La partenza per Bruges è prevista in tarda mattinata; ci alziamo per tempo in modo da finire la valigia e svegliamo Mauro dicendogli che si dia una mossa altrimenti si fa tardi.
Dopo un po’ il poveretto arriva con una faccia alquanto perplessa e chiede: “Ma l’avete messo l’orologio indietro di un’ora?”
Improvvisa impennata del numero di brutture giornaliere. Con tutto il bisogno di dormire che c’era, abbiamo buttato giù per il cesso un’ora di sonno. Boia l’ora legale e i nostri tre neuroni fancazzisti. Ma andiamo avanti.
Ovviamente, come in tutte le giornate di viaggio, c’è voluta una vita per arrivare a destinazione perché come sempre accade in gruppo, uno doveva andare in bagno, uno voleva il caffè, uno voleva il croissant, uno doveva fumare la sigaretta, uno affilava il coltello pensando a chi sgozzare per primo, tra quello del bagno, quello del caffè o quello del croissant, tanto quello della sigaretta ci pensavano già catrame e nicotina.
Abbiamo fatto una breve camminata verso la stazione e anche lì a ogni curva della strada dovevamo avere mille occhi altrimenti qualcuno rimaneva per strada (anch’io, a dir la verità); con il biglietto in mano ci dirigiamo verso la scala che porta ai binari mentre un gruppo di astuti prende l’ascensore per fare prima e non dover trascinare su i bagagli. Peccato che l’ascensore porti al binario di fianco. Pacchi di risate.
Arriviamo in aeroporto e via a prendere le macchine. Per un attimo ci illudiamo alla vista di una cinquecento rosa shocking ma non è la nostra macchina, sigh. Ci infiliamo nella seconda macchina tutti contenti con la Cecca al volante ma all’improvviso Mauro decide che nell’altra macchina in tre dietro stanno stretti e noi invece in due mooolto più larghi (loro hanno una focus, noi una fiesta, boh) quindi comincia a fare una gran scena che lui dietro non ci vuole stare. A quel punto alla sottoscritta che di pazienza non è che ne abbia da dar via, le girano gli zebedei (virtuali), quindi manda a cagare il sopracitato Mauro andandosi a sedere al suo posto nella focus. Il viaggio può finalmente cominciare.
Il nostro bolide condotto con mano sicura dalla Berti divora la strada con l’occasionale supporto del navigatore nel telefono di Claudio che si rivela di grande utilità in più di un’occasione; la strada è costellata di campi, torri eoliche, boschi, pecore, torri eoliche, mucche, torri eoliche. Qui le torri eoliche vanno molto.
L’unico neo del navigatore in questione è un’impostazione demoniaca per cui se superi di 1 km il limite di velocità suona un allarme che fa il rumore delle campane a morto, un po’ un monito “Chi va forte va alla morte”, che non contribuisce alla spensieratezza del viaggio. La radio però ci dà una mano con una programmazione che si fa dare del lei e a un certo punto io, la Clodia e la Berti ci troviamo a cantare a squarciagola “Hot stuff” ballando sguaiatamente nonostante le infamate del Principe e i sospiri rassegnati di Claudio.
E finalmente, dopo un lungo peregrinare, raggiungiamo Bruges che è in effetti molto pittoresca e molto ben tenuta, anche se un po’ cartolinosa. Check in e poi via in esplorazione, approfittando del bel tempo. Valanghe di foto, belle, brutte e soprattutto deficienti.
Probabilmente il fatto che sia il weekend dei morti spiega la folla oceanica che riempie il centro. In giro ci sono carrozze e cavalli che portano a spasso i turisti e le strade sono piene di negozietti di cioccolata, cartoline e merletti. Ora, non fraintendiamoci, non è che ci si auguri che un colossale incendio distrugga tutti i pizzi e i merletti di questo mondo e spazzi via coloro che li fabbricano; però qui non giri angolo senza sbattere in qualche vetrina merlettata, alla lunga è un po’ una maletta.
Arrivati alla piazza principale, guardandomi intorno, noto una fila chilometrica che finisce nel mezzo della piazza, intorno il nulla. Cos’è? Un’opera d’arte contemporanea? Scatteranno una foto con il satellite? La risposta arriva pacchianamente decorata e trainata da due cavalli: tutta questa gente in fila VUOLE essere scarrozzata in giro per la città su uno di quei cosi. Di fronte a tutto ciò tornerebbe utile il famoso incendio colossale di cui si parlava prima, facciamo tabula rasa e speriamo nelle nuove generazioni.
Ovviamente non può mancare la quotidiana sosta cum birretta; in questo caso però riuscire a trovare posto per nove persone ci costa parecchia fatica ma alla fine trionfiamo e ci sediamo intorno ai tavolini di un bar all’aperto con vista sui canali della città. Il panorama è molto bello, la birra è buona, per non parlare degli scrocchini di dubbia origine ma decisamente masticabili; ciononostante, ci vediamo costretti a porre fine al magico momento, dovendo tornare in hotel a prepararci per la grande soirée che ci attende.
Sì, perché la Berti, che conosce praticamente mezzo mondo, ha due fornitori in zona (niente spaccio, niente contrabbando, solo trasporti) i quali, sapendo che si trova a Bruges, l’hanno invitata a cena e, informati della nostra presenza, hanno esteso l’invito all’intera compagnia.
L’inquietudine si fa strada; noi si era partiti convinti di fare un viaggio alla buona, quindi non è che si abbia in valigia roba da poter sfoggiare al ristorante. L’unica che avrebbe la mise adatta per la serata, la Gioia, l’ha indossata la sera prima al ristorante messicano e forse per scaramanzia, rifiuta di metterla di nuovo, non si sa mai.
Partiamo quindi tutti un po’ “informali”, eccetto la Berti che almeno ha una stola/foularino/pashmina che fa già vestito figo. La Rini, onde ovviare al problema, ha messo una maglia con una scollatura vertiginosa, confidando che nessuno si accorgerà di cosa indossa. Vorrei poter fare altrettanto ma purtroppo.
Partiamo alla volta di Zeebrugge (sul mare), sempre accompagnati dagli allegri rintocchi a morto del navigatore di Claudio il quale, dopo che la Berti gli ha chiesto di non metterle ansia mentre guida, ripete a intervalli regolari quanto manca all’arrivo, sottolineando quando il tempo di percorrenza aumenta. Tuttora ci si chiede come abbia fatto ad arrivare indenne al ristorante.
Entriamo e i camerieri vengono a prenderci i cappotti mentre noi ci scambiamo sguardi della serie “Oddio, dove siamo finiti, qui ci tolgono anche le mutande!”
I due ospiti, marito e moglie, sono già arrivati. Prendiamo posto a tavola e io, seduta di fianco alla Berti, alzando lo sguardo mi rendo conto che nessuno si è seduto a fianco della signora. Dico a Mauro di scalare di un posto, non possiamo certo trattarli come dei lebbrosi. Lui mi guarda col panico negli occhi e fa segno di no, che lui non sa una parola di francese. A risolvere la situazione ci pensa la Clodia che s’immola per la causa. Intanto la Berti è già in piena conversazione e brandisce minacciosamente un cocktail, mentre intorno a noi svolazzano miriadi di camerieri portando pane, burro, vino e alcuni centrotavola che reggono delle ciotoline con una strana salsa gialla. La studiamo perplessi, sarà una salsa per i crostini? Un intingolo per il fritto? Una crema da cucchiaio? Cosa diavolo è? L’unica è aspettare e vedere cosa fanno gli ospiti, i quali ospiti dopo un po’ prendono ciascuno una ciotolina e c’informano che trattasi di crema di zucca. Sospiro di sollievo.
Il vero momento magico, quello che resterà scolpito nella memoria della sottoscritta, arriva quando portano gli antipasti.
Faccio una premessa: la Berti, conoscendo i suoi polli, aveva chiesto il menù vegetariano per una persona e il cameriere aveva prontamente dichiarato la propria disponibilità. Sì, però il tapino non poteva sapere che noi si andava ben oltre il vegetarianesimo e giustamente, essendo ospiti, nessuno si è sentito di dirglielo. Ragion per cui, quando hanno portato gli antipasti, a noi sono toccate le crocchette al prosciutto e formaggio o le ostriche, mentre alla Clodia hanno servito una sontuosa insalata coperta da un palpabilissimo mare di cipolla. A casa Rini la cipolla è uno di quei cibi che se lo nomini dopo devi fare l’esorcismo quindi ci siamo trovati di fronte a un problema di galateo: dalla faccia della Clodia si capiva che mangiare la cipolla non era neanche pensabile ma, come evitare che l’ospite al suo fianco si rendesse conto della situazione? La soluzione ha richiesto uno sforzo di gruppo: la Clodia mangiava l’insalata evitando accuratamente la cipolla, mentre ogni tanto qualcuno di noi, Mauro tra tutti, chiedendo di assaggiarla, toglieva di mezzo parte della pestilenziale mostruosità.
La necessità si è ripresentata all’arrivo della portata principale, nel suo caso una pasta primavera disseminata di cavolfiori e altri ingredienti tabù, ma ormai il più era fatto, avevamo un sistema. Anche noi carnivori abbiamo avuto le nostre difficoltà: il mio filetto ben cotto era praticamente ancora vivo mentre il filetto al sangue della Berti era quasi carbonizzato, in quel caso è bastato un rapidissimo scambio di piatti e via andare. A quel punto però ci erano già passate per le mani almeno tre bottiglie di vino differenti, quindi si è fatto tutto un po’ confuso. A terminare la serata ci hanno pensato caffè e abbondanti ammazzacaffè e quando ci siamo congedati dai nostri ospiti e siamo saliti in macchina, pochi nutrivano concrete speranze di arrivare sani e salvi in camera, senza prima vedere da vicino un fosso belga.
Tra il livello etilico stellare di…un po’ tutti, il dannatissimo navigatore menagramo e il buio buissimo della notte, il viaggio di ritorno è stato un’impresa epica. A un certo punto qualcuno (non diremo chi) voleva scendere a fare la pipì, peccato fossimo fermi a un semaforo.
Contro ogni logica siamo riusciti a ritrovare l’albergo e a tornare nelle rispettive camere. Ci siamo attardati un momento in una camera (non diremo di chi) e mentre si chiacchierava allegramente qualcuno ha detto:”Mi sa che me la sono fatta addosso”. A quel punto per noi si era proprio fatta ora di andare a letto e abbiamo tagliato la corda al suono di: “Ecco, quando c’è da pulir dei culi se la filano tutti!”
Alla luce di questa travolgente esperienza posso affermare senza timore di essere smentita, che a noi la barriera linguistica ci fa una sonora pippa, che nonostante i due abbiano parlato francese per quasi tutta la sera (solo alla fine ho scoperto che parlavano anche inglese, dopo ore di sofferenza) abbiamo comunque fatto la nostra porca figura di italiani che sanno comunicare pure con le pietre. We rock.
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