giovedì 10 febbraio 2011

Tragedie domestiche

Scultura di Debora Ciolli
Alcuni mesi fa, nel bel mezzo del freddo polare calato sulla Romagna, scendo in garage per fare la lavatrice dei bianchi. Infilo tutto nel cestello, imposto e torno di corsa in zona termo riscaldata. Purtroppo al mio ritorno, dopo un paio d’ore circa, scopro che la centrifuga è deceduta. Tento di rianimarla invano, poi rassegnata apro lo sportello della lavatrice. I lenzuoli inzuppati pesano cinquanta chili l’uno. E per fortuna non sono maglioni di lana, altrimenti la lavatrice tutta avrebbe sfondato il pavimento, finendo in cantina.
La cavalleria accorre dal piano di sopra ma, vista la situazione, l’unica possibilità è uscire in giardino, sfidando il gelo, e strizzare a mani nude tre lenzuoli e un copripiumone. Una bella esperienza.
Chiamiamo l’assistenza e dopo un paio di giorni arriva un simpatico tecnico che in un’oretta sistema tutto saluta e se ne va. Cento euri.
Qualche giorno dopo, apro la lavastoviglie per prendere una tazza per il tè e scopro che non ha lavato. Brutto segno. E via di nuovo a chiamare l’assistenza; purtroppo l’assistente dell’assistenza ci risponde che può venire solo un paio di giorni dopo, gettandoci per quarantottore nel buio Medio Evo del lavaggio a mano.
La mattina del giorno X ore 7.45, il tecnico si presenta, dà un’occhiata e il verdetto è implacabile: deve cambiare il motore. Prima di procedere ci chiede di chiudere l’acqua onde evitare tsunami; ora, l’ultima volta che abbiamo chiuso l’acqua sarà stato sette otto anni fa, quindi non è che ci ricordiamo bene quale sia ma essendoci solo due rubinetti c’è un 50% di probabilità di prenderci, quindi giriamo il primo rubinetto e torniamo di sopra. Ovviamente in cucina l’acqua scorre che è un piacere; vabbè, allora era quello del gas. Torniamo giù, correggiamo il tiro e finalmente l’uomo si mette al lavoro. Anche in quel caso in un’oretta finisce il lavoro. Duecento euri.
A questo punto torna il sereno e, stremati dall’esperienza (ci stremiamo con poco), ci sediamo in salotto a fare colazione e a cazzeggiare.
E’ solo un’ora dopo che cominciamo a notare qualcosa di strano; la casa è insolitamente fredda. Controlliamo il termometro e in effetti segna 18°, un po’ poco. Il nostro eroe scende a controllare la caldaia e torna con una faccia che la dice lunga. Per essere precisi dice che quando abbiamo inavvertitamente chiuso il gas si è spenta la caldaia. Nooooooo!
Prendiamo il manuale-caldaia per vedere cosa fare ma, pur seguendo le istruzioni alla lettera la caldaia fa orecchio da mercante. Chiamiamo DI NUOVO l’assistenza. Possono venire solo nel pomeriggio quindi sarà meglio accendere la stufa a pellet, almeno quella un po’ di calore lo fa…
Fortunatamente mentre io in cantina aspiro polvere di pellet, l’eroe di sopra riprova l’accensione e inspiegabilmente la caldaia parte. Ogni tanto le cose vanno anche per il verso giusto.
Essendo usciti indenni da tante avversità, la giornata prosegue all’insegna di una quieta esultanza, almeno fino a metà pomeriggio quando, dopo essermi fatta i fatti miei in bagno, tiro lo sciacquone. Vedo venir giù dell’acqua arancione e sento un gorgoglio che pare un drago che fa i gargarismi. Ora, nulla contro i draghi e i gargarismi, è solo che non lo definirei un buon presagio; e infatti l’acqua che riempie la cassetta del wc non sembra minimamente intenzionata a fermarsi. Siamo destinati a una bolletta da tre fantastilioni di euri. Alzo la testa e ululo di dolore. L’eroe accorre in mio soccorso ma quando apriamo la cassetta del wc è tutto incrostato di calcare, sembra di essere a Frasassi. Vista la situazione contattiamo ANCORA l’assistenza, nei panni del nostro idraulico il quale, sentendo la parola gorgoglio, ci chiede se abbiamo chiuso l’acqua di recente.
Rispondiamo di sì, quasi piangendo. La riapertura dell’acqua, ci dice, ha probabilmente staccato un’incrostazione dai tubi che hai poi intasato lo sciacquone. Ovviamente lui è pieno di lavoro quindi non può venire prima di domani. Io nel frattempo mi sono accasciata come uno straccio bagnato (non funziono bene quando il destino si accanisce). L’eroe mi conforta ricordandomi che abbiamo un altro bagno, l’idraulico verrà, vedrà e sistemerà. Io intanto m’immagino tutti quegli euri con la valigia in mano che ci salutano con la manina.
Dopo un primo momento di sconforto però, qualcosa in noi scatta e decidiamo di reagire: vado nell’altro bagno e do un’occhiata al meccanismo incriminato. Mentre l’eroe preleva il galleggiante calcarizzato, io preparo un bagno di aceto caldo e sale grosso. Buttiamo dentro la neoconcrezione (scappa anche qualche parola poco gentile ma è da capire) e ce la lasciamo per diverse ore. La sera, dopo averlo pulito a dovere, risistemiamo il tutto e…funziona!
Chiamare l’idraulico per dire che non c’è più bisogno che venga non ha prezzo…

venerdì 4 febbraio 2011

In gita a Madrid (tipo la gita delle medie) - la seconda di due parti

La mattina si usciva sempre con comodo, un po’ perché dormivamo parecchio (chi ci riusciva) e un po’ perché, tra piastra ai capelli, sigaretta e caffè per vincere la stitichezza ecc, il tempo volava via.
L’argomento stitichezza si è presto trasformato nel vero protagonista del viaggio (la famosa quinta unità); tutti i giorni c’era il bollettino di guerra e si tentavano vari rimedi, caserecci e non, senza purtroppo risultati esaltanti. Si è inevitabilmente scatenata una campagna denigratoria nei confronti di quelle non interessate dal e al problema, accusate di sbattere in faccia le loro prestazioni alle meno fortunate. La stitichezza è una dura minestra (il gioco di parole è venuto per caso).
Secondo il programma elaborato dalla Rini, il primo giorno avremmo dovuto far colazione in una famosa pasticceria e poi dedicare il resto della mattina al mercato del Rastro; purtroppo però, essendo che ci fermavamo ogni cinque minuti a fare foto ovunque e a guardare qualsiasi vetrina (inclusa quella degli iPhone, oggetti esotici tipicamente iberici), abbiamo raggiunto la pasticceria nel pomeriggio e il Rastro verso le 16.30, quando ormai stavano smontando.
Passerà alla storia la scena della sottoscritta che, in piedi davanti al semaforo pedonale, urla “E’ VERDE!!!!” per la quinta volta, mentre le tre dell’avemaria si fanno foto a vicenda, del tutto ignare del mondo che le circonda.
Altro dettaglio degno di menzione: la Berti (che qualcuno ricorderà come una delle protagoniste della memorabile foto della Compagnia dell’Anello[1]) nell’ambiente metropolitana non dava proprio il meglio di sé; tutte le sere al momento del rientro in hotel cominciava a lamentarsi che era stanca, che c’erano troppe scale da fare, arrivando in alcuni casi a rifiutarsi di salirle. In una di queste occasioni, di fronte alla donna che la faceva più lunga della Bologna-Taranto, la Rini ha colpito rapidissima e letale: “Dai Frodo, hai scalato un monte per prendere quel benedetto Anello, potrai fare tre gradini per tornare in hotel!” Ovviamente la Berti le ha tolto il saluto ma è una cosa che prima o poi è capitata a tutte; a me, nello specifico, quando le ho rivelato che, siccome nel sonno lei andava in apnea e mi faceva venire l’ansia, rendendomi impossibile addormentarmi, avevo deciso di mettermi i tappi. Apriti cielo! E se le fosse successo qualcosa? Se l’avesse aggredita un assassino nel sonno mentre io dormivo con le orecchie tappate? La mia risposta, mors tua vita mea, non ha migliorato le cose.
Sempre in metropolitana siamo stati testimoni di parecchi episodi incresciosi: gli sfortunati omarelli che salivano in certe carrozze si ritrovavano oggetto di commenti e occhiate lascive da parte di alcune scostumate; ne abbiamo addirittura visto uno scendere dal treno in fretta e furia, si sospetta una fuga per difendere l’onore.
Per quanto riguarda le nostre visite culturali (musei Thyssen e Reina Sofia), esse sono state all’insegna della sintesi ma, data la brevità del viaggio, era inevitabile. Non così lo sciopping che, su tre giornate (una se ne andava in viaggio) ne ha occupata una intera. C’erano da comprare souvenir per genitori, nonni, nipoti, zii, colleghi, portinaia, fruttivendolo e antennista. Abbiamo lasciato fuori solo il figlio del fontaniere e la seconda moglie del postino.
In questo turbinio di negozi la sottoscritta, non essendo molto abituata (mai stata neppure alle Befane) ha iniziato dopo qualche ora a mostrare i primi segni di cedimento: mal di schiena, stato confusionale e visioni preoccupanti (la mia maestra elementare mi guardava con compassione appoggiata al bancone da Desigual).
L’ultima sera, distrutta dallo sciopping e da un’affannosa quanto infruttuosa ricerca di un posto dove mangiare, ho salutato con entusiasmo l’insegna di un ristorante italiano. So che all’estero si mangia estero ecc ecc, ma in guerra non stai certo a guardà capello. Oltretutto la pizza era buona assai.
Ultimo giorno, tutto sciopping e check-in. Pranzo in un ristorante vegetariano strapieno di gente dove, causa un mio qui pro quo traduttivo, pensiamo di ordinare ceci ma ci servono piselli. Ops. Durante il pranzo la Rini conclude che i madrileni sono poco educati, aggiungendo sarà perché sono montanari. La Berti invece lamenta che il giubbotto le va stretto perché non ha fatto la cacca.
Dopo un rush finale dentro e fuori dai negozi, con tasso di adrenalina/ansia alle stelle, prendiamo finalmente il bus per l’aeroporto; dopo cinque minuti di viaggio la Berti si arrabbia (il motivo al momento mi sfugge) e, togliendo il saluto a tutte, si sposta sul fondo del bus dove rimane fino all’arrivo al terminal. Passiamo i controlli e, una volta arrivate alla zona duty-free, ha inizio uno di quei saccheggi che gli Unni prenderebbero appunti. Quando vanno a pagare, lo scontrino sembra la Treccia di Rapunzel. E’ proprio in quel momento, quando hai comprato tutto il comprabile e inizi a rilassarti, che il destino ci mette lo zampino e la Rini si rende conto di non avere la carta d’imbarco. Ma porc...
Torniamo al controllo bagagli ma non troviamo nulla; l’impiegato ci indirizza verso un banco Iberia dove, dopo una fila di un quarto d’ora, ci stampano un duplicato. Intanto, dietro nostro suggerimento, la Lucchi e la Berti (che pur non parlando lo spagnolo riesce a farsi capire anche dalle pietre) sono andate al gate per avvertire le hostess. Quando finalmente le raggiungiamo, chiediamo se hanno avvertito qualcuno, se dobbiamo informarli che abbiamo risolto il problema.
Risposta della Lucchi:”Boh, la Dani gli ha parlato ma non so se l’hanno capita; lei continuava a dire mia compagna, lei perso suo Anello!
A quel punto la Berti ce ne ha dette di ogni ma nessuno l'ha sentita, le risate coprivano qualsiasi altro suono.
Quando finalmente hanno chiamato il volo e ci siamo avvicinate per l’imbarco, la Berti ha sussultato nel vedere gli stessi rugbisti dell’andata, compreso Mr Collo Taurino. Ormoni ovunque. Sintetizzo l’atmosfera del viaggio di ritorno con un esempio di conversazione: siamo in pista, l’aereo sta decollando; la Berti si gira e mi chiede:”Ma anche a te ballano le tette?”
Ogni altro commento è superfluo.


[1] Vedi post di Amsterdam e Brugge – parte quinta.