’altra opzione sarebbe fingere di non conoscerlo e fuggire a rotta di collo nel caso lo becchino; ci penso per un momento e non la scarto.
Nella sala al pian terreno, seduta su uno dei divanetti e circondata da un capannello di donne, c’è la Rini che legge la descrizione delle opere; mi avvicino per sentire e noto che trattasi della Rini-guida, una personale e decisamente avvincente narrazione della vita e le opere di Vincent. La custode della sala squadra il gruppo con sospetto, sembra pensare che un assembramento così non promettere niente di buono; invece, l’attività esplicativa si mantiene discreta e accompagnata solo da qualche isolato scoppio di risate (del tutto giustificato).
A parte i soliti momenti, comuni a tutte le visite ai musei, in cui vorresti avere sotto mano un badile per ributtare a valle il troglodita che ti si piazza davanti (generalmente a max 10 cm dal quadro in questione) magari anche guardandoti male perché lo costringi a scavalcarti (poverino), l’esperienza è molto positiva. Poco a poco, ci ritroviamo al piano terra dove alcuni accoglienti divanetti danno asilo ai più provati tra noi.
La passeggiata pre-cena è molto piacevole ma termina, come da copione, in un vivace dibattito su dove mangiare; sempre camminando arriviamo davanti a un ristorante giapponese e, dopo attenta valutazione, decidiamo di entrare. L’attesa è lunga quanto un tavolo da nove ma alla fine riusciamo a sederci e gli omini del gruppo rimangono piacevolmente sorpresi nel trovarsi a dividere la tavolata con due giovani topolone, presumibilmente locali. Claudio dà prova di grande spirito d’iniziativa attaccando bottone immediatamente ma le due hanno praticamente finito di cenare quindi a breve l’idillio si spezza.
Segue meticoloso esame del menu nel tentativo di farsi un’idea precisa di cosa stiamo per ordinare (è scritto in inglese ma certi nomi sono giapponesi e allora addio); alla fine ci rassegniamo e ci buttiamo all’avventura. Con ottimi risultati (almeno per me).
Quando si fa ora di tornare al Bulldog, il gruppo si divide: alcuni prendono il taxi mentre un gruppetto decide di farsela a piedi nella speranza di digerire i quattro litri di zuppa di latte di cocco con frutti di mare, tofu fritto e chi più ne ha più ne metta.
Arrivati agli appartamenti, si tiene un consiglio di guerra il quale decide che, visti i variegati interessi del gruppo, domani sarà giornata libera. Si brinda alla decisione con varie tisane, tra cui una alla mariagiovanna comprata dalla Cecca che odora di piedi bruciati e un’altra con cannella acquistata dal Principe che è invece molto buona e quando glielo dici il Principe ti guarda come dire “Bè, cosa ti aspettavi, l’ho comprata io”
Concludo la seconda giornata menzionando alcuni dettagli:
1) la tv olandese ci viene tradotta in tempo reale dalla Berti che sospettiamo inventi le cose di sana pianta ma noi ci divertiamo un sacco anche così.
2) Nonostante le abbiamo fatte analizzare da vari esperti (leggi Cecca, Mauro, Gioia, Berti, Rini, in pratica tutti quelli che c’erano in appartamento) non siamo riusciti a capire dove fosse l’interruttore delle abat-jour, magari erano a comando vocale, tipo apriti sesamo…
3) I muratori che alle sette di mattina hanno iniziato a fare del casino li perdono solo perché avevo i tappi per le orecchie. Io.
4) Con tutto quello che è successo non potevate aspettarvi che terminassi tutto in due puntate, il meglio deve ancora venire, e non parlo solo degli occhiali della Cecca…
Nessun commento:
Posta un commento