martedì 27 marzo 2012

Parrucchiere sì ma con Estrema Riluttanza

Qualche giorno fa mi son guardata allo specchio e non ho potuto negare l'evidenza: era ora di tagliare i capelli. Non so perché mi scocci tanto andare dal parrucchiere, forse perché mi tocca far conversazione con dei perfetti sconosciuti, perché non so mai con che testa esco, perchè son poco normale, chi lo sa.
Fatto sta che trovo sempre mille scuse per rimandare.
E' anche vero che di traumi tricologici ne ho subiti parecchi, alcuni più gravi di altri.
Il primo e più devastante risale a una quindicina d'anni fa; fino a quel momento ero sempre andata dalla stessa parrucchiera (più che altro per non dover cercare qualcun'altro), una tizia blasonatissima (e oltretutto molto cara) da cui andava mia mamma da una vita, una di quelle che la fan cadere così dall'alto che pare un asteroide, che aborrono chi le chiama parrucchiere, loro sono hair stylist o hair designer, che nella loro testa farà una gran differenza, immagino.
La famosa volta del trauma andai a fare una permanente e quella cara donna, tutta presa a far salamelecchi alle sue clienti fisse (quelle che una volta alla settimana cascasse il mondo s'ha da fare la messa in piega) mi ha lasciato nelle mani di una dipendente poco esperta (o distratta, o sadica, non s'è mai saputo), la quale si è completamente dimenticata di avermi messo dell'acido sui capelli con il risultato di ridurre la mia chioma (naturalmente dritta come spaghetti) in un ammasso crespo. Non sto scherzando, sembravo Michael Jackson ai tempi dei Jackson Five.
Ha avuto pure il coraggio di farmi pagare e io da vera babbea non ho protestato (a mia discolpa, ero sotto shock). Cè voluto quasi un anno perché i miei capelli riassumessero un aspetto almeno umano.

Ovviamente da quel momento in poi non ci ho più messo piede e mi sono premurata di comunicare la mia disaventura a parenti e amici. Non aprite quella porta.
Altrettanto ovviamente mi è toccato trovare un altro parrucchiere e ammetto che, nel corso degli anni, ci sono stati alti e bassi, sono uscita dai vari negozi con delle teste che, secondo i casi, ricordavano il mocio vileda, un cavolo, un cane bagnato ecc. L'ultimo massacro risale alla fine dell'anno scorso: andavo da questa parrucchiera da un paio d'anni senza particolari problemi e anche Rico negli ultimi tempi aveva seguito la mia strada. Quel giorno quando è tornato a casa post-parrucchiera ero in salotto: è bastata un'occhiata per capire che il taglio non aveva il verso, la nuca era irregolare e in mezzo ai capelli corti c'erano dei ciuffetti più lunghi che sparavano in fuori. Mentre osservavo il capolavoro ho notato che sulle orecchie aveva delle strisce di colore nero e lui mi ha raccontato che la tipa che gli aveva tagliato i capelli ogni tanto andava a controllare la tinta di un'altra cliente e per non sporcarsi che si metteva gli appositi guanti, peccato che poi passasse alla testa di Rico senza toglierli.
La cosa avrebbe dovuto farmi riflettere ma sono di testa dura (se così fosse non avrei nulla di cui scrivere), quindi qualche giorno dopo ho preso appuntamento e mi sono messa nelle loro mani e, naturalmente, ho subito lo stesso destino (eccetto le orecchie nere): quando sono uscita dal negozio avevo un gran bisogno di un taglio di capelli.
Per farla breve ho dovuto cercare un altro negozio, però questa volta mi è andata decisamente meglio e, essendo uscita soddisfatta la prima volta, a distanza di un mese e mezzo ci sono tornata. Ecco com'è andata: quando sono arrivata erano già tutti occupati, quindi ho preso una rivista e mi sono seduta in paziente attesa. Davanti a me stavano mettendo in piega una signora anziana che a metà del lavoro ha risposto al cellulare e iniziato un'animata discussione con suo marito mentre il parrucchiere aspettava col phon in mano e una faccia che era tutta un programma.
Di lì a breve mi hanno fatto accomodare al lavaggio e devo dire che ho conosciuto momenti migliori: inizialmente il metodo adottato era forse un po' troppo energico ma niente di drammatico, però, quando il parrucchiere si è messo a tamponarmi i capelli con l'asciugamano mi sono sentita un po' come quei labrador quando gli fanno il bagno, sembrava che asciugasse il suo cane. Invece di asciugarmi le orecchie le ha prese tra l'asciugamano e le ha sfregate girandole! OOOOOOOOOOO!!!!!!! Ci terrei a tenerle attaccate!!!!!!

Anch'io però non sono stata da meno: una volta accomodatami sulla poltrona il parrucchiere mi ha chiesto chi di loro mi avesse tagliato i capelli l'ultima volta e ho dovuto ammettere che non mi ricordavo assolutamente, sapevo solo che era un uomo. Ho tentato di spiegare che senza gli occhiali (che ovviamente mi tolgo prima che mi lavino i capelli) non vedo niente, però non li ho convinti. In effetti devo ammettere che in questi casi io chiudo gli occhi e mi metto a pensare ai fatti miei ignorando il mondo esterno, però almeno ricordarsi una faccia...che vergogna!
Alla fine, tutto sommato, l'esperienza è stata interessante e, soprattutto, l'uomo mi ha fatto un gran bel taglio (per la seconda volta), quindi prevedo di tornarci tra un paio di mesi. E la prossima volta non ci saranno sorprese, prima di uscire gli ho dato una bella occhiata.

venerdì 23 marzo 2012

Maglie zebrate e pozioni vudù: incursione nell'UBUNTU mondo


Quella sera il dilemma era grave, la scelta tormentata: da una parte Farnedi suonava con i Good Fellas a Campiano e per un attimo avevo accarezzato l’idea di andare a vedere il loro concerto, principalmente perché la serata a cui partecipavano era una di quelle Rock & Roll e Cappelletti al Ragù e nessuno, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, rinuncia senza riflettere alla possibilità di sbafarsi un piatto di cappelletti al ragù rigorosamente fatti a mano. Dall’altra però mi sono detta che per noi indigeni un buon piatto di cappelletti al ragù è abbastanza facile da trovare quindi, dopo attenta riflessione, ho gettato alle ortiche Campiano e le sue lusinghe gastronomiche in favore dell’ex macello di Gambettola (ora noto semplicemente come 360) dove, a quanto mi aveva detto la Clodia, era previsto un concerto di Ettore Giuradei.
Eccovi una sommaria cronaca della serata: il trio Estrema-Clodia-Paul è arrivato senza contrattempi in zona macello, peccato che poi ci sia toccato girare un po’ per trovare parcheggio e che l’abbiamo trovato parecchio lontano, con grande sconforto di coloro tra noi (non faccio nomi) che erano vestiti cool ma un po’ leggerini. Io, pur avendo meno problemi col freddo, essendomi imbottita come un panino di Poldo, non avevo un look proprio scicchissimo, lo stile ricordava piuttosto da vicino quello del mio benzinaio. Son scelte.
All’ingresso abbiamo dovuto fare la tessera dell’associazione 360 per il 2012, e mi sono scoperta a compilare la scheda con grande cura, facendo attenzione a scrivere tutto in modo che fosse leggibilissimo; sospetto che la cosa avesse a che vedere con quelle 90 schede che mi era recentemente capitato di dover mettere su file per l’associazione culturale MicaPoco (di fronte a calligrafie che parevano encefalogrammi o codici criptati, le maledizioni tagliavano l’aria, la mia personale foresta dei pugnali volanti).
Appena messo piede nel locale abbiamo puntato decisi sul bar per confortarci con un primo giro di beveraggi; purtroppo le cose non sono andate proprio come previsto.
“Per me una cocacola”
“Mi dispiace, non la teniamo” la frase mi ha causato un pauroso flashback marchiato Pepsi (vedi Austin Powers, Mastrolindo e l’effetto Cecca), da cui mi sono ripresa solo quando la barista ha aggiunto “Se vuoi abbiamo una cola equosolidale, la UBUNTU”; mi sono fatta forza e sono entrata (sia pur con qualche titubanza) nell’UBUNTU mondo. Nonostante il nome da pozione vudù, a un primo timido assaggio la bevanda risulta un po’ meno zuccherosa della cocacola e quindi decisamente più gradevole. A volte il coraggio paga.
Il locale era già affollato e ho notato con una certa sopresa che davanti al palco c’erano parecchie file di sedie; avendo già visto un concerto di questo gruppo, mi era rimasta l’impressione di una band molto vivace, di quelle che ti mettono l’adrenalina in corpo, mentre la sedia per sua natura l’adrenalina la prende a badilate e la riduce al silenzio, insomma un connubio non proprio ideale. Vabbè, così stavano le cose, ce ne siamo fatti una ragione e ci siamo messi alla ricerca di tre posti, solo per scoprire che gli unici tre posti disponibili erano in prima fila, in bocca al palco e soprattutto proprio sotto le casse. Evviva.
Dentro il locale faceva un po’ freddo quindi ho tenuto addosso il giubbotto e devo dire che nel corso del concerto non mi è mai capitato di pensare che avevo troppo caldo e sarebbe stato meglio togliermelo: evidentemente i frequentatori del 360 sono gente temprata e virilissima che spezza lastre di ghiaccio coi denti per fare la granita. Immaginate la sorpresa quando ho visto il gruppo salire sul palco e mi sono resa conto che erano tutti in maniche corte, il batterista aveva addirittura i bermuda! In realtà non era un’idea così sballata, almeno per quanto riguarda il cantante e il batterista che si muovevano continuamente, l’unico dubbio mi è rimasto per il tastierista le cui possibilità di movimento/riscaldamento erano fortemente limitate dall’ancora della tastiera. Spero avesse la canottiera di lana.
Già dopo i primi pezzi il cantante è apparso ai miei occhi come una creatura ultraterrena, un essere mitologico capace di fare un intero concerto indossando una camicia bianca sottilissima, senza la minima traccia di ascella pezzata, cosa che aveva dell’incredibile, considerata l’energia che metteva nella performance. Qualcuno ha ipotizzato che avesse applicato all’interno della camicia dei salva ascelle (vedi foto esplicativa a destra) ma mi sento di escluderlo con fermezza, la camicia era talmente sottile che un’assorbente ascellare sarebbe stato visibilissimo. Torno quindi alla mia prima ipotesi, l’uomo in questione non è di questo mondo.
notare la maglia zebrata sulla parete a destra del cantante
La parete in fondo al palco era decorata da una serie di vestiti cuciti insieme a formare una specie di arazzo; come spesso mi succede, nel bel mezzo di un pezzo ho notato una maglia zebrata sulla parete dietro il cantante. Era una maglia piccola piccola, l’avrei detta una maglia da bambino (anche se non è che si vedano poi tutti sti bambini in giro con maglie zebrate). In più il modello non era da bambino! Misteri su misteri. La cosa mi ha perseguitato tutta la sera, ho ripetutamente rotto le scatole alla Clodia con le mie elucubrazioni e solo grazie alla sua smodata pazienza, unita a un autocontrollo che neanche Terminator, ella è riuscita a non prendermi a botte.
Sfortunatamente, la mia posizione mi garantiva un’ottima visuale su cantante e tastierista ma non sul batterista, la cui faccia era completamente nascosta da un piatto della batteria; dico sfortunatamente perché il batterista suonava con una foga e un entusiasmo pazzeschi e mi sarebbe piaciuto molto poter vedere che espressioni si accompagnavano a quelle performance.
Dopo qualche pezzo il cantante si è rinfrancato bevendo da un bicchiere di plastica pieno di un liquido scuro e ovviamente il mio primo pensiero è stato “Toh, anche lui beve UBUNTU”. Altrettando ovviamente l’ho visto appoggiare il bicchiere a terra e proprio di fianco a una bottiglia di vino rosso. Rassegnamoci, vivo in un mondo a parte.
Preciso che il concerto nel suo complesso mi è piaciuto molto, anche se non è mancato qualche isolato contrattempo, come ad esempio il classico problema tecnico che costringe il fonico a correre sul palco per sistemare le cose; in quel caso specifico, il mio piede è venuto a trovarsi sulla traiettoria dello zelante professionista il quale, in preda all’ansia, non si è minimamente accorto del massacro delle mie falangi. Per fortuna la mia mise da benzinaio si accompagnava a un paio di scarpe basse e chiuse, non voglio immaginare il trauma se avessi indossato un paio di quelle scarpine con la punta aperta che vanno tanto di moda adesso.
Del tutto inaspettatamente, a metà del concerto abbiamo assistito a una performance estemporanea: una danzatrice si è avvicinata al palco e ha iniziato a muoversi, immagino lasciandosi ispirare dalle canzoni del gruppo. Vorrei poter dire qualcosa al riguardo ma io di danza non ne ho un’idea, la mia grazia e leggiadria sono paragonabili a quelle dell’ippopotamo della Lines; però devo ammettere che il nesso tra quella musica e quella danza a me è proprio sfuggito. Fortunatamente dispongo di un breve video che posto qui sotto; se guardandolo riuscite a scoprire una qualche affinità e vi va di condividerla vi ringrazio, così mi togliete dal buio dell’ignoranza. Per il video in questione esprimo tutta la mia gratitudine alla Rinaldi e al suo telefono supertecnologico che fanno cose precluse ai più (cioè a me).

A fine concerto la band si è congedata come da programma e immagino sia stata una sorpresa e una gran soddisfazione l’essere richiamati a gran voce sul palco per ben tre volte da un pubblico che pareva seriamente intenzionato a far mattina ascoltando le loro canzoni.

Per me la sorpresa è arrivata invece la mattina dopo quando, aprendo il frigorifero per prendere il latte, ho visto sul ripiano di mezzo un sacchetto cuki gelo pieno di cappelletti al ragù che Farnedi mi aveva portato in regalo. Anche queste son soddisfazioni.

P.S. Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

domenica 18 marzo 2012

Prove di crioconservazione lato spiaggia

Oggi la vita è dura.
Per prima cosa ho l’influenza, il raffreddore, la tosse ecc ecc, in più nei prossimi tre giorni mi toccherà andare a tradurre a una conferenza molto molto dura; per fortuna già ieri la febbre era scesa ma il resto c’è ancora, per cui parto comunque per il convegno ma ho avuto giorni migliori.
Altra cosa fondamentale da specificare è che l’albergo che fa sa scenario a questo tranquillo weekend di paura sarebbe un 4 stelle.
Dopo viaggio noioso e un po’ sofferto, tra starnuti, colpi di tosse ecc, arrivo all’albergo verso le due di venerdì pomeriggio e vado direttamente in sala conferenze; seguono quattro ore decisamente pesanti ma che grazie a dio finiscono. Raccolgo le mie cose e salgo in camera per farmi una doccia ristoratrice prima di cena ma, aimè, tra quelle quattro mura fa un freddo boia, il riscaldamento pare accendersi solo quando infilo la scheda/chiave della camera nell’apposita fessura. Mi toccherà tenere addosso il cappotto per mezzora in attesa che la temperatura diventi perlomeno umana.
Ovviamente in queste condizioni di fare la doccia non se ne parla; all’orario stabilito con la collega scendo a mangiare qualcosa nella kebaberia a lato dell’albergo, tentando di scacciare il freddo a suon di kebab e patatine; poi, tornata nella ghiacciaia, tiro fuori con una certa rassegnazione la coperta dall’armadio (almeno stavolta la coperta c’è, vedi Forse in miniera è peggio...forse), la nottata si preannuncia difficile.
 Trascorsa una ventina di minuti la temperatura perde il suo tocco siberiano e io azzardo la doccia; mentre me ne sto lì sotto l’acqua rovente mi viene un’idea: la prossima volta che mi trovo con l’Antartide in camera, chiamo la reception e li avverto che data la temperatura polare della stanza mi vedo costretta ad aprire la doccia calda e a lasciarla aperta almeno fino a quando il vapore non avrà portato la temperatura su di qualche grado, magari accendendo anche il phon a palla per potenziare l’effetto, così alla fine si troveranno una bolletta elettrica da casinò di Las Vegas e forse realizzeranno che non stanno usando il sistema migliore per limitare le spese…
C’è da dire che nonostante l’ora tarda e il posto poco frequentato data la stagione, da fuori arriva parecchio rumore, ne concludo che se l’isolamento termico è ai livelli di quello acustico, metà del calore finisce a scaldare i granchi in spiaggia. Sì, perché siamo proprio sul mare e se non fosse che il freddo congela ogni entusiasmo, il posto sarebbe anche bello. Fortuna che non eravamo qui qualche settimana fa quando ha fatto la bufera di neve…
La mattina alle 7 mi sveglio, o meglio, mi sveglia il freddo. Basta, quando è troppo è troppo, prendo il telefono e chiamo la reception ringhiando:
“Scusi ma è acceso il riscaldamento? Qui è un freddo boia!”
“Mah, se vuole posso alzarlo fino a 25°, il sistema mi indica che in camera ce ne sono 23”
Se qui dentro ci sono più di 15 gradi io sono Paperino.
“Guardi il suo sistema si sarà rotto perché qua è un gran freddo e di sicuro non ci sono 23°!”
“Si vede che l’ospite prima di lei l’aveva abbassato”
L’ospite prima di me doveva essere l’abominevole uomo delle nevi, oppure è morto assiderato e l’hanno nascosto sul terrazzino.
Mi copro come posso e scendo a fare colazione, trovando una fila interminabile davanti all’unica macchinetta che fornisce bevande (i partecipanti al convegno sono almeno 150 e questi dell’albergo hanno acceso una sola macchina, complimenti, il QI vola sempre più alto). Per fortuna l’acqua calda per il tè è in un caraffone termico, quindi riesco a saltare la fila altrimenti a quest’ora sarei ancora là.
La situazione già difficile è ulteriormente complicata dal fatto che quest’anno, per ridurre i costi, gli organizzatori hanno previsto solo la traduzione simultanea in italiano o in inglese, obbligando quindi i relatori a parlare solo italiano o inglese, senza però controllare che fossero effettivamente in grado di farlo e la decisione non è stata illuminata, ho sentito cose... Il momento di massimo sconforto (qualche giorno prima del convegno) è coinciso con l’arrivo di un breve testo (la sintesi di un intervento di circa mezzora) che pur contenendo parole inglesi, non aveva né capo né coda; quando abbiamo fatto presente la cosa al cliente, commentando preoccupate che uno che scriveva così chissà come avrebbe parlato, l’organizzatore si è offerto di tradurci qualsiasi termine tecnico oscuro, il problema è che non c‘erano poi molte parole sconosciute (magari erano scritte male, però si riconoscevano) ma sembravano messe insieme a caso, tipo estratte da un cilindro e attaccate lì. Il è primo pensiero è stato Avranno usato il solito traduttore automatico ma poi è arrivato il secondo “Un computer mette insieme le parole alla boia ma le parole, quelle, le scrive bene , qui le parole sembrano terremotate! Siam rimaste col dubbio, forse un trip di acido? O magari due bottiglie di quello buono a stomaco vuoto? Chissà…
Tra gli altri momenti degni di menzione c’è stato il pranzo a buffet (ricordo, sempre nell’hotel 4 stelle), la sala scelta allo scopo sembrava più un magazzino che una sala: c’erano solo porte antipanico con grossi maniglioni a spinta, e i cavi della luce invece di essere all'interno del muro come ci si aspetterebbe in una sala da pranzo normale, correvano liberi come mustang lungo le pareti, terminando in pompa magna dentro grossi interruttori di sicurezza; in più, per dare un tocco di eleganza alla tavola, i tovaglioli erano di carta e la tovaglia copriva a malapena il tavolo.
Torno in camera dopo pranzo per riposare un po’ e scopro che la camera è calda ma il bagno no. Vabbè, è comunque un miglioramento. Accendo la tv per distrarmi un po' ma per quanto provi non riesco a cambiare canale, sto coso non mi dà retta, evidentemente io emano un fluido malefico che trasforma gli oggetti inanimati in demoni tipo Christine la macchina infernale. Boh. In questo caso però non posso incolpare l’albergo, questo tipo di incidenti tecnologici per me sono all’ordine del giorno, sono tecnologicamente svantaggiata. O invornita, fate voi.
Alla fine preda della disperazione, cerco di spegnerla ma…non ci riesco! Sul serio, non sono capace di spegnere sto maledetto apparecchio. Sembra uno di quei film demenziali dove c’è il povero sfigato a cui ne capitano di tutti i colori. Dopo aver fatto qualche altro tentativo, alla fine mi rassegno e lascio acceso abbassando il volume al minimo, pensando che tanto appena esco e tolgo la chiave si spegne tutto, tv compresa. Oddio, potrebbe anche essere che si spenga solo il riscaldamento ma la tv continui allegramente a funzionare, le priorità innanzitutto.
Quel pomeriggio in sala conferenze, spinta dalla necessità, mi metto alla ricerca di una toilette. Inizialmente sembra si debba uscire dalla zona conferenze e tornare all’albergo vero e proprio, poi scopro che nel piano interrato c’è un bagno ma hanno messo una fioriera davanti alle scale per impedirci l’accesso (per evitare di dover pulire anche quello, suppongo); ovviamente ci vuol altro che una fioriera per fermarmi, anche perché per arrivare a un altro bagno si deve uscire dal complesso e fare una ventina di metri fuori all’aperto e, in febbraio, senza cappotto e malaticci, non è proprio cosa. Scendo le scale e in effetti il bagno c’è, il riscaldamento purtroppo no; con tutta probabilità la zona conferenze è senza riscaldamento da mesi, mi sento come quelli che arrivano al centro di ricerche artiche in “La cosa” di Carpenter.
A parte il freddo, sento un che di fastidioso nell’aria ma non capisco bene cosa, sospetto che il freddo mi abbia intirizzito il naso. Svelerò l'arcano solo alla mia terza visita, notando sul chilometrico lavello un simpatico cestino pieno di roba secca dove qualcuno a collocato un diffusore di essenza alla vaniglia che, come è noto, io apprezzo quanto un vampiro l’acqua benedetta.

La seconda notte dormo meglio, principalmente grazie alla seconda coperta che mi sono fatta dare alla reception. La mattina solito freddo boia, telefono in reception per chiedere che mi accendano sto riscaldamento benedetto e mi rifugio in bagno (lì c’è un termosifone e quello va) per dieci minuti, quando esco dal bagno la stanza è già un po’ più calda, il condizionatore/riscaldatore sta finalmente facendo il suo dovere, peccato che oggi sia l’ultimo giorno. No, pardòn, grazie a dio che oggi è l’ultimo giorno.
Arrivo a fare il check out e quello della reception insiste a dirmi che nella mia camera c’erano 25 gradi; mi controllo e riesco a non mandarlo dove peraltro meriterebbe, limitandomi a commentare che evidentemente il termostato è rotto e sarà il caso di controllare.
Ovviamente sono le 9.20 e, mentre noi attendiamo pazientemente in cabina, il resto del mondo è a fare il checkout e ci starà ancora a lungo perché al banco della reception c’è solo un simpatico omino (quello di prima) e se il poveretto deve fare da solo il check out per  tutti…
Non mi ricordo la conclusione del convegno, temo di aver rimosso tutto, ricordo solo la hall, la porta dell’albergo che si apriva e io che uscivo fuori nel sole.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
4 stelle.

lunedì 12 marzo 2012

Febbraio tra i ghiacci, finiamo col botto!

Un mio informatore segretissimo, che che di recente è stato a Roma per lavoro, mi ha portato in regalo una vera perla: pare che nei giorni scorsi presso le edicole della capitale fosse in vendita un libro fotografico allegato al Corriere della Sera.
Titolo del capolavoro "Nevicava a Roma: un racconto per immagini". Prezzo: setteeurienovantacentesimi, più il prezzo del quotidiano.

Essendo io riuscita a reperire un'immagine dell'incredibile reperto, vorrei attirare la vostra attenzione sulla foto in copertina: osservate quella cupola che pare appena spruzzata di zucchero a velo, un pandoro quasi, su quei tetti poi potrebbe esserci benissimo solo smog trattato con fotosciòp.
Sfortunatamente l'informatore in questione non si è minimamente sognato di buttar via più di otto euri per l'acquisto di siffatta chicca, un po' me ne dispiace ma onestamente non so dargli torto, se l'avesse fatto, subito dopo aver pubblicato questo post si sarebbe reso necessario un rogo purificatore.

Sempre navigando, ho trovato una breve presentazione del libro in questione sul sito del Corriere della sera:

Una nevicata che passerà nella storia, un racconto per immagini, scritto da Paolo Conti, in edicola da oggi con il «Corriere» a 7,90 euro. «Nevicava a Roma» ripercorre i giorni appena passati in cui la Capitale si è trovata con decine e decine di centimetri di neve, tra disagi, arrabbiature e ironia.


Che altro dire, se non: MA LA NEVE NON C'ERA!!!!!!!!!!




Ripropongo volentieri questo video che rispecchia fedelmente il mio punto di vista:




giovedì 8 marzo 2012

Panico da palcoscenico tra folletti, lattuga e rimozioni per neve

Questo articolo era previsto per la settimana scorsa ma, essendo io prostrata dal maledetto morbo che spaccia giovani (e meno giovani) promesse romagnole con implacabile ferocia, ho mantenuto un profilo basso per qualche giorno girando per casa infagottata in un poncho di lana, scuotendo la testa e gemendo La è brotta la è brotta, citazione della lamentela standard di mio suocero quando è malato. Adesso però, sarà che mi è toccato andare a lavorare questo fine settimana e in condizioni allucinanti, sarà che mi ritrovo un po’ di tempo tra le mani, ho deciso di buttarmi su un nuovo articolo.
Bene, oggi vi chiedo di fare un po’ di ginnastica mentale e tornare indietro con la memoria al 16 febbraio scorso. Non che il 17 o il 25 non fossero ugualmente degni di nota ma, giovedì 16 febbraio, dopo due rinvii nelle settimane precedenti dovuti a bufere di neve forza otto,  è finalmente partita la rassegna di Across the Movies 2012 di cui ho già parlato in passato. Come sempre, l’evento prevedeva un film/documentario, in questo caso sui Pixies e la loro reunion, preceduto da una presentazione del gruppo a opera di Luigi Bertaccini, alcuni video (tra gli altri Caribou) e una performance live (cortesia dei Rock’n’Roll Kamikazes).
Ho mangiato alla velocità della luce e sono partita con largo anticipo temendo di dovermi scavare un parcheggio nella neve con le mie proprie mani,  essendo che in centro c’erano montagne di neve ancora ovunque; invece mi è andata abbastanza bene, probabilmente ho fregato il parcheggio a qualcuno dei residenti che mi avrà mandato quelle due-tremila maledizioni.
Seduti al bar del cinema mi aspettavano la Clodia e Paul, giunti direttamente dal lavoro e decisamente affamati. Di lì a poco è arrivato il barista con i due panini che i nostri avevano ordinato; nonostante gli anni trascorsi in sua compagnia, riesco ancora a farmi prendere alla sprovvista dalle scelte alimentari della Rinaldi, in questo caso il panino con lattuga (solo pane e lattuga, anche il barista era perplesso) che lei ci ha assicurato essere buonissimo (?)
Poco a poco sono arrivati anche gli altri, inclusa l’Albertini che indossava per l’occasione un paio di jeans pieni di strappi, evidentemente ormai promossi nuovo look supertrend neve (per maggiori dettagli vedi Febbraio tra i ghiacci...) A questo punto mettetevi nei miei panni: l’Albertini è quella che tutte le volte che si va da qualche parte è coperta fino al naso e comunque ha freddo, arriva a casa nostra e si avvinghia alla stufa, oppure si lamenta che teniamo il riscaldamento troppo basso, come facevo a far passare il jeans strappato sotto silenzio? Quando gliel’ho fatto notare la gigina ha ribattuto senza scomporsi che in realtà gli strappi si erano allargati in questi giorni causa le montagne di neve ovunque che richiedevano un’ampiezza di movimenti fuori dal comune. Sì, certo, come no!
Alla fine siamo entrati in sala e si sono aperte le danze; dentro c’era una temperatura a dir poco caraibica e ovviamente mi ero dimenticata di comprare l’acqua quindi dopo poco boccheggiavo invocando una finestra aperta; fortunatamente, proprio come predetto dall’Albertini, la temperatura è andata via via calando e alla fine era addirittura un po’ freddo ma ho preferito non dire niente per non fare la figura della maletta. Dopo una decina di minuti, Luigi Bertaccini ha interrotto la presentazione per informare il pubblico che in Corso Cavour c’erano i camion che dovevano portare via le montagne di neve e che avrebbero rimosso le macchine in sosta, invitando caldamente chiunque avesse la macchina lì a correre a spostarla. Io, pur essendo parcheggiata in una via parallela, ho passato tutto il resto della serata con un tarlo nel cervello “E se me la rimuovono? Oddio e se decidono di fare una via in più e la rimuovono? Come ci torno a casa?”  Un’ansia di quelle da manuale.
Nel corso della presentazione abbiamo visto anche alcuni video del gruppo:                                                                                                                                                                     


e mi vedo costretta a confessare che, la prima volta che ho posato gli occhi su Black Francis il dubbio che in realtà si tratasse dell’attore di Little Britain è stato forte (anch’io ho i miei problemi); ho apprezzato molto la performance dal vivo di The Rock’n’Roll Kamikazes che hanno reso perfettamente l’energia e la potenza dei Pixies, pur essendo solo in due e non vedendo praticamente una cippa, causa buio totale in sala e faretto di luce rossa che qualcuno aveva astutamente puntato in faccia a entrambi. Passando al documentario la situazione si è fatta più spinosa, mi è presa una tristezza infinita vedendoli sbattersi in giro per le città incapaci di comunicare tra loro e a volte spaesati di fronte a folle osannanti che avrebbero applaudito qualsiasi cosa avessero fatto; immagino che in quei casi ti venga il dubbio che in realtà stiano applaudendo non te ma un’idea di te che si sono fatti e che non ha niente a che vedere con chi tu sia in realtà, son cose che possono far venire un po’, solo  un po’, di panico. Però quando iniziavano a suonare erano veramente trascinanti, un’energia che ti si attaccava addosso e ti portava dove voleva lei.
Con mia grande soddisfazione, il documentario era in lingua originale, corredato dai sottotitoli in italiano per chi magari non riusciva a seguire proprio tutto. Solo a fine documentario, guardando i titoli di coda (sottotitoli: Antonio Babini e Concetta Barbera), ho scoperto che in realtà il documentario in questione non è sottotitolato ma il buon Totonno, mosso dalla sua passione per i Pixies, aveva deciso di sobbarcarsi aggratiss il lavoro di sottotitolaggio, schiavizzando la povera Concetta, sera dopo sera, per chissà quanti giorni. Santi subito.


Normalmente alla fine della proiezione si cazzeggia un po’ nel foyer del cinema, chiacchierando e bevendo qualcosa cullati dalla musica del diggei; in questo caso però non era cosa, io ero preda dei timori per l’incolumità della mia voiture per cui mi sono dileguata rapidamente, non senza prima aver chiesto all’Albertini di tenere il cellulare acceso nel caso mi avessero portato via la macchina e necessitassi un passaggio.
Fortunatamente la mia fiesta era ancora lì, un po’ ammaccata ma incolume, accoccolata tra due montagne di neve.
Mentre mettevo in moto potevo vedere, nella strada a fianco, il lampeggiante del camion che avanzava minaccioso raccogliendo la neve.


P.S. Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

lunedì 5 marzo 2012

Il romanticismo ci salverà

So che corro il rischio di ripetermi ma non si può restare con le mani (o la penna) in mano di fronte all'abominio.

Stasera Buddy Valastro ha la serata romantica con la moglie, quindi ha deciso di fare un piatto irresistibile: chicken sorrentino e fusilli.
A coloro tra voi che non conoscono Buddy Valastro (per ulteriori dettagli: Cucina con Buddy, pulizia delle coronarie a breve) e che stanno pensando "Vabbè, non sarà un gran lusso ma da lì a scriverci un pezzo sopra ne corre..." consiglio di continuare a leggere, possibilmente seduti.

Il nostro eroe inizia preparando il sugo di pomodoro per i fusilli, usando solo pelati, zucchero e basilico, tutto sommato cominciamo bene. Procede poi a condire i fusilli e li mette sul fondo di una pirofila da forno, cospargendoli di abbondante parmigiano.
Io me ne sto stesa sul divano in pace col mondo e aspetto un qualche twist da cuoco che renda il piatto romantico, perché altrimenti ditemi voi se si può servire della pasta al pomodoro per la cena tra cuoricioni...
Buddy ovviamente non si fa pregare e aggiunge, proprio sopra ai fusilli tre bei filetti di pollo alla griglia con un'espressione soddisfatta che è forse la cosa più agghiacciante di tutte.
Mi chiedo come diavolo gli venga in mente di servire il filetto di pollo alla griglia su letto di fusilli, poi rifletto che è americano e quindi ci vuole un po' di comprensione. Mentre me ne sto lì a cercare di giustificarlo, tutta bontà e comprensione, il marrano mi pugnala allo stomaco schiaffando sopra i filetti delle fette di prosciutto crudo. A quel punto mi sento mancare il fiato e il maledetto, approfittando della mia temporanea incapacità, aggiunge a quell'orrore culinario quattro fette di melanzane impanate e fritte. Ormai è un grattacielo. Non so più dove guardare, ho gli occhi sbarrati e scuoto la testa ma non mi esce un suono dalla bocca, credo lo chiamino trauma.
Lui intanto, del tutto ignaro dello scempio che sta compiendo, procede a completare la sua opera con salsa di pomodoro e mozzarella, giusto per allegerire un po'.
Arriva sua moglie e lui estrae la pirofila dal forno per servirle una porzione; nel mentre commenta che questo sì che è un piatto completo. Secondo me sono almeno tre piatti completi.
Scopriamo a questo punto che Buddy ha aggiunto i fusilli perché la moglie ama la pasta (?)
Lui sì che è romantico.

venerdì 2 marzo 2012

Una dura, cremosa pagnotta

Non mi ricordo esattamente quando, sarà stato qualche settimana fa, leggevo una delle solite riviste da colazione e c'era un simpatico servizio sulle creme da uno stramilione di euri, di quelle con le scaglie d'oro, la polvere di diamanti o gli occhi grattugiati di zibellino. L'autore o autrice dell'articolo sosteneva che, trovandoci in un momento di crisi nera e non potendo investire i pochi risparmi in borsa, visti gli svarioni del mercato, che un giorno sei a mille e il giorno dopo nella Fossa delle Marianne, la cosa migliore era investire in una bella crema per il viso (di quelle che ti tocca pagare a rate, come la macchina) in attesa di tempi migliori, prendendosi cura della propria persona e preparandosi così al meglio per futuri colloqui di lavoro.
 Ora, mi sono immaginata la scena del povero o della povera giornalista che si sente dire "Guarda, per la prossima settimana dobbiamo pubblicizzare sti pomatoni che costano un occhio, vedi un po' tu che taglio dare alla cosa".

Improvvisamente mi è sovvenuto un parallelo con una mia personale esperienza di tanti anni fa; mi riferisco a quella volta in cui, al corso di inglese, l'insegnante ci ha proposto un gioco per migliorare le nostre arti oratorie: ci ha fatto estrarre un biglietto da un cappello per assegnare a ciascuno un mestiere, poi ci ha informati che eravamo naufragati su un'isola deserta (stile Biutiful ma senza vestiti stracciati ad arte per coprire le pudenda) ma non avevamo abbastanza viveri per tutti, ragion per cui la comunità avrebbe votato per decidere chi sopprimere per garantire la sopravvivenza degli altri (bel gioco, complimenti prof). Avevamo tre minuti a testa per convincere gli altri a risparmiarci.
Ho aperto il mio foglietto: io ero il barbiere.