venerdì 20 dicembre 2013

La Genesi dei Biscotti.

Quella che vado a narrate è la genesi di un pezzo intitolato "l'odore dei biscotti". Non si tratta dell’ennesima pubblicità del Mulino Bianco con Banderas che fa il nonno, bensì di una canzone natalizia, e immagino che, alla sola vista delle parole canzone natalizia stiate già pensando di smettere di leggere, quindi sarà meglio prendere un’altra strada così magari vi distraete e non tagliate la corda.

Qualche settimana fa aveva luogo, tra me e il Farnedi, la seguente conversazione:
F: Mi hanno chiesto di partecipare a una compilation natalizia sul sito di Mescalina.it
E: Bello, ma con una cover o una canzone tua?
F: Non c'è molto tempo, stavo pensando a una cover...
E: E quella cosa dei biscotti che mi hai letto stamattina? Quella fa molto natale...
F: In effetti...

Partendo da quel dialogo e da due righe biscottose, passando per un buttasù di parole, frasi e madonne che non sto a dirvi, siamo arrivati al testo definitivo della canzone. La cosa di cui sono più fiera è che l'abbiamo scritta insieme e tutto senza spargimento di sangue. C'è sempre una prima volta.
Generalmente, quando Farnedi mi sottopone un testo nuovo, io entro nel mode revisione e faccio la radiografia a ogni singola parola, con conseguente lista di quello che secondo me va modificato (sono veramente simpaticissima). Per quanto incredibile possa sembrare, non ha mai cercato di uccidermi.
Perché, ammettiamolo, quando scrivi qualcosa e poi ti senti dire che anche solo una frase non funziona, non è che la prendi bene subito; quando lui legge i miei articoli e mi dice che una parte è lenta, va accorciata ecc ecc, come prima cosa gli darei una badilata, poi ci rifletto e magari ha ragione ma mi resta sempre un po' di amaro in bocca, è come se stesse dicendo che mio figlio è brutto.
Chissà forse questa volta ci ha salvato il fatto che lo scarrafone era di tutti e due...

Ovviamente però una canzone non è solo testo, quindi il musico è entrato in clausura creativa per un breve
periodo (anche se alla fine l'idea chiave gli è venuta al volante), uscendone con la parte musicale bella e finita.
Nel mezzo della fase di registrazione, è salito dalla cantina e mi ha chiesto se volevo fare qualche coro, specificando quanto segue: Lolli ha già registrato le tre voci, tu devi semplicemente rifare la terza, quella più acuta.
Ora, non ho dubbi che l'intento fosse quello di rassicurarmi sul fatto che dovevo solo ascoltare e ripetere come già fatto in passato (vedi E un giorno ti svegli e sei il gatto con gli stivali), però forse Farnedi non aveva considerato che il prode Riccardo Lolli si arrampica su per le note come l'Uomo Ragno per i grattacieli: vede una nota lassù in cima a un palazzo avvolto nella nebbia, lancia la sua tela di ragno e quella lo guida senza sforzo alla vetta da conquistare. Io più che altro sono Mr Magoo che cammina sulla trave sospesa nel vuoto, brancolo nel buio sperando di prenderci.
Alla fine ci ho ho cavato le zampe, però provate a immaginare per un momento la tensione che sente una maniaca del controllo quando si trova a cantare ma non sa che note sta cantando: andavo a orecchio, non sapevo mai se mi ricordavo giusto, se le note erano quelle o me le stavo inventando, una sudata...
Comunque tutto è finito bene, la registrazione fatta, il testo pronto, tutto era gioia e gaudio e la vita tornava a sorridermi, almeno fino a quando il gigino è venuto da me e mi ha detto: "Il 23 la canto al concerto di Natale al Pappafico, vieni a fare i cori?"
Se devo essere sincera, me la sto facendo sotto.


P.S. Ormai la compilation non è più disponibile, però qui sotto trovate il video della canzone. Enjoy



P.P.S. Questo articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press


martedì 10 dicembre 2013

La vita del guerriero non è tutta onore e gloria

Il fine settimana appena trascorso è ormai tradizionalmente conosciuto come il weekend dei mercatini di Natale, momento in cui orde di shoppingari agguerriti calano sui paeselli montani, lasciando dietro di sè solo qualche filo d'erba e due bicchieri di vin brulè mezzi vuoti.
Ogni volta che sento l'espressione "mercatini di Natale" mi prende l'ansia, m'immagino inchiodata in mezzo a una folla oceanica mentre, incapaci di muoverci, fissiamo impotenti tre bancarelle che ci sfilano davanti al ritmo di simpatiche canzoncine natalizie, e son sempre le stesse (sia le bancarelle sia le canzoncine).
Va da sè che per portarmi in montagna a uno dei tradizionali eventi di cui sopra devono come minimo puntarmi una pistola alla tempia (se prendono in ostaggio i miei parenti non è scontato che ceda, dovrei prendermi del tempo per riflettere), però c'è un mercatino di beneficenza che non disdegno (meno frequentato e rigorosamente in pianura), trattasi di quello che il Comitato contro la fame nel mondo organizza ogni anno a Forlì.
A questi eventi è sempre meglio andare presto, non solo perché i pezzi migliori spariscono in fretta, ma soprattutto perché i bomboloni e le tigelle che le signore del comitato vendono per autofinanziarsi sono molto richiesti e se vai a mezzogiorno te li puoi scordare. Sabato scorso arrivando per tempo sono riuscita ad accaparrarmi tre confezioni di tigelle, quattro bomboloni e due porzioni di lasagne con verza e salsiccia. Proprio niente male.
Una volta messo al sicuro il mio tessoro in macchina, sono salita al piano di sopra, al reparto soprammobili e affini; qui generalmente si trovano le gemme più preziose del mercatino, autentici capolavori di menti, chiamiamole particolari.
* Declino qualsiasi responsabilità per l'eventuale ispirazione che le immagini  a seguire potrebbero offrirvi per la scelta dei regali di Natale.
                                                                                            Iniziamo, come si dice, col botto: qui a fare la differenza è l'evidente intento doloso dell'autore: la prima volta che ho visto codesta scultura mi dava le spalle, quindi non l'ho neppure 
degnata di una seconda occhiata, la vista frontale ha cambiato decisamente le cose e ditemi voi se non avevo ragione...

Perché, Signore benedetto, perché?
Il regalo più indicato per colui che necessita un telefono, un orologio e un mulino a vento, tutti insieme appassionatamente.
Colui che ha ideato questo oggetto lo ha curato fin nei minimi dettagli: dalla rotella del telefono che non gira ma vanta tasti modernissimi, fino al materiale che, nonostante l'argenteo colore, altro non è che leggerissima plastica. Ci tengo a precisare che la decorazione dorata sotto l'orologio si muove, presumibilmente a scandire il tempo. Un po' più misterioso rimane il ruolo del mulino a vento le cui pale girano ma non sappiamo se seguano lo scandire dell'orologio o si attivino in risposta allo squillo del telefono. Chi avesse in casa uno squisito oggettino simile a questo è pregato di inviarci un chiarimento via mail (se anonima, lo capiremo).

A questo punto è necessario un momento di raccoglimento, consiglio di fare un bel respiro e prepararsi a qualcosa che onestamente è IN: inspiegabile, inconcepibile, indifendibile e, ovviamente, inguardabile.

L'elmo del guerriero che vedete qui a fianco si trovava su un ripiano basso, seminascosto in un angolo, ancora tremo al pensiero che ho rischiato di passargli davanti senza accorgermi di cotanta...cotanta.
Pur apprezzando il prezzo contenuto dell'oggetto che viene via a soli 12 euri, confesso che in un primo momento il suo fascino mi eludeva ma, avendo già una certa esperienza in questo campo (vedi A caval donato...) non mi sono lasciata scoraggiare e, avvicinandomi per osservarlo meglio, ho notato che non si trattava di un semplice elmo, c'era qualcosa dentro! Ho allungato una mano tremante verso la visiera, combattuta tra la curiosità e l'inquietudine (Non aprite quella porta) e questa si è lasciata sollevare senza neppure un cigolio di protesta; nell'immagine qui sotto potete vedere cosa si celava ben nascosto sotto la visiera.



La prima cosa che ho notato è stata quell'espressione tra il sofferente e l'incazzato (la faccia di uno che sa di aver combinato un casino di quelli grossi ma è convinto che in fondo non sia colpa sua), solo dopo lo sguardo è salito su, restando inchiodato al
livello del dorato cranio.
Abbracciando la filosofia del bicchiere mezzo pieno (in fondo è quasi Natale), questo è il regalo ideale per convincere il nonno fumatore incallito a smettere di fumare: se ogni volta che vuole accendersi una paglia gli tocca sollevare quella visiera (che già da sola sa di galera) e poi si trova di fronte una faccia così, garantito che dura poco...

Confesso che sarei molto curiosa di sapere se qualcuno ha comprato questo obbrobrio e a quale scopo. Dal mio punto di vista sarebbe stato il regalo perfetto per la nostra tradizionale tombola degli orrori ma le stupide regole del gioco (niente regali acquistati apposta) mi hanno legato le mani, dannazione!

venerdì 6 dicembre 2013

Lo squalo e il bagnante ignaro

Essendo che ormai lavoro da parecchi anni, è raro che mi capiti qualcosa che non è proprio mai successo prima; quella che mi accingo a narrare è una di quelle rare volte. 
Sto andando a un meeting aziendale a fare della traduzione simultanea senza aver ricevuto prima alcun materiale per prepararmi (e questa non è una novità, sigh) ma, soprattutto, senza neppure avere il programma della giornata. Non ho la più pallida idea di cosa faranno. Buio assoluto. Chi  vivrà vedrà.
Quando finalmente arriviamo in loco dopo un'ora e mezza di viaggio sulla E45 innevata, (buche ovunque, la quintessenza del viaggio rilassante) le cose non migliorano; scopriamo infatti che il nostro convegno inizierà non alle 9 bensì alle 9.30. Impossibile non pensare a quanto ci avrebbe fatto comodo quella mezz'ora di sonno in più e digrignare silenziosamente i denti. Pensiamo alle bollette da pagare e andiamo avanti.
Verso le 9.15 la sala inizia a riempirsi e immaginate la sorpresa quando mi rendo conto che buona parte dei partecipanti sono donne; per quella che è la mia esperienza, quando i quadri dirigenti di un'azienda si incontrano, spesso le donne si contano sulle dita di una mano, quando ci sono. 
Ecco che la giornata comincia a farsi un po' più interessante, se non altro quando alzo lo sguardo sulla sala non c'è quella muraglia di grigio e blu controllore che fa sempre una gran tristezza. 
Nel corso della giornata vengo anche a sapere che, nonostante la crisi economica pesantissima, questa azienda negli ultimi anni è cresciuta notevolmente, è possibile che ci sia una correlazione tra il numero di donne in posizioni di responsabilità e gli ottimi risultati dell'azienda?
Mentre rimugino il concetto, sentendomi molto saggia e consapevole (di cosa non è chiaro), il mio corpo prende prepotentemente il sopravvento: devo fare la pipì. Cedo alle pressioni e mi alzo per andare in bagno; uscita dalla cabina mi dirigo verso l'uscita della sala e spingo la porta, la quale porta però fa finta di niente e non si sposta di un millimetro. Perplessa, riprovo un paio di volte ma poi, visto che sto facendo rumore e dando un po' nell'occhio (un paio di persone si sono accorte di me e stanno osservando la scena come se fosse un film comico), getto la spugna e me ne torno verso la cabina con la coda tra le gambe. 
Ciò (espressione romagnola perfetta per occasioni come questa), io in bagno ci devo proprio andare! Ma cosa fanno, ci chiudono dentro? È sequestro di persona!!!!
Guardandomi intorno vedo che proprio dietro la cabina c'è una porta di quelle col maniglione antipanico e basta una spinta decisa per aprirmi le porte della libertà. 
Una volta risolta l'emergenza toilette, faccio per tornare in sala ma la cosa è più complicata del previsto: la famosa porta col maniglione antipanico si apre solo a spinta e dall'interno! Cosa faccio? Non posso mica rimanere fuori fino alla pausa caffè, tra un po' devo dare il cambio all'Elena, sono già venti minuti che traduce lei...
Comincio a perlustrare le pareti esterne della sala alla ricerca di un'opportunità, un po' come lo squalo che gira intorno al bagnante ignaro; appena dietro l'angolo, noto dei cavi che escono da una fessura, nella parete c'è un pannello scorrevole e spingendo un po' riesco ad aprirlo abbastanza da sgusciarci attraverso con lo stile aggraziato ed elegante della blatta sul muro, il tutto sotto gli occhi attoniti del tecnico.
Torno in cabina e con un sospiro di sollievo faccio segno all'Elena che sono pronta a darle il cambio; prima di iniziare a lavorare, in quel limbo di qualche secondo in cui possiamo comunicare, le annuncio Ho fatto un'altra figura fantozziana, poi ti racconto... dopodiché mi lancio a tradurre.
Mentre buona parte del mio cervello è impegnata con la simultanea, quei due neuroni liberi osservano l'Elena che, raccolti borsa e cellulare, esce dalla cabina. Quando realizzo cosa sta per fare è già troppo tardi, vorrei avvertirla, fermarla, ma sono intrappolata in cabina, non posso smettere di tradurre, non posso alzarmi, posso solo restare a guardarla mentre anche lei tenta ripetutamente di aprire quella dannata porta. 

Cosa volete, ci sono quei giorni così, in cui ti senti nell'ordine: invornita, impotente, su Candid Camera. Speriamo almeno che il buffet sia buono...



mercoledì 27 novembre 2013

I polli in batteria e l'occhio di bue

Con questo post torno su un argomento difficile e già parzialmente trattato in un precedente articolo (Tondo è bello): cosa capita quando decidi di andare a vedere un concerto. Abbiamo già analizzato l'universo di quelli che potremmo definire gli incidenti in itinere, adesso occupiamoci di cosa succede quando finalmente ti trovi in loco. Tu, nella tua ingenuità, pensi che ormai il peggio sia passato e intanto il destino è lì che tira i suoi fili e se la ride sotto i baffi. Facciamo un paio di esempi:
1) entri, ordini da bere (hanno la cocacola, niente pepsi per fortuna) e ti siedi a un tavolo, dopo qualche minuto si spengono le luci e inizia il concerto. Mi correggo, si spengono alcune luci perché, per motivi inimmaginabili (ci saranno, senza dubbio, a me però sfuggono), c'è un faro tipo quelli per guidare i naviganti che qualche genio ha puntato sul pubblico invece che sul gruppo che sta suonando. In quel momento ti senti molto vicina a quei poveri polli allevati in batteria a cui lasciano sempre una lampadina accesa tentando di farli mangiare di più; guardandoti intorno ti salta all'occhio quel signore seduto davanti a te che, poco prima del concerto, ti avevano descritto come un frequentatore abituale del locale e dei suoi concerti. Quel signore con il suo cappellino con visiera ben calato in testa che a prima vista ti aveva fatto tenerezza e che ora invece riconosci per quello che è: la prova inconfutabile del fatto che l'occhio di bue in cui ti trovi non è il risultato di un pur comprensibile errore luci, ma di una sadica abitudine dei gestori. A saperlo prima ti spalmavi la crema solare.
2) questa volta il concerto è rock quindi non ci sono sedie, il posto non è enorme per cui siete tutti assiepati intorno al gruppo, come la banca Mediolanum. Inizia il concerto e dal palco parte una colonna di suono che è come se ti prendesse a randellate, non puoi vederlo ma i tuoi padiglioni auricolari sono già pieni di lividi; urli "Ma che cxxxo di volume hanno?!!!" a quello di fianco a te ma tanto nessuno può sentirti, i decibel sono talmente spallati che sono diventati centibel, millibel. Tu non puoi saperlo ma quella sera a cena il chitarrista ha scommesso che riuscirà a fare venire giù l'intonaco dai muri tutto da solo e, in effetti, sembra sulla buona strada.

Alla luce di quanto detto, mi permetto un suggerimento agli amici artisti: se, mentre suonate, notate tra il pubblico più di una persona che pare imitare un quadro di Much, provate a ridurre il volume, magari aiuta.



P.S. Non essendo riuscita a trovare un’immagine soddisfacente per rappresentare il titolo, ho schiavizzato Farnedi facendo leva sulla sua compassione per la mia totale incapacità di tenere in mano una matita. Direi che mi è andata bene, mi sa che il pollo-disegno che vedete nell’articolo sarà il primo di una lunga serie.


P.P.S  Questo articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press

mercoledì 20 novembre 2013

Dalla padella nella brace

"Sei venuta in macchina?"
Quando a farti una domanda del genere è l'oculista durante un controllo della vista, lì per lì non è che reagisci proprio bene; invece poi basta un secondo e tutto torna alla normalità quando realizzi che l'uomo vuole solo metterti le gocce che dilatano le pupille per controllare il fondo dell'occhio e, giustamente, si preoccupa della sicurezza tua e degli altri.
Oggi è uno di quei giorni che quando suona la sveglia vorresti spegnerla, tirare due madonne e girarti dall'altra parte; peccato che io le madonne non le tiri, quindi posso solo accontentarmi di un lugubre lamento. Dopo mesi di scuse e rinvii, stamattina mi tocca la visita oculistica e poi oggi pomeriggio ho la seduta dall'estetista.
Sparatemi subito e facciamola finita.
Fortunatamente dal dottore mi ha portato Rico quindi affronto baldanzosa la prova gocce anche perché, a parte un leggero bruciore, non hanno sul momento particolari controindicazioni; in compenso dopo un po'
comincio a vedere sempre più confuso e alla fine darei dei punti a Mr Magoo.
Superato brillantemente il controllo (nel senso che sono cecata esattamente come prima) saluto e faccio per uscire; questo è il momento più delicato per chi come me è parte vampiro e  normalmente ha con la luce del sole un rapporto difficile, figuriamoci in pieno giorno e con le pupille a padella...
Con l'aiuto del baldo Farnedi che mi fa da badante arrivo incolume a casa e collasso sul divano, consolandomi al pensiero che tanto tra un paio d'ore sarà tutto finito. Trascorso quel famoso paio d'ore però la pupilla è ancora padellatissima e a questo punto si pone un dilemma: qualche giorno fa ho preso il coraggio a due mani e chiamato l'estetista per prenotare la pulizia del viso che mia mamma mi aveva regalato per il mio compleanno (oltre un mese fa, si vede che non vedo l'ora?), che faccio? L'appuntamento in questione è alle 15.30 ma mica posso uscire così padellata! E se mi ferma una pattuglia per un controllo? Penseranno che sono drogata, mi vedo già in manette. Alla fine decido di andare (molto piano) e, in effetti vedere vedo, son solo i contorni che sono confusi...
Arrivo al centro estetico (come sono tecnica, si vede che a suo tempo ho insegnato inglese nei corsi di formazione per estetiste) e scopro che l'estetista che lavorerà su di me è una mia ex studentessa; mi stendo sul lettino e mi preparato alla sofferenza.
Lei mi chiede quando ho fatto l'ultima pulizia del viso e sto fatto che ci conosciamo mi impedisce di mentire spudoratamente e uscirne con onore, quindi le confesso che l'ho fatta durante un viaggio in Thailandia, sarà cinque o sei anni fa. Lei ride, probabilmente è sotto shock. Inizia la pulizia e parte il seguente dialogo:
Lei: "Ti depilo le sopracciglia?"
Io (poco convinta): "Ok"
Lei:"Uso la cera?"
Risposta che mi verrebbe spontanea:"Boh, io cosa ne so?"
Risposta vera: "Va bene, proviamo"
Ecco, adesso che abbiamo provato, direi che sono a posto con la ceretta alle sopracciglia più o meno fino alla fine dell'eternità. Strapparsi peli sopra gli occhi, magari anche no.
Per fortuna, alla proposta "Ti faccio i baffetti?" avevo già opposto un fermo rifiuto, memore di precedenti esperienze: anni fa le studentesse del corso mi tesero un agguato, chiedendomi di prestarmi per farle impratichire con la pulizia del viso e poi, una volta distesa sul lettino, mi dissero "Prof, con quei baffi non possiamo mica farti uscire!" e mi cerettarono il labbro superiore senza alcuna pietà. Detto labbro superiore protestò contro l'aggressione arrossandosi violentemente, al che mi cosparsero l'area di crema lenitiva di
colore verde per cui alla fine i baffi li avevo comunque, oltretutto color prato.
Una volta superato il cerato scoglio, la cosa è andata avanti e, se escludiamo il momento dello strizzamento dei punti neri, che lo passi domandandoti perché mai questa persona ti odi, la pulizia è stata piacevole, mi hanno massaggiato la faccia, spalmato una maschera che odorava di yogurt ai frutti di bosco e sono rimasta per un po' sul lettino a rilassarmi ascoltando le conversazioni in corso nelle altre salette, tutto sommato poteva andare peggio.
Oggi è stato uno di quei giorni che quando suona la sveglia vorresti spegnerla, tirare due madonne e girarti dall'altra parte e, considerato che alle 10 di sera si nota ancora un parziale padellamento, forse non sarebbe stata proprio una cattiva idea.

domenica 10 novembre 2013

Essere o non Essere: Silvan contro Sandokan

A voi capita di avere la sensazione che una qualche entità sconosciuta stia guidando i vostri passi, che tutto ciò che fate sia il risultato di un piano preciso, solo non vostro?
La pubblicità che vedete qui a fianco proviene da una delle solite riviste che leggo a colazione e ammetto che, se all'inizio, mi sono lasciata distrarre da font inspiegabili, look pirata, troni da re di Cenerentola ecc, non c'è voluto molto perché mi rendessi conto che i due simpatici crani coronati al centro della scena altro non erano che i contenitori del profumo in questione. Il minimalismo dilaga.
Vabbè, mi son detta, sarà che il look pirata sta tornando in auge e stavo per scrollare le spalle e passare ad altro ma qualcosa (forse le orbite vuote dei teschi o quella frase insensata power is the ultimate aphrodisiac, buttata lì un po' alla boia) me l'ha impedito; guardavo quei crani , quella linguetta d'oro un po' sado sulla bocca, quelle corone, e cercavo disperatamente un senso alla storia che l'immagine avrebbe dovuto comunicare.
Ecco come la vedo io: mentre tu e tuo marito pirata ve ne state stravaccati sui vostri troni a cazzeggiare, arriva un servo con un delicato cadeau che supponiamo essere in riconoscimento/omaggio al vostro status, peccato che il dono consista in due teschi coronati che, non so voi come li vedete, ma io se mi regalano un teschio che inforca i miei stessi occhiali, dopo aver fatto i dovuti scongiuri, vado a spezzare tutti i ditini del mittente. In effetti il re pirata ha una faccia un po' perplessa, lei invece sembra contenta, probabilmente sta pensando che avere una corona di ricambio viene sempre utile.
L'ultimo fastidioso interrogativo che mi tormentava era: cosa diavolo c'entra l'ambientazione piratesca della foto con quella scritta POLICE così discreta?
Ho fatto qualche ricerca e presto svelato il mistero: anni fa quelli della marca di occhiali Police hanno ben pensato di diversificare la produzione mettendosi, tra le altre cose, a creare profumi per lui e per lei, un percorso che ha raggiunto il suo apice creativo con questa ossuta gemma.
Inizialmente la linea strizzava l'occhio a Shakesperare (il riferimento colto è più facilmente individuabile nel profumo apripista della linea che risponde al nome di to be - essere). A lato possiamo vedere un novello Amleto il quale, pur non disponendo del dono della parola, fa suo l'esistenziale dubbio tatuandosi  essere o non essere sul muscoloso bicipite.
Negli anni la linea to be ha seguito una sua, chiamiamola evoluzione, spostandosi fino a toccare nuove vette concettuali, come dimostra la successiva creazione del marchio: to be The Illusionist.
Qui dobbiamo constatare un primo deciso scostamento dal concept di partenza; non ci è dato di sapere se questo inatteso sviluppo sia stato ispirato dall'inossidabile figura di Silvan o, come pare più probabile, dal look di Kabir Bedi in Sandokan, almeno a giudicare dai quattro metri quadrati di matita per occhi che pavimentano la zona contorno occhi del modello.
L'ultimo nato in casa Police è proprio il nostro to be The King and Queen con il quale si chiude, per ora il cerchio.
Per ora, non disperate.




martedì 29 ottobre 2013

Non è tutto burro quel che lucida

È iniziato tutto un paio di settimane fa, quasi senza che me ne rendessi conto; mi stavo guardando allo
specchio e mi sono improvvisamente resa conto di avere la pelle più lucida del solito. Ho scacciato la tentazione di accantonare il problema  nell'angolo "Disturbi stagionali" o in quello "stress", anche perché avrei continuato ad avere bisogno di passarmi lo Scottex sulla faccia a intervalli regolari. Per un brevissimo istante ho anche considerato la possibilità di prendere il toro per le corna, ammettendo a me stessa che ho la pelle grassa perché mangio quantitativi smodati di patatine fritte; questo però avrebbe aperto una porta pericolosa, quella che conduce a una revisione del mio regime alimentare, con conseguente riduzione della dose di droga patatinosa, una soluzione francamente inimmaginabile.
Alla fine ho scelto un compromesso accettabile: mi sarei fatta qualche maschera purificante per aiutare la pelle a tornare in forma (che buona che sono).
Perfetto, penserete voi, emergenza risolta. Magari, dico io che mi conosco. Il mio problema con questo genere di cose è che io parto con le migliori intenzioni, compro un tubetto/vasetto della magica pozione, me lo spalmo in faccia un paio di volte e poi me lo dimentico lì per sei mesi, quando mi torna in mente apro il barattolo e la roba dentro è fossile.
Evidentemente mi serviva un cambio di marcia; mentre mi scervellavo alla ricerca di un'alternativa, mi è tornato in mente che a casa mia, quei due o tre secoli fa, usava farsi delle maschere preparate sul momento usando yogurt e roba simile. Soluzione perfetta: si torna alla natura e al casalinghismo.
Ho fatto la mia ricerca su internet e, in pochi minuti, è saltato fuori un tutorial con la ricetta di una maschera che sembrava fare al caso mio: argilla, oli essenziali, miele, yogurt, riga. Ce la potevo fare.
Una volta acquistata l'argilla in erboristeria, sono tornata a casa, ho preparato gli ingredienti e cercato di nuovo su internet il tutorial che spiegava passo passo come fare.
Adesso, col senno di poi, riconosco che l'errore madornale l'ho commesso in quel preciso momento: c'erano molti video della stessa autrice e, spinta dalla curiosità ne ho aperto un altro. Non l'avessi mai fatto, invece del rilassante mondo del naturale fai-da-te, mi sono vista catapultare in un universo oscuro e terribile, popolato da terribili ingredienti sintetici che pare infestino la maggior parte dei prodotti cosmetici
comunemente in uso. Siliconi, parabeni, PEG, BHT, nomi lunghi quei sette-ottocento metri, che quando arrivi in fondo ti sei già dimenticato l'inizio, insomma un incubo.
Devo anche confessare che io non mi intendo minimamente di queste robe chimiche quindi, se da una parte non mi è difficile diffidare del silicone, soprattutto dopo il martellamento pluridecennale della pubblicità del Saratoga con la donna nuda sigillata nella doccia, non so bene come prendere queste profezie-armageddon in stile "la civiltà si estinguerà se usi quella crema corpo".
Ammetto però che qualche brivido me l'hanno fatto venire, ad esempio leggendo gli ingredienti del burrocacao. Fino a quel momento la sola avvertenza che adottavo nella scelta dello stick era evitare come la peste il prodotto in stile Labello Blu, quello che te lo dai e ti ritrovi con le labbra bianche da affogata (quel look Laura Palmer che francamente
dona a poche); invece leggendo la lista degli ingredienti ho scoperto che il primo componente del mio burrocacao è il Petrolato che, cosa volete che vi dica, anche nella mia chimica ignoranza, già il nome ha un suono che non promette niente di buono.
Continuo la lettura come un naufrago alla ricerca di un burroso salvagente ed ecco che laggiù, in settima posizione, fa capolino un tale Butyrospermum Parkii Butter, che scopro essere Burro di Karité.
Allora, qui ci dobbiamo decidere: se ci metti il petrolato lo chiami petrolburro, poche pippe!
Ma in che razza di mondo viviamo se non puoi fidarti nemmeno del tuo burrocacao?


P.S. La maschera all'argilla invece è andata benissimo. Patatine, a me!

sabato 12 ottobre 2013

Basta piovere sul mio post!

Mi è sempre piaciuto quando fuori diluvia e tu sei in casa al calduccio e, con una tazza di tè in mano e una coperta sulle ginocchia, osservi la pioggia che cade e magari il pensiero corre sadicamente a quei diversamente fortunati i quali, per millemila motivi, devono uscire e affrontare il traffico con quel tempo da lupi.
Ovvio che le cose cambiano quando l'H2O che era fuori ti entra improvvisamente in casa.
Enrico è in cantina e sta osservando i rivoletti d'acqua che scendono lungo il muro; lo guardo e immagino che, al pari mio, stia maledicendo i costruttori di questa casa che, non sappiamo se per incompetenza o tirchieria, ci hanno lasciato in eredità una parete che in caso di piogge abbondanti e prolungate, come quelle di questi giorni, tende a familiarizzare un po troppo con l'elemento e invita in casa acqua mai vista prima. Screanzata.
Fortunatamente la diga di stracci che abbiamo approntato si è rivelata efficace e convoglia allegramente i torrentelli verso il tombino dove un'apposita pompa ributterà l'ospite indesiderato fuori di casa.
Dato che star qui a fissare la diga non è di grande aiuto, me ne torno di sopra e, dopo aver lanciato una rapida occhiata fuori dalla finestra (niente di nuovo, sempre e solo acqua a catinelle), decido di rendermi utile e fare il pane: peso la farina, scaldo l'acqua, aggiungo lo zucchero e prendo il lievito madre dal frigo.
Vorrei che qualcuno mi avesse avvertito dell'odore pestilenziale che sprigiona questo lievito del demonio; dicono che col passare del tempo ci si abitua a tutto, però quel pugno nel naso ogni volta che apro la busta non sembra perdere vigore. Lo si potrebbe paragonare a un tecnico del pronto intervento che mangia solo gorgonzola e cipolla cruda ma è molto bravo a far tutti quei piccini intorno a casa che saltano sempre fuori nel momento meno opportuno e rompono parecchio le balle: il rubinetto che perde, la serratura che non chiude bene ecc. Ecco, di fronte a questo lato enormemente positivo, il fatto che non sia proprio l'uomo Menthos passa in secondo piano e lo stesso accade con quel lievito: dopo aver assaggiato il pane prodotto da tale madre, ti tappi il naso e fai quello che devi fare, richiudendo la bustina il più presto possibile.
Una volta introdotti tutti gli ingredienti nella macchina secondo ricetta, spingo start e quella, con gemiti che sarebbero da registrare per la colonna sonora di un film horror, si mette al lavoro. Ottimo, non mi resta che dare una pulita e sistemare la cucina; afferro il sacchetto della farina integrale e, mentre lo sto chiudendo per riporlo, noto sulla parte posteriore dei forellini sospetti...no! No! Ti prego no! Svuoto con mani tremanti il contenuto del sacchetto in una ciotola e la verità è lì che se la ride sotto i baffi, tra la farina  ci sono degli
insetti.
Nel frattempo la macchina del pane sta impastando con entusiasmo e fortunatamente  i cigolii aiutano a coprire i lamenti e le madonne che produco io.
Setaccio attentamente la farina contaminata (ovviamente il problema non è con la farina bianca che si controllerebbe in due secondi ma con quella integrale che è piena di residui e pezzetti di cereali) e alla fine la sentenza è incontestabile, ho trovato tre farfalline.
E' a questo punto che gli anni della mia formazione scout fanno capolino, soprattutto le settimane di campeggio coi boccia, settimane in cui quei terroristi in  erba cercavano di togliermi di mezzo propinandomi pasta caduta per terra, sciacquata sotto l'acqua per togliere la terra e poi condita, soffritto carbonizzato e quindi cancerogeno, nonché fricò avec sputazzi. Essendo sopravvissuta agli orrori culinari più impensabili (ci farò un post prima o poi), non posso fare a meno di pensare che in fondo sono solo tre farfalline, tutte proteine, e poi in forno cuoceranno a 220 gradi per 35 minuti, cosa vuoi che sia! Però mi viene in mente che quel pane dovrebbe mangiarlo anche Rico e lui magari il crostino gusto farfalline non lo apprezzerebbe; poco a poco ritorno in seno alla civiltà e, pur tra sospiri e maledizioni, fermo la macchina del pane e getto il dannato impasto e la farina integrale avanzata nel bidone dell'umido. Fosse per me gli darei fuoco ma l'impasto è bagnato...
Vabbè, niente pane fresco per per cena ma il pane comunque ci vuole, mi rimbocco le maniche e ricomincio tutto da capo (stavolta tutta farina bianca, l'integrale è finita); questa volta le cose procedono senza intoppi; quando la macchina finisce di impastare accendo il forno per la seconda lievitazione ed estraggo il cestello, rovesciando l'impasto sul piano di marmo, peccato che si stacchi anche il perno impastatore. Resto lì per un po' a fissare questo ammasso bianco con un perno metallico che spunta proprio in mezzo; non sono in grado di affrontare subito anche questa tragedia tecnologica, meglio mettere da parte il fatto e concentrarsi sull'impasto. Elimino il corpo estraneo, lavoro l'ammasso per un po' e poi lo metto nel forno tiepido per la seconda lievitazione. Solo a quel punto raccolgo le poche forze rimaste e guardo in faccia la realtà: la macchina del pane si è rotta. Non è che la cosa sia poi così sorprendente, in fondo quando era arrivata a noi l'impastatrice aveva già un bel po' di chilometri, sapevamo che prima o poi sarebbe successo ma, mi chiedo: proprio oggi, proprio adesso, proprio dopo tutto il resto?
Guardo fuori dalla finestra la pioggia che cade senza sosta e vedo sfilare un corteo di macchine, sono quelli che oggi uscivano sotto la pioggia e adesso tornano alle loro casette asciutte e si mangiano il loro pane fresco per cena. Che altro dire: karma.

giovedì 3 ottobre 2013

Il mattino ha l'oro in bocca, il mattino ha l'oro in bocca, il matt....

Sono le 5.30 del mattino e me ne sto a letto col sonno in sciopero; ho provato a tenere gli occhi chiusi per fregarlo ma lui niente. Certo che una, almeno il giorno del suo compleanno, potrebbe farsi una bella dormita e magari alzarsi riposata e rilassata e invece ciccia.
Visto che non si rimedia niente, dopo essermi girata quelle cento volte, rischiando di strangolarmi con le coperte, decido di alzarmi e andare a farmi un tè. Apro gli scuri (non so bene perché visto che fuori è ancora buio) e il freddo mi ricorda che sarà anche il caso di vestirsi che sono in camicia da notte e in casa è un gran freddo. Mi vesto e poi scatto una foto a memoria di questo meraviglioso inizio di giornata, che neanche fosse un venerdì di quaresima.

Scendo in cucina, facendo il minimo rumore possibile, che Rico ieri sera lavorava e chissà a che ora sarà tornato a casa; sul tavolo trovo un biglietto in cui dice che si alza alle 9.30, tra più di due ore. Ho una fame che la vedo, non ce la faccio mica ad aspettare due ore per fare colazione, metterò su una gamella di tè, così intanto il mezzo litro di broda inganna lo stomaco.
Peccato che il mio stomaco sia come il sonno, mica si fa fregare così come niente, alla fine cedo e tiro fuori  i ventaglini di pasta sfoglia che si mangiano sempre volentieri ma dopo 4 o 5 mi viene quella sensazione che non so se è una cosa mia ma dopo 4 o 5 biscotti io già non ne posso più, tutto quello zucchero, tutto quel dolce, datemi del salame e dei ciccioli!
Mentre aspetto che il tè si diffonda per la gamella, accendo il computer; in realtà volevo finire di rileggere un libro di Paolo Nori che avevo letto anni fa (titolo: Si chiama Francesca questo romanzo) ma qui di sotto è ancora troppo buio e se accendo la luce mi sembrerà di essere in pieno inverno in un racconto di Dickens, una depressione che non ne esci più.
Allora andiamo col computer, magari mi collego a facebook che lì fai presto a far passare due ore. Apro Chrome e rimango senza parole di fronte al doodle di Google, è pieno di torte di compleanno e quando ci vado sopra col cursore mi dice Buon compleanno Estrema! 
Ecco, queste son le cose inquietanti che uno non vorrebbe vedere il giorno del suo compleanno, un po' come se ti suonassero alla porta, apri e c'è uno sconosciuto spaventoso che ti fa gli auguri, io chiamerei subito la polizia. Ovvio che non posso chiamarla e denunciare un doodle per stalking però...
Vabbè, adesso che mi sono sfogata con voi su questo inizio di compleanno un po' in salita mi sento meglio; mi viene anche in mente che oggi a pranzo sono invitata a casa dei miei e mia mamma fa la mia torta di compleanno, una variazione nocciolinosa del salame di cioccolato e, se ho fortuna, mio babbo mi avrà scritto una poesia di compleanno. E poi tra un po' si sveglia anche Rico. 
Tutto a posto, down rientrato, bevo il tè e guardo l'orologio pensando che, in caso la pazienza si esaurisca prima delle 9.30 posso sempre telefonare col cellulare al numero di casa, così Rico si sveglia prima, poi m'invento che erano quelli della Telecom...




P.S. Son due settimane che mia mamma mi tampina per sapere cosa regalarmi per il compleanno e, tra i vari pensieri che mi sono frullati per la testa, c'è anche quello che mi piacerebbe che questo blog avesse qualche lettore in più ma per quello lei non può aiutarmi, allora lo chiedo a voi: se conoscete qualcuno a cui pensate piacerebbe quello che scrivo, mandategli il link al mio blog, sarebbe davvero un gran regalo!

sabato 28 settembre 2013

Tondo è bello

Abbiamo già parlato in passato delle molte difficoltà che si trova ad affrontare il musicista nella sua vita, appunto, di musicista; è quindi giunto il momento di mettere da parte gli artisti e parlare per un po' di noi del popolo e di quello che capita quando il volgo si mette in testa di andare a vedere un concerto. 
Riconosco che spesso tutto fila liscio: vai, prendi da bere, ti godi il tuo concerto e torni incolume, però ci sono le altre volte, quelle dispari, ed è appunto di quelle che mi accingo a parlare.
Ovviamente quella che vado a raccontare è una delle molte esperienze accumulate nel corso degli anni; per amor di brevità (e anche un po' per pietà nei vostri confronti), oggi mi limiterò a questa, lasciando a post futuri il compito di completare il quadro.


*****


E' una bella giornata, ho finito di lavorare presto (o forse quel giorno non lavoravo proprio) e quindi ho voglia di uscire e passare una bella serata in compagnia, magari andando a vedere un bel concerto. Passo a prendere la Rini a domicilio e mi lancio (si fa per dire, la Fiesta ha i suoi anni) sulla E45 in direzione Ravenna, confidando che il navigatore ci condurrà fino al Mama’s dove Farnedi ha in programma un  suo concerto. Giunta in fondo alla strada, laggiù dove l’oscurità è assoluta, sono lì che guardo il navigatore per capire quale delle due uscite prendere, onde evitare di finire a Ferrara, quando all’improvviso mi trovo i fari di un’auto puntati addosso.

La prima cosa che immagino venga in mente a entrambe (la Rini mi correggerà se sbaglio) è: Oddio, ci rapinano!
Avvicinandoci un po’ di più noto un tizio in piedi  e capisco che trattasi di un controllo della Guardia di Finanza (che poteva trovare anche un altro posto dove non rischiava di far venire un infarto ai conducenti ma comunque). Il tipo mi chiede patente e libretto come da programma e, mentre io scartabello nel vano documenti alla ricerca del libretto, comincia a fare alla Rini un sacco di domande su dove andiamo, cosa facciamo, quale concerto, insomma un pacco di fatti nostri, che ti verrebbe da dire alla faccia della privacy ma, cosa volete che vi dica, faccio sempre fatica a trovare da discutere con  chi ha il porto d’armi. Tutto questo mentre il suo zelante collega mi controlla la patente.
E qui ecco che ti arriva il colpo di scena: non riesco a trovare il libretto della macchina. Ora, nel mio universo di maniaca del controllo, scoprire che il libretto della macchina non è al suo posto è paragonabile allo scoprire che la terrà in realtà è piatta e che a un certo punto c’è un’enorme cascata dove tutto precipita nel nulla, in sostanza: non è concepibile, non esiste, NO. 
Alla notizia che non trovo il libretto l’uomo della legge non fa una piega e ci dice: andate pure, al che io lo guardo incredula e ribatto: No, No, il libretto deve saltare fuori!  
Nel frattempo la Rini mi sta dando vigorosamente di gomito (lividi ovunque) e sibilando: Dai che ha detto che possiamo andareeeee!!!! quindi, seppur controvoglia, riparto e mi dileguo.
Fortunatamente, un secondo controllo, una volta arrivati al locale, rivela il libretto in fondo al plico di documenti nell’apposito vano, il meccanico che ha portato la macchina a fare la revisione non l’ha rimesso nella sua cartellina di plastica (anatema!)
Mi sfugge un sospiro di sollievo, sono stati momenti difficili ma alla fine tutto è tornato alla normalità, il mondo è salvo e la terra è di nuovo rotonda.




P.SQuesto articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press

mercoledì 11 settembre 2013

Prima di andare a Napoli è meglio riempire il bicchiere

Essendo arrivato settembre, mi tocca ricominciare a lavorare, è triste ma inevitabile. 
Mercoledì mattina alle 12.07 dovevo partire per Napoli per andare a fare uno dei miei soliti lavori da interprete e il martedì pomeriggio, non avendo ancora ricevuto indicazioni precise dal cliente (quelle cose assolutamente superflue come quando e dove incontrarsi), l'agitazione aveva raggiunto e superato il livello di guardia.
Rico era partito il martedì mattina per andare a suonare a una delle mille feste che seguono le presentazioni dei film al festival del cinema di Venezia e sarebbe rimasto fuori a dormire, quindi quel pomeriggio a casa c'eravamo solo io e le mie paranoie (e se ritarda il treno e perdo la coincidenza? E se alla fine si scopre che l'appuntamento è fuori Napoli? Come ci arrivo? E se cade un meteorite sulla mia camera d'albergo?)

Verso le 22, mentre facevo la valigia in pieno picco d'ansia, mi ha inaspettatamente telefonato Rico per dirmi che, avendo finito prima del previsto, avevano deciso di tornare subito a casa (suppongo che la telefonata mirasse a evitare che nel cuore della notte lo scambiassi per un ladro e lo prendessi a padellate).

Versione n°1: BMV*
La mattina dopo sono uscita di casa con il mio trolley e la borsa, ho caricato tutto nel bagagliaio e acceso la macchina. Non è partita. Momento di panico. Mentre iperventilavo, ho notato l'orologio di fianco al volante, era spento. Azz! La batteria era morta. Ma come?!! Non è mica vecchia! Mistero risolto con un'occhiata al cruscotto: avevo lasciato le luci di posizione accese tutto il giorno prima, sono un vero genio.
Mi sono fatta dare un passaggio da Enrico e, una volta arrivata in stazione a Cesena mi sono seduta in attesa del treno; solo una volta passato l'orario di partenza è apparso sul tabellone un ritardo di dieci minuti, a quel punto la coincidenza era a rischio e, ovviamente, potevo scordarmi di riuscire a prendere un panino per il pranzo una volta arrivata in stazione a Bologna.
In un ultimo, disperato tentativo, ho cercato di comprare un sandwich in quelle macchinette tristissime sul binario ma non avevo spicci per cui sono andata in tabaccheria a comprare delle caramelle per farmi cambiare i soldi; ovviamente,
proprio prima di me c'era un ragazzo a cui servivano delle fotocopie e sospetto che la signora della tabaccheria avesse la macchina rotta e gliele abbia ricopiate a mano, almeno spiegherebbe l'eternità che ci ha messo a far tre fotocopie. Quando finalmente sono arrivata davanti al distributore e stavo per infilare la moneta nella fessura , proprio in quel momento è comparso il treno, che già che c'era poteva tardare un altro minuto e lui invece no, che bello.
Dopo un'ora in treno, passata elaborando millemila piani di emergenza per far fronte all'eventualità della perdita della coincidenza, arriviamo finalmente a Bologna, sempre con il nostro ritardo di dieci minuti (la coerenza innanzitutto).
Balzo fuori dal treno (si fa per dire, avevo trolley e borsa strapiena) e mi dirigo speditamente verso la nuova area della stazione per i treni ad alta velocità, una roba tutta acciaio e cemento, tipo Blade Runner ma più deprimente, che immagino abbiano costruito per facilitare le cose ai treni, o almeno lo spero, perché al passeggero questa simpatica novità rompe parecchio gli zebedei, costringendolo a una maratona tra scale mobili, corridoi e altre scale mobili.
Arrivo finalmente giù e raggiungo il binario solo per veder comparire sul tabellone il simpatico numeretto 40 nella colonna dei ritardi. Mo che ti venisse!

Versione n°2: BMP**
La mattina dopo sono uscita di casa con armi e bagagli e ho scoperto che la batteria era deceduta causa invornimento della proprietaria (avevo lasciato accese le luci di
posizione); fortunatamente la sera prima Enrico, invece di rimanere a dormire fuori, era tornato a casa e quindi mi ha potuto dare un passaggio in stazione dove mi sono seduta in sala d'attesa a leggere, dato che il treno era in ritardo.
Ero comprensibilmente preoccupata, dovendo prendere la coincidenza per Napoli a Bologna, il ritardo poteva mandare tutto a monte e, anche nel migliore dei casi, non mi avrebbe dato tempo di comprare qualcosa da mangiare. Ho considerato la possibilità di prendere qualcosa da mangiare dal distributore automatico sul primo binario ma proprio mentre mi accingevo a farlo è arrivato il treno.
Durante il viaggio ho riflettuto su cosa avrei fatto in caso di perdita della coincidenza e mi sono venute in mente varie opzioni possibili, in fondo era presto, avrei dovuto semplicemente cambiare il biglietto con quello di un treno successivo, niente di impossibile.
Una volta in stazione a Bologna sono scesa nell'area sotterranea riservata ai treni ad alta velocità; le varie scale mobili si sono rivelate una benedizione per chi come me aveva bagagli. Scendendo sembra di entrare in
un mondo parallelo, è tutto molto silenzioso, con poche persone, davvero rilassante.
Ero appena arrivata sul binario quando hanno annunciato che il treno sarebbe partito 40 minuti dopo; riflettendoci, è stata una vera fortuna non essere riuscita a comprare il panino dal distributore a Cesena, con 40 minuti a disposizione sarei riuscita a mangiare qualcosa seduta e in tranquillità.

Bene, io quello che dovevo fare l'ho fatto, adesso tocca a voi.
Scegliete pure la versione che preferite ma se volete un consiglio, si vive meglio con la seconda.


* Bicchiere Mezzo Vuoto
** Bicchiere Mezzo Pieno

martedì 3 settembre 2013

Ferragosto sì ma in edizione limitata

Come ho già detto in altre occasioni, in quel della riviera romagnola siamo ormai rassegnati al fatto che ci sono periodi in cui tocca voltare le spalle alla terra natia, schifare il mare e cercare rifugio altrove. La settimana di ferragosto è uno di questi periodi.
Normalmente, nei due giorni che precedono e seguono ferragosto, per convincermi a uscire di casa per andare al mare dovrebbero bombardare casa mia e tutto l'entroterra per chilometri, in questo caso invece ho deciso di trasgredire il santo precetto, sfidare gli dei e osare l'impensabile: venerdì 16 agosto, in pieno ponte di ferragosto, ho preso lo scooter per andare a Valverde di Cesenatico.
La meta del mio breve viaggio era il bagno Bahamas dove, quella sera, il duo Formazione Minima (anche noto agli amici come i Lorenzi) si sarebbe esibito verso le 21.30 in uno spettacolo di teatro-canzone.
Riesaminando la situazione col senno di poi, mi rendo conto che nel corso della serata il cielo mi ha mandato diversi segnali (stai a casa!), in effetti me ne ha inviati a frotte ma, purtroppo, non me ne sono mai accorta. Facciamo qualche esempio:
1) sono nell'ingresso di casa poco prima della partenza: prendo la borsa, ci infilo la felpa e la sciarpina di sicurezza (abbiamo una certa età e con gli spifferi non si scherza), esco di casa, chiudo la porta, metto le chiavi di casa nella borsa, apro il bauletto dello scooter per estrarre il casco e metterci la borsa ma dentro invece del mio casco ci trovo quello di Farnedi. Mi maledico per non averci pensato, apro la borsa, estraggo le chiavi di casa, afferro il casco Farnedi, riapro la porta di casa, prendo il mio casco, appoggio l'altro sul mobile, esco e richiudo a chiave.
2) sbuffando mi metto la felpa e il casco e, proprio in quel momento mi viene in mente che il portafogli non è nella borsa come al solito, l'ho usato nel pomeriggio per un acquisto online ed è quindi tuttora di sopra, in salotto; altre maledizioni, devo tornare a prenderlo ma non posso farlo messa così, suderei fino al midollo! Mi tolgo casco e felpa, riapro il bauletto, dove nel frattempo avevo messo la borsa, e riparte la trafila chiavi-apri porta-vai in salotto-scendi. Una volta di sotto, accendo la luce dell'ingresso per controllare di avere almeno cinque euri nel portafogli ma mi sbaglio e accendo la luce fuori sotto il portico, per fortuna riesco comunque a scorgere dieci euri nella penombra, per stasera mi bastano, siamo a posto. Chiudo tutto, porta, borsa, bauletto, indosso felpa e casco e finalmente sfreccio via verso sabbiosi orizzonti.
3) mentre mi allontano a tutta velocità (ormai sono oltre il ritardo), con la coda dell'occhio registro qualcosa di strano, mi volto un secondo e...la luce del portico è accesa! Mi sono dimenticata di spegnerla, e ovviamente l'interruttore è dentro casa. Per un istante accarezzo la possibilità di fregarmene e andare via, dopotutto sono sicura che Farnedi, se gli dicessi che mi sono dimenticata la luce accesa per quattro ore, sarebbe più che comprensivo ma, essendo che io sono io, non resisto e torno indietro, meditando sul numero di capelli bianchi che mi regalerà la serata.

Come previsto, una volta giunta in zona Cesenatico, mi trovo a combattere con un traffico a dir poco folle: macchine che vanno ai due nella speranza (vana, però chi ha il coraggio di dirglielo?) di trovare un parcheggio sul lungomare, gente in bicicletta contromano e/o senza lume, carrozzelle/risciò condotti da cerebrolesi con un misteriosi andamenti slalomistici (che ci sia all'orizzonte una gincana  coi risciò di cui nessuno mi ha informata?), insomma, tutto il prevedibile repertorio dei vacanzieri di ferragosto.
Arrivo indenne in zona Valverde e, una volta raggiunto il Bagno Bahamas, inizia la ricerca di un parcheggio per lo scooter. Sì, lo so che potrei anche parcheggiare sul marciapiede come fanno molti ma l'esperienza insegna che, se solo mi azzardo a parcheggiare in divieto in una strada che appare completamente deserta, immediatamente esce da una finestra un vigile/ausiliario del traffico col blocchetto delle multe già sguainato, preferisco non correre rischi. Peccato però che a Valverde non sia ancora arrivata notizia dell'esistenza delle due ruote né, quindi, della necessità di moto-parcheggi; dopo aver percorso circa un chilometro di lungomare imprecando dietro a risciò e autobus, trovo finalmente un parcheggio per moto con ben tre-dico-tre posti, due dei quali già occupati. Sistemo il mio scooter, raggiungendo la quota massima di due- ruote permessa dalla zona, e mi avvio di buon passo verso il lontano Bagno Bahamas.
Quando finalmente arrivo in loco, la performance è ovviamente già in pieno svolgimento, quindi recupero una sedia e vado a sedermi al tavolo della Piraccini, scusandomi per il ritardo e chiedendo se hanno iniziato da molto; lei mi risponde che non lo sa perché, causa disguido fantozziano al chiosco della piadina è arrivata a concerto già iniziato (avevano ordinato i crescioni per tutti ma quando lei è passata a ritirarli, dopo ben 40 minuti di attesa, ha scoperto che questi avevano perso l'ordine e le è toccato aspettare ancora: in sostanza c'è voluto più di un'ora per avere tre crescioni e una piadina col prosciutto).
Al momento il vassoio incriminato giace intonso sul tavolo e la cosa in sé ha implicazioni che obbligano a una riflessione: da una parte significa che i due artisti in piena performance sono a stomaco vuoto da ore e, con l'appetito che si ritrova Gasperoni, temo che finisca col mangiarsi Bartolini facendo diventare ancor più minima la formazione (da i Lorenzi a il Lorenzo, riga), dall'altra implica che le signore hanno deciso di aspettare le loro metà e cenare insieme a fine concerto.
Provo a calarmi per un attimo nella medesima situazione: sono andata io dalla piadinaia a prendere le piadine per tutti, ho aspettato io un'ora lì da sola e alla fine mi tocca avere davanti agli occhi la mia cena per due ore senza poterla mangiare? Va là che non è vero!! Non ho mica ammazzato nessuno!!
Duole ammetterlo ma, tutto considerato, temo che mi beccherei un debito formativo in moglie.
Devo riconoscere però che le privazioni sembrano dare ulteriore slancio alla performance: un Bartolini scoppiettante divora un pezzo dopo l'altro mentre Gasperoni, senza mai perdere un colpo, sorseggia appena può la sua birra, probabilmente confidando che le calorie ivi contenute gli permetteranno di sopravvivere fino al termine del concerto senza fare vittime.
In questi casi le richieste di bis pesano come macigni su quegli stomaci vuoti ma i nostri, consapevoli di aver voluto la bicicletta dell'arte, fanno un ultimo sforzo e, seppur ostacolati da un venditore di rose che si piazza davanti al pubblico schiodando solo una volta venduto anche l'ultimo stelo, danno il tutto per tutto e ne escono vincitori.
Radunando le poche forze rimaste, i due eroi si siedono al tavolo sotto gli occhi preoccupati delle rispettive compagne, afferrano ciascuno un crescione e consumano il loro mesto pasto. Sono momenti difficili da ricordare, non c'è niente di più immangiabile di un crescione tenuto per due ore a contatto con l'umidità marina sembrano dire gli occhi dei nostri, forse solo la piadina col prosciutto cotto ribattono gli occhi della Piraccini, mentre ella mastica rassegnata la sua piadina. In effetti, per quanto deliziosi se consumati subito, il crescione o la piadina lasciati in balia dell'umidità marina si trasformano in un masgotto gommoso che ti fa sudare per mandarlo giù anche dopo averlo masticato a lungo.
Di fronte al dramma che si consuma a quel tavolo, dimentico per un attimo (ma solo per un attimo) le mie preoccupazioni, nello specifico il fatto che nonostante sia il 16 agosto è calato sulla riviera un freddo boia e io, che dispongo solo della misera felpa che indosso, dovrò affrontare i rigori di un viaggio di ritorno in scooter. Riflettendoci meglio però non posso che concludere che, in fondo, anch'io ho voluto la mia bicicletta, ora tocca pedalare.
Saluto tutti e mi avvio, sperando di riscaldarmi un po' nel chilometro di strada che mi separa dallo scooter e da quei tre parcheggi limited edition. 


P.SQuesto articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press


sabato 17 agosto 2013

Lo Spritz e il nuovo protocollo operatorio

Come spesso accade, la mia fonte d'spirazione per questo post è il numero 29 di Grazia, arrivato dritto dritto da casa degli antenati.
La mia attenzione si concentra sul pezzo a pag 66, potrebbe essere un'intervista a una topolona notata da un talent scout mentre cantava al compleanno della nonna e ora divenuta una superstar in Madagascar, oppure un servizio su due fratelli gemelli che, dopo essere stati rapiti dagli ufo, si scoprono dei superpoteri e decidono di emigrare a Parigi perché sulla Torre Eiffel i segnali alieni si ricevono meglio, la realtà è invece molto più banale: trattasi dell'ennesima inchiesta, Avete un corpo da spiaggia? seguita da una caterva di informazioni su come rifarsi tutto il possibile, dalla brachioplastica al lifting del sopracciglio, passando per la liposuzione al seno per gli uomini pettoruti, tutto ovviamente senza menzionare il numero di organi interni che vi dovreste vendere onde finanziare questa Grande Opera.
L'articolo in sé non è degno di particolare nota, quello che mi ha fatto alzare il sopracciglio (senza bisturi, per il momento) è la foto che lo accompagna e che trovate qui sotto.
A una prima distratta occhiata potrebbe sembrare tutto normale, una specie di sala operatoria, la paziente stesa e un'infermiera al lavoro; poi però guardando meglio cominci a farti delle domande, ad esempio:
1) perché la tipa stesa sembra essere su un lettino ginecologico, con quelle gambe là per aria? Che debba fare la Gigia-plastica?
2) cosa sono quella specie di stivali-calze di domopack? E perché la paziente indossa un reggicalze? E' il nuovo protocollo operatorio?
E non abbiamo ancora detto niente dell'infermiera, la quale indossa un vestitino trasparente e, in ossequio al rigido criterio della sterilità totale degli ambienti operatori, si è messa una minuscola fascetta bianca in testa e dei guantini alla Michael Jackson, sentendosi quindi libera di alitare in faccia alla malcapitata mentre tenta di soffocarla con una maschera di plastica trasparente il cui utilizzo non fa che creare nuovi interrogativi, tra cui quale fosse il vero articolo per cui la foto è stata scattata: le fantasie erotiche dell'italiano medio? Il role-play nelle coppie lesbiche?
Il principe dei dubbi resta però un altro: ma quanti bicchieri di Spritz si era bevuto quello che ha scelto questa foto a corredo dell'articolo?

giovedì 8 agosto 2013

Come perdersi in un bicchiere d'acqua

Quando una fa un lavoro come il mio, capita di trovarsi a tradurre in situazioni molto diverse: dal convegno sulle pale meccaniche alla convention sugli UFO; allo stesso modo si incontrano persone di ogni tipo e ci sono momenti (e persone) che ci si augura fortemente di non incontrare mai più anche se, a modo loro, alla fine anche questi figuri hanno qualcosa da dirci.
In questo caso torno con la memoria a un convegno di qualche tempo fa; avevo appena passato il microfono alla mia collega e mi godevo il meritato riposo quando ho assistito alla seguente scena: il relatore del momento, un uomo stagionato e infervoratissimo, parla della necessità di rinnovamento della sua istituzione, rinnovamento che sta già avvenendo grazie a questi giovani che arrivano con abbigliamento spigliato e gel nei capelli (un consiglio: evitate quest'espressione che vi fa sembrare più vecchi delle piramidi) a dare un nuovo impulso alle nostre iniziative.
Tutto preso dal suo discorso, l'uomo gesticola vivacemente, batte un pugno sul podio, tutta roba che alla lunga inevitabilmente secca la gola, quindi gli tocca bere ripetutamente e il povero bicchiere che ha di fianco è presto vuoto. A quel punto, mentre il nostro arringatore di folle continua la sua performance, una signora che fino ad allora se ne era rimasta in disparte in platea (immagino una hostess), sale quei tre gradini che la separano dal podio, prende il bicchiere e lo va a riempire al tavolo dei relatori a un metro da lui, poi torna, glielo appoggia sul podio e si dilegua, lasciando la bottiglia sul tavolo. La cosa mi confonde, se lui si fosse dimenticato di portare seco sul podio la bottiglia (era la mia ipotesi più solida), la tizia accorsa in suo aiuto gliela avrebbe portata insieme al bicchiere, ma riempirgli semplicemente il bicchiere mi pare assurdo, non è mica un bambino piccolo!
Ci penso e ci ripenso ma non ne vengo a capo, perché riempirgli il bicchiere? Una cortesia senza dubbio ma, dovuta a cosa? Quando finalmente ci arrivo, mi do della tonta per non aver capito prima: questo signore deve avere qualche tipo di disabilità che gli impedisce di riempirsi il bicchiere da solo, come ho fatto a non pensarci? Però poi, riflettendoci meglio, questa seconda soluzione non mi convince perché, a giudicare da come l'individuo gesticola, la mobilità degli arti superiori non mi pare ridotta e, se invece avesse problemi alle gambe, gli sarebbe sufficiente appoggiare la bottiglia sul podio di fianco al bicchiere.
Nel frattempo il relatore prosegue il suo discorso con rinnovato vigore e, inevitabilmente, il bicchiere si svuota di nuovo. Ed è a questo punto che la luce della comprensione squarcia la notte del dubbio e dell'incertezza: davanti ai miei occhi increduli, quest'uomo alza il bicchiere verso la hostess e le fa un cenno, come a dire "Qui c'è un bicchiere da riempire!"
Oh, questo pensa di avere la schiava, manca solo che le chieda di fargli vento con una piuma!

A conti fatti direi che la mia seconda ipotesi era giusta: in effetti l'handicap c'è, però non è del tipo che pensavo io.

W la modernità e il rinnovamento di questi giovani spigliati...ma solo fino a un certo punto.

lunedì 29 luglio 2013

Per le Balle di Paglia citofonare Gatto

Cronaca di una domenica diciamo pienotta.
Da programma ci si trovava con un manipolo di amici (noti come gli Stanzonisti) all'ora di pranzo a Casalborsetti per un barbecue, per poi spostarsi la sera a Cotignola per vedere un concerto con Enrico Farnedi e Riccardo Lolli all'Arena delle Balle di Paglia.

Il viaggio è stato sorprendentemente privo di imprevisti e traffico (la domenica mattina sulla riviera romagnola, praticamente un miracolo), quindi abbiamo raggiunto la prima destinazione della giornata in perfetto orario; trattavasi del Bar Lamone a Casalborsetti ove, per la modica cifra di 2,50 euri a cranio, ti mettono a disposizione postazioni, legna e griglie e tu puoi trastullarti per qualche ora carbonizzando della ciccia.
Non so voi ma io associo la parola barbecue all'idea dell'uomo con grembiule e forchettone, quello che assume il comando della situazione con il piglio di chi  affronta belve a mani nude anche quando sta semplicemente grigliando dei wurstel di tacchino, quindi davo per scontato di trovare in loco dei virili maschioni che si sarebbero incaricati di domare le fiamme e nutrire il popolo.
Immaginatevi la delusione quando al nostro arrivo abbiamo scoperto che erano ancora tutti allegramente in spiaggia mentre la nostra postazione barbecue se ne stava lì sola e abbandonata.
Fortunatamente noi si arrivava forniti di un corposo sacchetto di patatine che in quel frangente si sono rivelate molto utili per zittire la fame, essendo che il fuoco era ancora da accendere e quindi aspettare la ciccia era un po' come aspettare Godot.
La situazione l'ha salvata il marito della Carlotta che ha deciso di immolarsi per la causa e ha iniziato con mani esperte a comporre la capannina di legna che poi, poco a poco ha trasformato un un robusto fuoco.
A questo punto lasciatemi dire che chiunque accetti di stare in bocca alle fiamme a sgardellare ciccia quando ci sono trenta gradi  è un eroe assoluto, io mi sono limitata a bucare le salsicce sul fuoco per fare uscire il grasso e già così mi sembrava di essere all'inferno, forse anche a causa dell'unica forchetta disponibile (di plastica) che dovevo usare con estrema attenzione onde evitare che fondesse.
Il resto del tempo l'ho passato a ripetere come un mantra "La prossima volta insalata di patate!"
Ovviamente a fine grigliata odoravo pesantemente di salsiccia ma un bel bagno in mare (grazie Marzia per il bikini) mi ha dato una prima sgrassata, completata poi da una toilette completa grazie alla Valentina che ci ha offerto casa sua e, nello specifico, la sua doccia.
Prima di entrare in casa sua siamo stati avvertiti della presenza del suo gatto che, in quanto felino, forse non avrebbe gradito l'intrusione nei suoi possedimenti (per esperienze simili vedi E un giorno ti svegli e sei il Gatto con gli Stivali); in realtà quel micione rosso che risponde all'azzeccatissimo nome di Gatto, ci ha annusato e leccato persino le dita.
Porto questo dettaglio a ulteriore conferma del fatto che eravamo completamente rivestite di grasso animale, Gatto ha visibilmente apprezzato.
Oltre a darmi asilo, la Valentina mi ha anche generosamente vestito perché, da quel genio che sono, mi ero dimenticato a casa le scarpe e, obiettivamente, i sandali bianchi da spiaggia col calzino nero non potevo proprio metterli, mi avrebbero tolto la cittadinanza.
L'Arena delle Balle di Paglia di Cotignola è stata una vera rivelazione; ci si arriva dopo 15 minuti di cammino nel silenzio dei campi e si attraversano le scenografie più diverse, dalla casa di campagna alla barca in mezzo al fiume, fino ad arrivare all'arena vera e propria, un'enorme spazio verde trasformato in arena da un numero spropositato di balle di paglia, appositamente collocate da un gruppo di eroici volontari.
Il concerto è iniziato di lì a poco e, nonostante la folla, siamo riusciti a trovare balle sufficienti per accomodarci tutti e dieci. Ammetto che per i primi dieci minuti non sono riuscita ad ascoltare davvero, ero troppo distratta dal pensiero di quelle enormi rotoballe artisticamente impilate proprio dietro il palco che immaginavo sarebbero franate da un momento all'altro sugli ignari musicisti, i quali musicisti però non sembravano minimamente turbati dal pensiero di quella bionda montagna che incombeva su di loro. Si vede proprio che siamo diversi.

La serata era dedicata all'etichetta Brutture Moderne e a tutti i suoi artisti, il nostro gruppo però si trovava lì per due motivi ben precisi: volevamo sentire il concerto di Farnedi e anche la performance di Riccardo Lolli che avrebbe cantato un brano scritto da Eloisa Atti, Scilla e Cariddi, una delle dieci canzoni dedicate al mito di Ulisse e riunite nel cd Penelope.
Dopo una prima performance prettamente strumentale su musiche di Francesco Giampaoli, siamo passati a Eloisa Atti e al suo Penelope: ironico, tragico, malinconico, hai l'impressione che ti trasporti in mille direzioni diverse ma poi torni sempre a casa. E, finalmente, è arrivato il momento di Riccardo Lolli e di Scilla e Cariddi.
Protagonista della canzone è un babbo nelle cui figlie si sono reincarnati i due mostri mitologici del titolo e, cosa volete che vi dica, a me è piaciuta un sacco; mi è piaciuta anche molto l'interpretazione di Lolli che navigava tranquillo in quel mare di note facendolo sembrare semplice (bambini, non provate a farlo a casa).
Cameo coristico di Giulio, figlio di Lolli, e Giulia, figlia del chitarrista Marco Bovi.

A chiudere la serata di Brutture Moderne ci ha pensato Farnedi con un suo mini concerto; in questo caso vorrei concentrarmi su quell'ultimo pezzo, Quanto piangere, che ha riunito sul palco tutti i protagonisti della serata. Non so bene come spiegare questa cosa ma, le emozioni che mi ha dato quel la canzone mi hanno colto totalmente di sorpresa; avendola sentita uno stramilione di volte, non me l'aspettavo e la cosa mi ha dato da pensare . La canzone era sempre la stessa, col suo velo di malinconia, quindi cosa c'era stato di diverso?
A corrermi in soccorso è stata la tecnologia di Riccardo Lolli, il quale ha video-documentato tutta la serata. Se osservate il video di quest'ultima canzone vedrete che tutte le persone che stanno suonando di tanto in tanto si guardano, sorridono, c'è della felicità nell'aria e, secondo me, sono stati proprio quella felicità e quell'entusiasmo che i musicisti sul palco sono riusciti a trasmettere anche a noi che eravamo dall'altra parte del fossato.
La felicità evidentemente è contagiosa, come la varicella ma senza le crosticine.





P.SQuesto articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press