martedì 5 luglio 2011

Un sabato al fulmicotone, tra cori, strozzapreti e coprispalle dimenticati

E’ mattina presto e nel torpore del dormiveglia avverto uno strano ticchettio. Porcaccia miseria! Piove!
Normalmente, il fatto che in luglio si metta a piovere io lo celebro come la manna, essendo che ho la pressione bassa e il caldo mi prostra, oggi però c’è un però: questo pomeriggio si sposa mio cugino e il voltafaccia meteorologico mi obbliga a un rapido cambio di mise. Il vestito anni ottanta a righe blu e spalla sbilenca, corredato da zeppe trampolate blu, dovrà lasciare il posto a qualcosa di più coprente perché va bene tirarsi a balestra ma, quando si tratta di patire del freddo, io tiro la riga. Un po’ mi dispiace perché sto benedetto vestito l’ho comprato un paio d’anni fa ma non ha mai visto la luce, anche a causa della citata spalla sbilenca che va sempre giù (poverina l’hanno fatta così) e rompe non poco le scatole.

Dopo un rapido esame delle possibilità che offre l’armadio opto per una combinazione vestitino+pantalone già usata in un paio di altri matrimoni con un certo successo, tutto risolto ma un po’ con l’amaro in bocca perché avevo dichiarato pubblicamente la mise e prevedo lamentele.

Lascio come sempre tutto all’ultimo momento e finisco col vestirmi di corsa sperando che mia sorella (che si è offerta di passarmi a prendere) non arrivi troppo presto altrimenti mi trova in mutande. La preoccupazione si rivelerà infondata, essendo la Francesca imbottigliata nel traffico dei vacanzieri che scendono in riviera e che, contrariamente a ogni pronostico, alle tre del pomeriggio di sabato sono ancora lì che scendono.
Quando arriva mi fiondo in macchina e vedo che mi guarda strano; la squadro a mia volta e noto che ha un vestitino di cotone rosa antico, colore quasi identico al mio. I sandali sono neri come i miei ma per fortuna la borsa è diversa. Scoprirò poi che ha portato anche un paio di pantaloni neri (e indovinate cosa indosso io), in caso fosse freddo. Fortunatamente quelli rimangono in macchina ma tra vestito rosa, sandalo e capello corto, sembriamo quelle povere gemelline che i genitori vestono identiche per andare a passeggio.
Una volta superato lo shock-da-vestito-identico ci dirigiamo di buon passo verso Cesenatico (dopo aver caricato un paio di ombrelli per sicurezza) ostentando una certa sicurezza, dato che la chiesa sappiamo bene dov’è. Quello che non sappiamo è che dall’ultima volta che siamo passate da quelle parti sono cresciute case come i funghi dopo il diluvio e per un attimo la cosa ci spiazza, mentre i minuti scorrono inesorabili verso le quattro-zero-zero. Arriviamo finalmente a destinazione, parcheggiamo e corriamo verso la chiesa battendo sul filo di lana la sposa che, essendo la sposa, deve gestire un vestito ingombrante e muoversi con passo dignitoso ed elegante e non può certo scapicollarsi come invece facciamo noi.

Dopo una breve pausa (la mandria umana deve sistemarsi in chiesa) la cerimonia ha inizio e il coro della parrocchia dà subito prova di essere un coro coi controfiocchi, niente a che vedere con certe performance che in passato animavano le funzioni religiose di altre chiese quando tra i quattro gatti del coro cantava anche la sottoscritta. Tra i sacerdoti  presenti sull’altare (una masnada, corredati di nugoli di testimoni) scorgo Don Virgilio e la mente torna a quel famoso Giovedì Santo di mille anni fa quando, dopo una stecca colossale di una delle stars del nostro coro, con conseguente crisi di riso di tutti gli altri e brutale chiusura della canzone a opera della chitarrista (un delicato arpeggio stile sega nastro), il povero don a fine messa scese dall’altare e ci disse:”Avete rovinato la mia canzone preferita”. Il sacerdozio è una strada irta di difficoltà.
Purtroppo, essendo la chiesa piena di gente fino all’orlo, dalla nostra posizione si vedeva ben poco, soprattutto a causa del simpatico padre di famiglia che aveva amorevolmente preso sulle spalle il figlio, trasformandosi in una creatura di due metri e rotti e impedendo la visuale a parecchi dei presenti. Spiace pensare all’alopecia che l’avrà sicuramente colpito a seguito della caterva di accidenti che gli abbiamo mandato. Simpaticamente, ovvio.
Dimenticavo di dire che mentre scendevamo dalla macchina io avevo in mano un coprispalle e, essendo il vestito senza maniche, ho chiesto a mia sorella:” Boh, lo prendo su? Per non andare in chiesa a spalle nude” E lei:”Ma no, non c’è bisogno”. Ovviamente, io appena entrate in chiesa mi do un’occhiata intorno e constato con sgomento che ci sono solo spalle coperte; dopo un primo momento di comprensibile smarrimento però non posso fare a meno di notare che, le spalle sì saranno anche coperte ma ci sono scollature vertiginose a volontà e chilometri di gambe nude che neanche una pubblicità Golden Lady. Tutto regolare, la cosa importante è che le peccaminosissime spalle siano coperte. Mah.

Dopo circa un’ora e venti di messa si comincia ad accusare la fatica. Non aiuta il fatto che siamo solo poco oltre la metà del corposo libretto del matrimonio, la strada è tutta in salita. Lancio uno sguardo pieno di desiderio verso l’uscita e mi accorgo che c’è un folto capannello di gente che sembra aver avuto la mia stessa idea e averla anche messa in pratica. La cosa mi restituisce la speranza. Sì, però noi come facciamo? Siamo sedute su una panca laterale verso la metà della chiesa, non possiamo semplicemente alzarci e andare via. A questo punto la sorella maggiore salva la situazione con un’idea geniale: al momento della comunione ci alziamo in piedi e ci avviamo verso il fondo della chiesa ma invece di metterci in fila per la comunione, guadagniamo l’uscita e la tanto agognata libertà.
Ad attenderci fuori c’è una nutrita schiera di parenti che evidentemente ha dato il collo prima di noi e la cosa mi rincuora. Diversamente da quanto previsto, i commenti nei nostri confronti non sono tanto rivolti ai look-fotocopia, quanto al nostro colorito non proprio ambrato. La Stefania che sfoggia un’abbronzatura degna di luglio, mi guarda i piedi (che in effetti farebbero la loro figura in un obitorio) e sospira “e pensare che da piccola diventavi così nera!” Non posso darle torto, ma è anche vero che a) non amo il sole b) ho lavorato tutto il mese di giugno quindi l’unico modo per sembrare vagamente più abbronzata sarebbe stato vestirmi di bianco neve da capo a piedi e quello ai matrimoni non si può fare, pena la lapidazione, quindi metto subito una pietra sopra a qualsiasi rimpianto e mi rituffo nella chiacchiera.
Il rinfresco si svolge nel cortile della parrocchia dove ci accolgono tavole imbandite di ogni ben di dio (tutto a buffet), musica e panche dove sedersi liberamente, niente posti assegnati o cena ingessata a sedere, una vera gioia.
Il prato è molto grande e quindi non ti rendi conto di quanta gente ci sia se non quando ti dicono che servono i primi e, arrivata al tavolo dei cappelletti al ragù, ti trovi di fronte una fila chilometrica; butti un occhio alla fila di fianco che pare più corta e lasci, non senza qualche rimpianto, i cappelletti per gli strozzapreti. La fila è composta in gran parte da parenti e si chiacchiera in attesa di mettere le mani sullo strozzaprete panna radicchio e salsiccia. Lo zio Massimo tenta un’incursione a inizio fila ma trova un parentado decisamente affamato e poco incline a fare sconti, per cui viene infamato e accusato a gran voce di voler passare avanti. In quel momento la fila pare muoversi piuttosto spedita, grazie alle abili mani di alcune signore che servono piatti di pasta a una velocità smodata; mi sento ottimista quindi azzardo a voce alta un pronostico positivo che viene immediatamente massacrato da mio cugino Luca con un ferale “Tanto quando arriva il nostro turno vedrai che la pasta finisce”. Una gufata coi controfiocchi. Gufata che oltretutto si avvera, costringendoci lì in prima fila a fissare i piatti vuoti in affamata attesa. Ad aggiungere la beffa al danno, il cugino iettatore non lo posso neanche menare come meriterebbe perché finirei sicuramente col prenderle io, a volte la vita è ingiusta.
Fortunatamente, le signore sono rapide come la folgore anche nei rifornimenti e una volta arraffato il mio piatto di strozzapreti, torno sui miei passi e collasso su una delle panche in zona parenti. Le figlie piccole delle mie cugine scorrazzano allegramente tra i tavoli mentre noi si chiacchiera degli esami di maturità (la Cate fa il membro interno e sta soffrendo molto), dei maledetti provider di telefonia che ti fanno aumentare le rughe (salvo poi per la legge del contrappasso imbattersi nella zia Agnese che deve avergli fatto vedere i sorci verdi, almeno a giudicare dalla vagonata di ricariche gratis che le hanno mandato). L’Agnes mi fa notare con disappunto che avevo annunciato tutta un’altra mise e si dichiara delusa dall’ensemble troppo discreto; non mi sento di darle torto, però faccio presente che quando il gioco si fa freddo le fighine iniziano a giocare, io invece mi copro. Non è bello passare metà festa di matrimonio in un bagno sconosciuto e coi foroni.
Siamo lì che ce la passiamo da papi quando, senza volerlo, mi cade un occhio sull’orologio: sono LE OTTO!!!!!!!! AGITAZIONE DI ESTREMITÀ!!!!!!!


Urge chiarimento: quando i miei genitori mi hanno detto che Stefano si sposava e che loro non ci sarebbero stati perché in Sicilia, io avevo appena acquistato due biglietti per Il flauto magico come regalo di compleanno per mia sorella. Ovviamente in tutta un’estate è inevitabile che le uniche due cose a cui non vuoi mancare siano esattamente lo stesso giorno, quindi avevamo deciso di rimanere al matrimonio fino alle sette e mezza per poi correre a Ravenna. Peccato che fossero già le otto. Ci siamo alzate un po’ di corsa e, salutati tutti quelli che si trovavano a portata di voce, siamo corse verso la macchina. Purtroppo gli sposi erano ancora tra le grinfie del fotografo e quindi non siamo riusciti a salutarli.
Siamo andati via con un po’ di rimpianto, non capita spesso che il clan si riunisca così numeroso e ci sono un sacco di persone con cui non siamo riuscite a scambiare più di quattro parole.
In più non c’è stato il tempo di scoprire quale fosse la macchina del babbo-con-bambino-in-spalla, una rigatina lì ci sarebbe stata bene. Ma, correndo il rischio di non arrivare in tempo a teatro, la vendetta è passata in secondo piano, siamo balzate in macchina e via verso nuove avventure, o meglio, via verso Ravenna, il teatro, le marimbe e gli umidificatori, ma di questo parleremo la prossima volta (come dicevano sempre in Heidi).

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