mercoledì 18 gennaio 2012

Capodanno a Orvieto con l'amico dei fagioli

Non so bene come ma è arrivato il 31 dicembre e io trovomi a Orvieto per impegni lavorativi del Farnedi; non sono proprio di ottimo umore per varie ragioni, tra cui il fatto di essermi lasciata sfuggire, da vera invornita, un tesoro di quelli che avrebbero potuto fare la mia fortuna e la mia gioia per i mesi a venire.
Giovedì mattina passeggiavo tra le bancarelle del mercato cittadino e, tra una gonna di paillettes e un top di lustrini, sono arrivata davanti a un banco che vendeva libri; l’occhio è caduto su un libro di ricette vegetariane (titolo una roba del tipo cucinare vegetariano) e, pensando a tutte le volte che invito la Clodia e non so cosa farle da mangiare, l’ho preso in mano per vedere quali ricette proponesse.

 Una delle prime che ho notato era il ragù di tonno. Ora, non è per fare i talebani o cercare il pelo nell’uovo, però, a casa mia, quando dici vegetariano intendi che non contempla roba con occhi e gambe mentre il pesce, seppur in effetti sprovvisto di gambe, un paio d’occhi li ha eccome. Qualche pagina più in là c’era pure la pasta con gli scampi, al ché ho chiuso il libro e me ne sono andata borbottando. Se invitassi la Rinaldi a pranzo e le facessi trovare il ragù di tonno, probabilmente non sopravviverei per raccontarlo.
Ecco, il tragico, madornale errore è stato proprio quello, non mi sono resa conto del potenziale comico che avevo tra le mani, un libro (edito da qualcuno) di ricette vegetariane con il pesce. E chissà, a sfogliarlo con più attenzione, quante altre perle mi avrebbe regalato. E tutto alla modica cifra di tre euri. Da strapparsi i capelli.
È quindi con il morale sotto i piedi e il capo chino che mi sono preparata per la cena di quella sera. Alle ore 20.30, incredibilmente puntuali, siamo arrivati al luogo ove sfamavano musicisti, staff e accompagnatori, solo per sentirci dire che la cena era prevista alle 21.30 (avvisare non usa più?) Nonostante gli zebedi girassero a velocità sostenuta, ci siamo seduti al nostro tavolo decisi a far passare l’ora a suon di chiacchiere; la situazione è poi decisamente migliorata con l’arrivo del cameriere coi rifornimenti di vino. Penso positivo perché bevo (cit).
Alle 21.30, finalmente, le portate hanno fatto la loro comparsa sul tavolo del buffet e ci siamo pazientemente messi in fila. Io mi trovavo nella zona zuppa ma impossibilitata a sapere cosa bollisse in pentola, essendo circondata da energumeni piuttosto ingombranti (checché ne dicano, il musicista medio non è né pallido né emaciato). Improvvisamente ho visto sfilarmi di fianco un piatto di zuppa in cui galleggiavano evidenti mitili e mi son lasciata sfuggire un “Che bello, ci sono le cozze!” Il proprietario del piatto mi ha sorriso e ha detto “Lentejas” prima di dileguarsi. Sono tornata al tavolo con il mio bel piatto di zuppa e a quelli che chiedevano ho risposto trattarsi di zuppa di lenticchie con cozze; quando però il popolo mi ha fatto notare dei bozzi all’interno della zuppa che poco avevano delle lenticchie e parevano assai più fagiolo-style, la mia unica difesa è stata “Ciò (l’eleganza innanzitutto), ho chiesto a un tipo spagnolo che l’aveva appena preso e lui mi ha detto lenticchie!”
La zuppa però era assai gustosa, quindi non è che abbiam perso del gran tempo a mugugnare, ce la siamo divorata con una certa soddisfazione e di lì a poco io e Benny siamo ripartiti diretti verso cotechino, zampone e purè. Anche in questo caso la lotta per i manicaretti è stata serrata ma la nostra costanza ha dato i suoi frutti e Benny, che era davanti a me, dopo essersi rifornito adeguatamente, mi ha lasciato il cucchiaio, si è girato e se n’è andato lasciandomi libero il campo;  a quel punto mi sono ritrovata faccia a faccia con l’iberico ingannatore, anche lui in fila per il cotechino. Mi ha cortesemente ceduto il passo e non me lo sono fatto dire due volte, l’ho ringraziato e mi sono riempita il piatto. Quando ho raccontato del nostro secondo incontro, l’uomo misterioso è diventato "il tuo amico dei fagioli".
Una volta finito il cotechino le cose si sono molto tranquillizzate e, a parte qualche momento surreale in cui tutte le dieci persone a tavola giocavano con i cellulari/smartphone (ho aggiunto smartphone perché adesso se dici cellulare qualcuno è capace di offendersi), la serata è proseguita in tranquillità. Verso le dieci, quando i lavoratori erano già scesi a prepararsi, sono comparsi i dolci e ci siamo messe per l’ennesima volta in fila. Mi giro e di fianco a me c’è il mio amico dei fagioli. Ci siamo messi a ridere e gli ho assicurato che a dispetto delle apparenze non lo stavo pedinando; abbiamo chiacchierato un po’ e arrivati davanti ai dolci mi ha chiesto cosa fossero. Buona domanda. L’ho girata al cuoco che ha risposto imperturbabile “Torta Mimosa” senza sospettare per un istante che è come dire la pasta la facciamo alla Giuseppe, perché io non ho idea di cosa ci sia nella torta mimosa e per uno spagnolo una torta mimosa è boh, una torta coccolona? Alla fine ci ha salvato l’universalmente nota crema chantilly e, afferrati i nostri rispettivi piatti, ci siamo congedati.
Il brindisi della mezzanotte l’abbiamo fatto in tre sui gradini in fondo alla sala mentre i musici musicavano sul palco a mille leghe di distanza; la Manu ha rimediato pure un corteggiatore (anche se con un senso del colore un po’ discutibile) mentre a me è rimasto il texano che protestava perché non avevano suonato Auld Lang Syne e io a cercare di fargli capire che essendo in Italia, quella canzone qui non se la fila nessuno e quindi che se ne facesse una ragione che per quest’anno ciccia. Ah, che bello l’ultimo dell’anno!
Il giorno dopo Rico mi ha chiesto “Ma chi era poi il tuo amico dei fagioli?” e mi sono resa conto che non gli avevo neanche chiesto il nome (la solita zotica); sono andata a guardare sul programma e per fortuna c’era una sua foto, quindi ho scoperto che si chiamava Chano Dominguez e che a pomeriggio ci sarebbe stato un suo concerto: Chano Dominguez Flamenco Sketches, a sentire il programma una rivisitazione originalissima di Kind of Blue di Miles Davis. Ovviamente, data la mia ignoranza, la spiegazione aveva lo stesso effetto illuminante del famoso la pasta la facciamo alla Giuseppe.

Devo ammettere che il pensiero di andare all’ennesimo concerto di giass non è che mi elettrizzasse, io appartengo al popolo bove, alla plebe musicalmente non istruita e dopo aver ascoltato assoli di qualsiasi cosa, compresi quelli di contrabbasso a un volume talmente basso che lo sentivano giusto i pippistrelli e Batman, ero parecchio restia all’idea di farmi nuovamente del male (le perle ai porci direbbe qualcuno); però, da una parte  ero almeno un po’ curiosa, dall’altra noi col pass non si paga, quindi all’orario indicato ci siamo trovati con la Manu e Fabrais e siamo andati a dare un’occhiata.
C’erano Chano, il pianista, un percussionista che suonava credo il cajòn, un cantante che oltre a cantare batteva le mani seguendo un ritmo tutto flamenquero e un contrabbassista che ci ha un po’ spiazzato perché, essendo che si parla di flamenco, tu sei lì che ti aspetti un gruppo non dico spagnolo ma uberspagnolo, e invece ti arriva il contrabassista Mario Rossi e all’inizio devo ammettere che sembra strano, poi Mario inizia a suonare e te lo dimentichi come si chiama perché lì dov’è ci sta proprio bene e finalmente un suono che si sente e quello che senti ti piace, sembra che sappia dove sta andando, ha una direzione e lo capisci pure tu che di queste cose non ne hai un’idea, che bello. Con grande sorpresa nostra e soddisfazione della Manu, che è una danzatrice, oltre ai musicisti c’era un ballerino di flamenco il cui corpo si è presto trasformato in una percussione che giocava con gli altri a creare ritmi e disegni. A un certo punto, a metà concerto ho pensato Io di questa cosa devo scrivere! Ho cercato di fare una foto al gruppo da allegare a questo post; purtroppo, il mio cellulare è un po’ di seconda, quindi da dove ero io la foto faceva parecchio schifo per cui ho vinto la mia normale reticenza a uscire dall’ombra e mi sono alzata avvicinandomi silenziosissimamente da un lato per fare una foto. Repentina e implacabile, una maschera è scesa su di me intimandomi di non fare foto e me ne sono dovuta tornare al mio posto con le pive nel sacco, sentendomi come se mi avessero fermato mentre tentava di scippare una vecchietta della pensione. Passerà del tempo prima che ci provi di nuovo.
Mentre ascoltavo il concerto mi sono stupita notando un palloncino a forma di Grande Puffo che ondeggiava sul lato sinistro della sala mentre a destra ce n’era uno fatto a forma di margherita gigante; è raro a concerti di questo tipo trovare simboli dell’infanzia, qui è sempre tutto molto adulto e maturo, spesso fin troppo. Se ci ripenso quello stupore di fronte ai palloncini non era tanto diverso dallo stupore che mi ha causato il concerto, così diverso da quanto mi aspettassi. Che gioia, a volte, essere sorpresi.

Un grazie al mio amico dei fagioli e ai suoi amici, iberici e non.



Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

2 commenti:

  1. c'è da dire che l'Estrema IMBROCCA A TUTTA RANDA!

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  2. Faccio presente che l'unico a imbroccare è stato il texano che puntava la Manu, io ho solo conversato amabilmete per ingannare l'attesa forzata, causa fila chilometrica del buffet...

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