mercoledì 29 giugno 2011

Il non ci arrivoma e le dannatissime buone maniere

Il problema quando vai a lavorare lontano e stai fuori anche a dormire è duplice: da una parte hai
meno possibilità di trovare scuse per evitare le cene di rappresentanza (c’è sempre un ospite straniero che magari potendo eviterebbe dette cene come la peste ma, trovandosi costretto ad andare, necessita di traduzione), dall’altra le persone con cui ti trovi a lavorare, sapendo che tu e il citato ospite straniero cenerete da soli, si sentono in colpa al pensiero di abbandonarvi al vostro destino e vi invitano a cena, senza minimamente sospettare che in realtà, dopo aver passato tutto il giorno a contatto con emeriti sconosciuti, l’unica cosa che realmente desideri è startene un po’ tranquilla, mangiare quello che ti pare e soprattutto NON DOVER PARLARE/TRADURRE. Non ci arrivano proprio.
La patologia in questione, il non-ci-arrivoma, colpisce indiscriminatamente uomini e donne ed è indipendente dal grado di istruzione, dal tipo di occupazione, dal luogo/anno d’origine ecc. A volte però, anche all’interno dei casi clinici di non-ci-arrivoma, alcuni soggetti si spingono là dove nessuno ha mai osato avventurarsi, guidando la categoria verso nuove vette di assurdità.

Vediamo un esempio tratto dalla mia esperienza personale (purtroppo).
Abbiamo appena terminato un mattinata di lavoro parecchio pesante e stiamo tirando il fiato al tavolo dei relatori quando una signora mi si avvicina per chiedere se quella sera il relatore è già impegnato o gli va di andare a cena con loro (loro chi? La Compagnia dell’Anello? I Barbapapà? Non ci è dato di sapere). Io traduco fiduciosissima perché l’omone mi ha detto la sera prima (altra cena di rappresentanza) che avrebbe bisogno di un po’ di tempo per stare da solo e riposarsi; gli do pure l’imbeccata chiedendo:”Sei libero per cena stasera o devi rivedere il materiale per domani?” (gigio, io più di così non posso fare). E questo, con una faccia di bronzo che neanche a Riace (vedi commento della sera prima), risponde sorridendo che accetta con piacere l’invito. Lo prenderei volentieri a scapaccioni ma, da una parte è un omone grosso assai, dall’altra le dannatissime buone maniere m’ingabbiano (tutta colpa della mamma e dell’imprinting in tenera età) e mi ritrovo a dover affrontare il pomeriggio senza aver davanti la promessa di una seratina tranquilla
senza rotture di zebedei. Per fortuna a noi interpreti (quelli che sopravvivono) ci tirano su pronti a tutto, come Rambo o MacGyver.
L’appuntamento è per le 20 ma verso le 19.30 mi arriva un sms in cui l’autista che passerà a prenderci chiede di posticipare alle 20.30 perché deve prima portare il figlio non so dove. Digrigno un po’ i denti ma poi penso alla villa della dentista e mi sforzo di rilassarmi.
Alle 20.25 scendo nella hall con una fame che rosicchierei le gambe del tizio della reception; fortunatamente la nostra autista/invitatrice è già in macchina davanti all’albergo quindi saliamo e si parte. Per non far sentire escluso il baldo relatore, l’ho invitato a sedere sul sedile davanti e mi sono sistemata dietro. E i successivi minuti mi dimostrano tutta la saggezza del suggerimento che ha portato l’omone straniero (e non la sottoscritta) a sedere nel posto del morto: la signora al volante guida come se avessimo appena derubato una diligenza e avessimo alle calcagna la cavalleria; taglia le curve, inchioda, non finiamo su due ruote solo grazie al baricentro rasoterra della vettura.
Arriviamo inaspettatamente incolumi al parcheggio di un club privato di cui i nostri ospiti sono soci. Macchinoni come se piovesse. Dopo aver dato una fugace occhiata alla mise del nordico, prego in cuor mio che non ci sia un dress code, altrimenti la coppia relatore/interprete rischia di essere sbattuta fuori. E d’altra parte io mica posso portarmi dietro l’armadio! Mi avevano parlato di una cena di rappresentanza e io mi ero regolata di conseguenza; stasera il look è un mix bambinaia al parco e passeggiata in collina, una vera sciccheria.
Arriviamo al ristorante in giardino dopo aver superato i campi da tennis e la piscina, accompagnati dai commenti della nostra ospite la quale, una volta individuato il tavolo, si siede e ordina un aperitivo per tutti in attesa dell’arrivo del marito; è a questo punto che scopriamo che sarà una cena a quattro, solo noi e loro. Mi sento uno di quegli animali in trappola che si guardano intorno con gli occhi sbarrati cercando una via d’uscita. Considero seriamente la possibilità di fingere un malore ma il superclub è a casa di dio, quindi insisterebbero sicuramente per riportarmi in albergo e non ho il coraggio di affrontare subito altri quindici minuti di roulette russa su quella macchina, quindi ciccia.
La cameriera ci versa del prosecco e torna portando IL SECCHIELLO DEL GHIACCIO. E’ in occasioni come questa che mi dolgo di quel famoso imprinting che m’impedisce di sentirmi a mio agio nell’usare espressioni tipiche da Bar Sport ma che fotograferebbero perfettamente il mio stato d’animo. In questo caso l'unica espressione che mi permetto è te la puoi tirare anche meno.
Dopo una decina di minuti arriva il quarto commensale e ci portano i menu. Segue un animato dibattito tra moglie e marito su quale piatto tipico debbano consigliare al nordico ospite (io ovviamente non esisto). Alla fine se dio vuole ordiniamo (volano i carpacci di pesce spada e gli spiedini di gamberi su letto di non-so-che, io prendo solo un piatto di tagliatelle, tanto so benissimo che dovrò parlare per metà della cena e quindi di tempo per mangiare me ne resterà poco) e partiamo con la cena.
Seguono le solite due ore di conversazione con sconosciuti, che per quanto mi vengano bene sono comunque una faticaccia e, solo alla fine, quando siamo sul punto di alzarci, la signora sfodera una faccia di bronzo che fa luce e mi chiede:”Ascolta, di solito come vi regolate per pagare la cena?”
A quel punto a me francamente cadono le braccia: se m’inviti tu, mi porti al tuo club privato, insisti per ordinare praticamente per me e la fai cadere talmente dall’alto che quando arriva giù è un meteorite, poi non mi puoi accorciare i braccini all’ultimo chilometro! Che figura! E il club privato dov’è finito? E il tennis? E il secchiello del ghiaccio? Per non parlare del fatto che ho tradotto per te durante tutta la cena.
Comunque non faccio una piega e le dico che possono far fare due fatture (una per me e una per Thor) per la nostra parte, dopodiché ci alziamo diretti alla cassa. Arrivati là ci aspetta la vera chicca: il marito senza chiedere niente a nessuno fa dividere il conto per quattro come se fossimo vecchi amici che si vedono in continuazione. Non so se è chiaro: per QUATTRO!!!! Ma fammi capire, Gioia, perché te lo devo pagare io il carpaccio di pesce spada? Non hai lo studio privato oltre il tuo lavoro nel pubblico? E allora!
Non faccio in tempo a riprendermi dallo shock e siamo già al parcheggio. Risaliamo in macchina e sgommiamo verso l’albergo. E’ quasi mezzanotte e non vedo l’ora di arrivare in camera e buttarmi quest’incubo di serata dietro le spalle ma purtroppo non deve andare così. La nostra guidatrice decide che l'illustre ospite deve assolutamente vedere non so quale monumento (io non vengo contemplata) e a un certo punto, notando la macchina della polizia davanti a noi, mi fa: “Ascolta, questa è una zona a traffico limitato dove non potrei stare quindi, se per caso ci fermano, tu fai finta di essere inglese così io dico che siete turisti e che vi sto portando in albergo”
Mi frugo in tasca ma non mi è rimasto neanche un po’ d’incredulità, stasera l’ho usata veramente tutta; secondo la logica contorta di questa pirata della strada, dato che LEI è entrata in zona vietata (senza peraltro avvisarci) IO dovrei dare false generalità a un agente di polizia?!!!!!! E se poi mi chiede i documenti?!!! MA SIAMO IMPAZZITI!!!!!!!! OOOOOOOOOO!!!!!!!!!!
A quel punto chiudo ogni canale di comunicazione e passo gli ultimi cinque minuti a riflettere sui miei errori, in particolare sul passo falso commesso quella mattina: la prossima volta che me lo chiedono, la cena di rappresentanza se la possono mettere dove sanno, insieme al secchiello del ghiaccio e allo spiedino di gamberi su letto di ma-andate-ben-tutti-a-cagare.



lunedì 20 giugno 2011

Le mille bolle blu e "quello che vino è?"

Eccoci a un’altra surreale avventura lavorativa; sembra che forze occulte cospirino per farmi finire con una certa regolarità tra i pazzi furibondi e nelle situazioni più surreali. O forse sono io che attiro sta gente, boh.
Esaminiamo brevemente il convegno a cui ho appena lavorato, è una vera miniera in questo senso.
Mi prenotano una stanza nello stesso hotel (4 stelle) dei congressisti. Ovviamente a me riservano la stanza dei servi della gleba (piccolina e con bagno degli anni 70) ma ci sono abituata e poi è pulita e tanto basta. Appoggio le valigie e vado in bagno a darmi una rinfrescata; apro il rubinetto e il bidet inizia a gorgogliare come se ci fosse qualcuno che soffia in un bicchiere con una cannuccia. Vabbè pazienza, facciamo una doccia. Apro le porte a vetri della doccia e dentro ci trovo uno sgabello con sopra il tappeto antiscivolo per la doccia e il tappeto di spugna da mettere fuori. Vabbè pazienza. Tolgo tutto, apro la doccia e sto benedetto bidet ricomincia a gorgogliare. Mi lavo accompagnata da “Le mille bolle blu” e mentre mi sciacquo i capelli noto uno strano tubo che scende lungo la parete della doccia fin quasi a terra. Un microfono nascosto? Una doccia a gas? Una volta uscita lo esamino meglio e l’unica spiegazione che mi viene in mente è che sia il tubo della condensa del condizionatore (proprio lì sopra) che scola direttamente nella doccia. Ricordo che tratterebbesi di hotel 4 stelle (forse sono le stelline del brodo).
La mattina seguente esco dall’albergo e chiedo all’autista a che ora è prevista la partenza della navetta per i congressisti. Risposta: ore otto circa, appena sono saliti tutti. Peccato che lui non li abbia mai visti prima, né sappia quanti debbano essere, quindi si aspetta a oltranza seduti nel bus. Finalmente alle 8.15 qualche neurone si mette in moto e l’autista si decide a chiedere al moderatore del convegno di controllare che ci siano tutti e, sorpresa! Ci siamo già tutti. Per motivi francamente inspiegabili il bus non ci scarica a destinazione ma prosegue allegramente fino a un parcheggio non meglio identificato; percorriamo la distanza che ci separa dalla sede del convegno accompagnati dalle invettive di alcune ospiti, decisamente attempate, che sparano a zero sull’organizzazione.
Non c’è molto da dire sul convegno che era, come spesso accade, interessantissimo. Persino l’esiguo pubblico a un certo punto ha dato il collo, un tipo in ultima fila dormiva con la testa all’indietro sullo schienale della sedia. Per fortuna a metà mattina e a metà pomeriggio c’erano le pause caffè, le quali meritano un paragrafo tutto per loro.
In un chiaro tentativo di ridurre i costi, l’organizzatore aveva stretto un accordo con (si suppone) il locale istituto alberghiero, o perlomeno così speriamo, altrimenti la denuncia per sfruttamento del lavoro minorile non gliela leva nessuno, i camerieri avranno avuto al massimo quindici anni! L’artista che aveva ideato i menu ce lo ricorderemo per un pezzo: in una delle pause caffè (accento su caffè) servivano fette di pane col lardo e frittatine di spinaci, oltre ai panini al prosciutto cotto con pane secco e a qualche mini croissant non del tutto scongelato. Ma la vera chicca è arrivata al momento del pranzo: dopo aver preso qualcosa da mangiare siamo passate davanti al tavolo del vino e Maura, fermandosi, ha chiesto al cameriere:“Scusa, che vino è quello?” Il ragazzotto l’ha guardata e ha risposto serafico “Bianco”.
Dopo pranzo ci aspettava un eccitante fuori programma, in occasione di questo straordinario evento era stata infatti preparata una performance live: due brevi farse (una in italiano e una in inglese in omaggio al pubblico straniero) intervallate da una canzone, composta in onore della sua città, dall’autrice delle due farse e cantata dal vivo dalla figlia adolescente di quest’ultima. Evito commenti sulla performance, mi limito a osservare che uno degli attori che recitava in inglese aveva un difetto di pronuncia per cui diceva cose del tipo yez, zir. no, zir. Il resto lo potete immaginare.
Finito il convegno con due ore di ritardo, siamo tornati in hotel per la cena. Abbiamo chiesto di poter cenare per conto nostro ma essendoci un menu specifico per i congressisti ci hanno risposto picche; almeno però ci hanno dato un tavolino da due. Arrivati alla fine della cena, una delle cameriere si è avvicinata e ci ha sussurrato “Ma voi ci dovete passare tutto il giorno insieme a questi?” E, al nostro “purtroppo”, ci ha lanciato uno sguardo pieno di comprensione e se n’è andata con un “Poverette!”
Il giorno dopo abbiamo pranzato nel ristorante dell’albergo (sempre quello a quattro stelle) e la cameriera, alla mia richiesta di aggiungere il tonno all’insalata mista del menu, ha risposto che il tonno non l’avevano. Mi chiedo cosa ci fosse di così ingombrante in quell’enorme cucina da non lasciare il posto per qualche scatoletta di tonno. O forse se tieni il tonno in cucina ti tolgono una stella. Però se scarichi la condensa nella doccia non c’è problema. La vita è un mistero.

martedì 7 giugno 2011

In fondo Bob è Bob

Avviso ai naviganti: è in arrivo un’altra cronaca di una seratina borderline. Tenetevi leggeri.

La macchina passa a prendermi subito dopo cena; appena salita in macchina indago sulla destinazione prescelta e la Ste (dopo approfondite indagini sul faccione) ci presenta due opzioni: un gruppo rockabilly al Bar degli Artisti a Cesenatico, oppure una tribute band di Bob Marley a Rimini. Essendo che guida Paolo e che lui propende per Bob Marley, dopo un breve dibattito facciamo vela per Rimini.
Non voglio essere crudele quindi spenderò solo poche parole per descrivere la ricerca del posto, con Paolo che “magari andiamo di là” e la Ste che “ma va là, gira di qua”; diciamo solo che dopo un’eternità di vane perlustrazioni io mi sono vista di fermarmi in un bar, chiedere una cocacola e passare la serata in macchina sorseggiando caffeina e ascoltando CD. Ovviamente, nel disperato tentativo di far sembrare più breve la ricerca (hai voglia!) lungo il percorso si è chiacchierato piacevolmente di vari argomenti tra cui (essendo noi diretti a sentire Bob Marley)  il mai risolto mistero dei dreadlock: cosa c’è dentro? È un dato di fatto che se qualcosa entra in quel groviglio, addio e tanti saluti, un po’ la versione rasta del triangolo delle Bermuda; di bello però c’è che anche eventuali bidocchi (leggi bidocchi capisci pidocchi) non riuscirebbero a uscire dal dedalo, quindi chiunque si accompagni a un dreadlockaro sta in una botte di ferro. Mi chiedo se nei corsi di formazione per giovani pidocchi non ci sia una mezza giornata intitolata Attenti al trappolone del dreadlock.

Rileggendo quanto scritto finora e tornando con la memoria ai post precedenti è difficile non chiedersi se siamo noi che ci andiamo a scegliere sempre dei locali che sono a casa di dio, o se siamo proprio invorniti e quindi meglio rassegnarsi all’inevitabile.
Fatto sta che alla fine sto posto lo troviamo; entriamo tutti belli e pimpanti e il cameriere ci fa sedere a una specie di bancone sbilenco largo appena venti centimetri che gira tutto intorno al palco. Per un po’ siamo tutti presi dall’ordinazione e alla fine la Clodia che deve ancora cenare decide di ordinare una pizza squacquerone e rucola. A quel punto le suggerisco di spostarci in un tavolo (ce ne sono vari liberi) per mangiare più comodamente, lei però rifiuta sostenendo che non c’è bisogno, che il bancone va benissimo. Arriva il cameriere e si procede con l’ordine; quando sente che la Clo vuole la pizza ci propone di spostarci in un tavolo. Secondo secco rifiuto della Rinaldi (la Clodia). Io ordino una coca e delle patatine e ovviamente il cameriere precisa che loro hanno solo la pepsi (anche qui?! Ma li mortacci….) per cui vai di petrolio. A questo punto la Ste, dal fondo del bancone, chiede alla Rini se ha ordinato e sentendo che prende una pizza suggerisce di sederci a un tavolo. Guardo la Rini temendo che ci mandi a morì ammazzati tutti (o peggio) ma lei mantiene la calma e scuote la testa, si nota solo un leggero tremore all’angolo del labbro.
Una volta sistemata la faccenda vettovaglie possiamo finalmente concentrarci sul gruppo che sta iniziando a suonare. Una rapida occhiata rivela che di dreadlock neanche l’ombra, strano – penso io -  di solito la tribute band il look lo cura ossessivamente. Poi arriva il cantante: pantaloni neri stretti, giacchina e cappelluccio; se questo è Bob Marley io sono Hulk Hogan. A chiudere la partita ci pensa l’armonica a bocca. E qui partono una serie di commenti sarcastici nei confronti dell’Albertini (la Ste); l’ipotesi più accreditata è che abbia letto l’annuncio del concerto mentre le passava accanto un sanone e quindi, non capendo più niente causa ormoni in subbuglio, abbia trasformato Bob Dylan in Bob Marley. La tapina tenta un’ultima disperata difesa sostenendo che in fondo Bob è Bob ma viene messa a tacere da una valanga d’infamate.
Nel frattempo tutti hanno ricevuto le loro bevande tranne la sottoscritta e di lì a poco arrivano pizza e patatine. Di pepsi però nemmeno l’ombra (che abbiano finalmente messo al bando il disgustoso intruglio?). Indago presso un cameriere il quale torna dicendomi che a loro non risulta che sia mai stata ordinata (si vede che il cameriere era troppo preso dal dilemma della Rini e della pizza sul bancone sbilenco) ma perlomeno ha in mano un bicchiere pieno e, anche se trattasi del solito petrolio tiepido, a quel punto mi basta che ci sia del liquido, dopo tutto il sale delle patatine berrei anche la bottiglia di lavavetri.
E la Rini cosa sta facendo? – vi chiederete voi. Mossa da una fame ormai piuttosto nerboruta, si è avventata sulla pizza, o meglio avrebbe voluto avventarsi sulla pizza ma, essendo che la deve tenere in bilico sul bancone sbilenco perché del tavolo non c’era assolutamente bisogno, è costretta a frenare l’irruenza e a organizzarsi. Sì, perché per tagliare a fette la pizza servono due mani ma poi sul bancone sbilenco (il tavolo continua a non servire) ne serve una terza per tenere fermo il piatto ed evitarne la rovinosa caduta a terra. La terza mano in questione la fornisco io e, a parte un paio di momenti tesi (mi sono distratta e ho allentato la presa), il lavoro di equipe dà i suoi frutti.
Finito il concerto (adesso non chiedetemi la recensione del concerto che eravamo occupati a sopravvivere), riprendiamo la macchina e sul sedile di dietro si comincia ad avvertire una certa stanchezza (sarà tutto quel reggere di piatti o forse tutto quel Bob Dylan). La Rini si è praticamente addormentata con la faccia sul finestrino ma la cosa non scalfisce minimamente guidatore e navigatrice i quali, forti del fatto di avere il volante in mano, propongono una puntatina al bar degli artisti. Noi di dietro ci guardiamo in faccia (la Clo sì è risvegliata dalla trance) e acconsentiamo pensando vabbè, stiamo una mezzoretta e poi a casa. In realtà quello sarà solo l’inizio della seconda parte della serata che vedrà un’Albertini chiaramente tarantolata e posseduta dal demone Duracell, trascinarci in giro per una Cesenatico invasa da orde di adolescenti inzampate in mise in bilico tra l’incredibile e il ridicolo e rallegrata dalle performance artistiche di ballerine che ballano su panche delle danze lente che vorrebbero essere sensuali ma che non vanno oltre il surreale, accompagnate come sono dalla musica unz unz dei locali intorno.
Concludo con un’ultima chicca: ci siamo ritrovati davanti alla famosa ballerina di cui sopra, cullati dalla musica che pompa e l’unica cosa che volevamo era andare a casa nostra e riposare le stanche membra ma quel genio dell’Albertini se n’era improvvisamente schizzata via con un torno subito. L’abbiamo vista da lontano che parlava con quella che abbiamo ipotizzato fosse un’amica che non vedeva da tempo e quindi ci siamo rassegnati ad aspettare. Dopo un’eternità (lustro più lustro meno) la gigina è tornata e ci ha informato con gran soddisfazione di essere riuscita a concordare con la sua estetista il prossimo appuntamento per la ceretta.
No, ditemi voi se una badilata non ci stava bene.

venerdì 3 giugno 2011

Austin Powers, Mastrolindo e l'effetto Cecca

Il venerdì sera potrebbe essere una sera come tutte le altre ma non sarebbe il venerdì sera, non saprebbe di libertà e sciocchezze e soprattutto non ci sarebbero la Clodia e la Cecca che mi aspettano per andare a vedere un concerto a Marina Romea.
Fedele al mio personaggio, mi riduco a fare tutto all’ultimo momento e, inevitabilmente, arrivo a casa della Clodia trafelatissima. Ci infiliamo nella macchina della Cecca e solo a quel punto le due gigine m’informano, tranquillissime, che nessuno sa esattamente dove sia il locale in cui fanno il concerto quindi si profila all’orizzonte una di quelle cacce al tesoro che ti ritrovi alle tre di mattina a entrare nel laboratorio del fornaio chiedendo informazioni.
Per sicurezza do un’occhiata alla lancetta del carburante e vedo che c’è più di metà serbatoio, almeno non rimarremo a piedi. Ovviamente il navigatore è rimasto a casa e al momento naviga nel cassetto del salotto. Vabbè, partiamo.
Sorprendentemente, nonostante tutto sia contro di noi, comprese noi stesse, il cartello Marina Romea ci accoglie festoso dopo una quarantina di minuti; adesso si tratta solo di trovare il posto. Essendo Marina Romea, non è che brulichi di eventi quindi ci lasciamo guidare dalle luminarie visibili in lontananza.
A una certa distanza dal presunto locale (tipo 400 m), prendo il coraggio a due mani e avanzo la mia timida proposta: “E se parcheggiassimo?” Reazione del popolo: Orrore! Parcheggiare a queste distanze siderali? Ci stiamo forse allenando per la 100 km del Passatore? Chino la testa sconfitta mentre la macchina avanza risolutamente verso il locale e da lì a un minuto ci ritroviamo imbottigliate in un budello che sembra quello in cui era Austin Powers quando cercava di fare manovra col carrello del golf.
Dopo un paio di manovre sempre alla Austin Powers, con rovi che attentano selvaggiamente alla carrozzeria, i santi numi ci vengono incontro e si libera un parcheggio.
Una volta parcheggiata la macchina facciamo il nostro trionfale ingresso nel locale e puntiamo immediatamente il bar ma, alla mia richiesta di una cocacola, la barista mi informa che loro hanno solo la pepsi. Questa persecuzione della pepsi l'ha da finì, per due importanti ragioni:
1) la pepsi è una caramella liquida che solo a sentirne il nome i dentisti di tutta Italia si sfregano le mani, pensando alla macchina nuova che compreranno con le tue cure odontoiatriche.
2) non so perché ma te la servono sempre sgasata, mi aspetto che prima o poi qualcuno mi dica che se voglio più bolle sono 50 centesimi in più.
Afferro rassegnata il bicchiere di petrolio e torniamo verso il palco (le altre due che non sono nate ieri hanno chiesto una birra che lì vai sempre sul sicuro), guardandoci intorno e studiando la fauna accorsa per l’evento. La fauna intanto studia noi.
La Clodia mi indica un tizio in mezzo alla folla e onestamente mi chiedo come ho potuto non notarlo prima. Il soggetto in questione, piazzatosi esattamente davanti al palco, è un marcantonio alto almeno un metro e novanta con la testa completamente rasata e piccoli orecchini d’oro ad anello su entrambe le orecchie: praticamente Mastrolindo. A questo punto mi trovo obbligata a una confessione un tantino imbarazzante: io del concerto non mi ricordo praticamente niente perché da quel momento in poi la mia mente è stata invasa da mille domande, tra cui la più scontata e inevitabile: perché? E cioè: capisco che non è colpa tua se sei alto come un bonsai di grattacielo e che non ci puoi fare niente, capisco anche che magari i capelli si stanno diradando e quindi fai piazza pulita (o forse ti piaci così e allora lì è in agguato un’altra valanga di perché), ma proprio l'anello d’oro all'orecchio? Quello è il suo marchio di fabbrica, lo sanno tutti!
A meno che il nostro amico non sia troppo giovane per ricordarselo. E qui mi trovo preda del dubbio perché io non è che passi la vita a segnarmi quando danno gli spot di Mastrolindo quindi non mi ricordo quando (e se) hanno smesso di darli.
Mentre me ne sto lì in silenzio, dilaniata da mille incertezze, assisto a una scena che mi resterà impressa per molto tempo: la Cecca mossa da non so quale impulso parte e si avvicina allo stangone fermandosi a meno di mezzo metro di distanza. C’è da dire che a suo tempo la Cecca l’hanno fatta un po’ in economia quindi gli arriva appena sopra i gomiti e quando gli si mette di fianco l’effetto è decisamente comico. Dopo un po’ anche lui si gira e la vede che ci guarda ridendo con le mani sui fianchi. E a questo punto entra in scena l’ormai famosissimo effetto Cecca. Trattasi di un inspiegabile fenomeno grazie al quale la signorina in questione può fare praticamente di tutto, senza che nessuno trovi alcunché da ridire.
Per chi fosse interessato c’è l’esempio eclatante del buttafuori di un pub di Amsterdam il quale, in piedi davanti all'ingresso, controllava i documenti a tutti e quando si è visto presentare con grande nonchalance dalla Ceccarelli la tessera magnetica con cui entravamo in camera. L’ha guardata, si è fatto una risata e l’ha fatta entrare senza dire bao, un altro sarebbe finito dritto nel canale (vedi Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge - parte terza)
Finito il concerto il nostro deejay si scatena e noi si balla ininterrottamente per un’ora, o almeno si ballerebbe ininterrottamente per un’ora se non fosse che la Clodia e la Cecca ogni tre per due si fermano per:
a)      chiedere a un vicino chi è che canta quella canzone bellissima che hanno messo su,
b)      andare a prendere una birrina (Cecca),
c)      chiedere allo stesso vicino di prima se la canzone che c’è in quel momento è dei Joy Division,
d)      andare a prendere una birrina (Cecca),
e)      correre dal deejay per chiedere a lui se quella canzone è dei Joy Division,
f)      andare in bagno e tornarne con una birrina (Cecca), sostenendo che lei non la voleva ma il barista ha insistito,
g)      varie ed eventuali.
Quando ormai il grosso della folla se n’è andato, decidiamo che forse è ora ditogliere le tende; salutiamo  i pochi rimasti e ci incamminiamo verso la macchina dove la Clodia prenderà il volante, essendo che con tutte quelle birrine la Cecca farebbe probabilmente svenire l’etilometro.
Guardando l’orologio mi accorgo che si son fatte le ore bonsai e tremo al pensiero della sveglia che suonerà domattina. Intanto però ci sono la sabbia, il mare con le onde che s’infrangono e il profumo della pineta. E per un po’ è ancora venerdì sera.