sabato 12 novembre 2011

Nonna Abelarda e i tortellini bolognesi: tutti maracani.

E' sabato 15 ottobre e stasera ci aspetta una seratona di quelle sfavillanti: io e Rico andiamo a Bologna, al Teatro delle Celebrazioni, a vedere Tutti Maracani: la storia del rock and roll e del suo sbarco a Bologna negli anni ‘50.
Per noi gente di campagna il sabato sera nella metropoli è comunque un evento e i preparativi per la serata sono sempre fonte di divertimento e anche di qualche preoccupazione. Quella più comune? La cena. Sì, perché per forza ci tocca partire presto, quindi non è che alle sei ti metti a mangiare, però non puoi neanche fare l’asceta che tira dritto senza buttar giù niente, altrimenti poi te lo gestisci tu il borborigma intestinale che si scatena nel silenzio del teatro.
Dopo attenta riflessione propendiamo per l’approccio a piccoli passi: iniziamo con un aperitivo a casa, vinello e patatine light eurospin,  e poi via verso Bologna (tappa a Forlì per prendere su Benny), una volta raggiunta la metropoli mangeremo un panino da qualche parte.
Viaggiare di sabato sera è decisamente un lusso: in autostrada siamo quattro gatti e tutti piuttosto rilassati, niente suv che sfanalano da dietro, quei tesori.
Arrivati in zona teatro, la ricerca del parcheggio porta via un po’ di tempo ma si conclude felicemente e nel giro di qualche minuto ci stiamo già dirigendo verso la meta con falcate da velocisti. Il motivo delle falcate non è tanto il ritardo, siamo infatti in perfetto orario, quanto più il freddo boia che è calato all’improvviso e non fa prigionieri. Per far fronte all’emergenza indosso un basco di lana che dà al mio look un tocco nonna Abelarda ma per fortuna è buio e io sono posizionata lato muro, basta girare la faccia verso la parete ogni volta che incrociamo qualcuno.
Facciamo una breve sosta al bar per rifocillarci e Bologna ci dà il benvenuto per bocca di un barista mattacchione:
Benny:”Volevo un quadretto di pizza, me lo può scaldare al volo?”
Lui:” No, mi dispiace, per scaldarlo ci vuole il forno”
Nel mentre che consumiamo il nostro frugale pasto ecco entrare nientepopodimenoche la Passini seguita dalla Pincelli, anche loro dirette a teatro. Si accomodano al nostro tavolo per un caffè e due chiacchiere ma ahimè si fa subito ora di andare; prima di alzarsi la Passini pulisce accuratamente il bordo della tazzina e, intimata di dare spiegazioni, ci risponde che non le pare bello che il barista che sparecchia debba pulire il suo rossetto. Va là che le lady ce le abbiamo anche qua da noi.
Arriviamo al teatro e ci mettiamo in fila per ritirare i biglietti, per poi scoprire che quei gentiluomini degli amici musicisti ce li hanno procurati omaggio. Il teatro è pieno di gente e i nostri posti sono proprio davanti a una fila di signore bolognesi impegnate in un allegro chiacchiericcio; devo confessare di aver origliato tutto il tempo senza vergogna, mi sono divertita un sacco.
Lo spettacolo è partito con l’entrata in scena di Jimmy Villotti e Lucky che hanno iniziato passeggiare per il palco parlando tra loro; di tanto in tanto gli finiva tra i piedi una delle molte lattine vuote sparse sul pavimento e loro la calciavano via. Per fortuna i nostri posti erano a una certa distanza.
Ariodante Dalla
Villotti, in una delle sue narrazioni, ha menzionato tale Ariodante Dalla, un cantante italiano dell’epoca ancora non riscoperto dalla dilagante moda di scegliere per i figli nomi che giustificheranno un futuro parenticidio.
Dopo una prima parte ad opera dei due narratori è entrato in scena il primo di due gruppi musicali che ci avrebbero accompagnato alla riscoperta del rock and roll, i Pink Flamingos, e quando la cantante ha iniziato a cantare mi ha inchiodato alla sedia: le mie orecchie gridavano “Eloisa!” ma i miei occhi (che hanno i loro problemi) non tiravano fino a laggiù, quindi non potevo esserne sicura. E che problema c’è? direte voi  Non puoi chiedere a qualcuno? Il problema è che io di fianco avevo Rico e questo rendeva la situazione quantomeno delicata. Mi spiego: l’Eloisa l’abbiamo sentita cantare parecchie volte e abbiamo anche i suoi cd a casa, anche quelli ascoltati spesso, quindi chiedere “Ma è lei?” mi avrebbe esposto a censura, variabile a seconda dello scenario:
1)      scenario uno, è lei. Reazione: “Non l’avevi riconosciuta?! Ma l’abbiamo sentita tante volte!”
2)      scenario due, non è lei. Reazione: “Ma no, l’Elo ha una voce diversa! L’abbiamo sentita tante volte!”
In entrambi i casi un campo minato, procedere con cautela. Alla fine ho buttato là un commento neutro tipo:“Dì, ma la cantante….” lasciando astutamente la frase in sospeso. E come previsto, Rico ha finito la frase “…è l’Eloisa!”. Tutto è bene ciò che finisce bene.
Lo spettacolo è stato divertente e anche interessante, soprattutto per me che di ste cose non ne ho un’idea. Il momento più bello in assoluto è stato quando Jimmy Villotti ha raccontato  di com’era Bologna a quei tempi, dei suoni che si sentivano e soprattutto di quelli che non si sentivano; mi sono resa conto che per me è difficile immaginare una città silenziosa. Ha anche descritto il suo primo incontro con un juke-box e ripensandoci, mi sarebbe piaciuto sentirlo parlare più a lungo di Bologna, dei luoghi, della gente, di tutte quelle cose che noi adesso possiamo solo immaginare.
Il secondo gruppo a entrare in scena sono stati i King Lion and The Braves, e in quel caso persino i miei occhi dopolavoristi hanno individuato facilmente la banana brizzolata di Fabrais dietro la batteria.
Il mio unico momento di cedimento si è presentato nel corso del quarto d’ora di celebrazione della chitarra Fender Stratocaster, probabilmente la parte più apprezzata dai molti musicisti presenti ma per noi del volgo sentir parlare di valvole, pickup (e altre robe che ho prontamente rimosso), è tutta un’altra storia.
All’uscita siamo andati a salutare gli amici e siamo stati invitati a unirci  a loro per cena alla Trattoria da Vito. Non eravamo convintissimi, però sarebbero venute anche la Passini e la Pincelli, quindi ci siamo detti perché no? Grazie al cielo e al navigatore, siamo riusciti a trovare il ristorante che, un po’ è imboscato di suo, un po’ Bologna per me è come il triangolo delle Bermuda, non era così scontato.
Sfortunatamente, alla Trattoria da Vito il posto per tutti non c’era, anche perché erano fioccati inviti in ogni direzione e quindi rispetto ai ventidue coperti della prenotazione eravamo una quarantina. La prima reazione è stata: vabbè, sarà per un’altra volta; poi però abbiamo notato un’altra sala con dei tavoli liberi e, dietro nostra richiesta, una delle cameriere ha acconsentito a prepararci un tavolo separato, solo per noi cinque: io, Rico, la Passini, la Pincelli e Benny. Alla fine però è arrivato dall’alto l’ordine di unirci all’altra tavolata per facilitare il servizio e quindi siamo stati ributtati nella prima sala.
Prima di lasciare il teatro avevo dichiarato con fermezza che non avrei cenato, al massimo un dessert; poi però quando ti trovi nella trattoria bolognese e sul menù leggi tortellini al ragù, capisci subito che non c’è lotta, è il destino che chiama e non ammette repliche. Li ho presi e ho fatto da dio, erano una lovaria (il ristoratore bolognese perdonerà lo scivolone romagnolo). Naturalmente i commensali mi hanno dato della sgombrona e non è che avessero torto, mi consolo pensando che ero in buona compagnia. Benny è stato l’unico fedele al proposito di non cenare; noialtri abbiamo spazzolato via portate e bottiglie lasciando la tavola nuda, con l’eccezione di una bottiglia quasi intera di birra che la Pincelli aveva ordinato quando ancora l’altra era piena per un terzo (tutto per paura di rimanerne sprovvista) e che ci ha fatto compagnia fino alla fine. Highlander.
Il responsabile della Trattoria da Vito era un tipo singolare: si aggirava per i tavoli prendendo le ordinazioni, lanciando battute salaci  e dicendone di ogni, suppongo fosse il suo modo di scaricare lo stress dato dal fatto di avere quaranta persone che arrivano all’una di notte e vogliono mangiare. Mentre stavamo congedandoci (dopo aver pagato, sia chiaro, che non siamo scrocconi che s’imbucano) si è fermato un attimo e vedendolo un po’ stravolto ho buttato là un “Certo che stasera avete avuto il vostro bel daffare!” e lui sospirando “Non sono neanche riuscito a cenare, ho una fame che mangerei una cliente!”  il tutto detto mentre mi afferrava un braccio.
Usciti dal locale, io e Rico abbiamo salutato tutti (Benny tornava con Lucky) e siamo ripartiti direzione Romagna.
Bologna stasera è stata una bella padrona di casa, peccato non poterle mandare dei fiori.


Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

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