sabato 29 dicembre 2012

Lo slalom della Volpe

Tempo fa ero su facebook che navigavo e mi son trovata davanti il link di un articolo sul femminicidio che stava scatenando enormi polemiche sul web e fuori; purtroppo questo articolo illuminato, comparso sul sito di Pontifex, non è più disponibile per la lettura, forse le troppe polemiche l'hanno sommerso.

Senza adesso entrare nei dettagli dell'articolo (che essendo scomparso non può più difendersi), vorrei presentarvi, a mero scopo di riflessione, un nuovo scenario che la mia fervida immaginazione ha appena partorito: immaginiamo un tempo futuro, una buia notte di dicembre in cui il Signor Volpe Bruno, autore dell'articolo in questione, mentre torna a casa in macchina viene sorpreso da una navicella spaziale e da essa rapito, come pare capiti a tanti di questi tempi. 
Gli alieni in questione sono turisti spaziali per i quali il nostro pianeta è come Roma per i giapponesi, son venuti a fare un giro, a rilassarsi e divertirsi.
Proprio a questo scopo decidono che il Sig. Volpe Bruno così com'è non gli piace e, grazie ai loro alieni macchinari, procedono a cambiargli sesso senza battere ciglio. Una volta terminata l'operazione, osservando il risultato, pur essendone soddisfatti, non lo sono abbastanza da voler portare a casa questo simpatico souvenir terrestre e quindi, sempre senza battere ciglio, scaricano la nuova arrivata Sig.ra Volpe Bruna a pochi metri dal luogo del rapimento per poi dirigersi verso Saturno, dove pare che l'ultima moda sia fare lo slalom tra gli anelli.
A questo punto la neonata signora torna a casa, comprensibilmente sconvolta dall'evento ma tutto sommato in  buona salute (la medicina aliena sa evidentemente il fatto suo); il problema si pone all'indomani, quando tenta di far capire al mondo che in realtà dentro la signora Bruna c'è lui, Bruno. Peccato che quella terza abbondante di reggiseno non deponga a suo favore. 
Una volta rassegnatasi al suo nuovo destino, per Volpe Bruna già Volpe Bruno si rende inevitabile un processo di adattamento alla nuova situazione e non è cosa facile: prima di tutto la signora dovrà smettere di credersi autosufficiente poiché, in quanto donna, questo la farebbe cadere nell'arroganza e, non essendo più geneticamente predisposta all'autosufficienza (boia gli alieni e il loro strano senso dell'umorismo), dovrà cercarsi un uomo che provveda a lei; ovvio che a questo scopo dovrà frequentare un corso di formazione per imparare a svolgere le faccende domestiche che, in quanto donna, saranno sua responsabilità.
Ci auguriamo che la signora sia particolarmente esigente nella scelta dei formatori perché la sua stessa sopravvivenza dipenderà dal fatto che la sua performance come donna delle pulizie, cuoca e bambinaia sia ineccepibile, in caso contrario suo marito potrebbe essere costretto a esagerare e, che ne so, ucciderla.
E non dimentichiamo che la nostra Volpe Bruna dovrà anche fare estrema attenzione a ciò che indossa quando mette piede fuori di casa perché, a seconda delle persone che incontrerà, qualcuno potrebbe trovare sconveniente il suo abbigliamento e trovarsi suo malgrado costretto a esagerare, cedendo ai propri comprensibili impulsi, magari stuprandola o uccidendola.
Le auguriamo sinceramente di farcela.

giovedì 13 dicembre 2012

Il pitone di jeans e le calze contenitive

Recentemente mi sono resa conto di un cambiamento significativo nel mio modo di affrontare la lettura di una qualsiasi rivista di quelle cosiddette "femminili"; se prima le sfogliavo rilassata, tra un sorso di tè e una fetta di pane e nutella, oggi la situazione è decisamente cambiata.
Mi sento un po' come quei cercatori d'oro che passavano le giornate sulla riva del torrente setacciando il fondale alla ricerca dell'ambita pepita, anche se, innegabilmente, il mio compito è parecchio più facile: sono seduta al caldo e spesso l'oro mi cade in grembo, quasi un dono del cielo.
La pepita di oggi consiste in una pubblicità di jeans che promettono di "modellare e slanciare le forme dei glutei e delle gambe" grazie a "un'esclusiva tecnologia brevettata". C'è pure un disegnino a lato con un sacco di frecce colorate puntate verso l'alto, presumibilmente a indicare l'azione slanciante del magico brevetto. In questo caso però non è la pubblicità in sè a interessarmi (anche se la presenza del pitone di jeans già da sola varrebbe un post intero) quanto piuttosto il messaggio affidatole.
Partiamo con ordine: l'immagine in questione sostanzialmente ci comunica che indossando questi miracolosi e tecnologicissimi pantaloni ci troveremo ad avere i glutei attaccati alla nuca e l'equivalente delle gambe di Barbie.  Se osservate da vicino la foto noterete che i pantaloni hanno un'etichetta rosa proprio là di dietro, nonché una discretissima croce rosa in vita, giusto per non farsi notare.
Mi chiedo se quelli del marketing si siano resi conto del potenziale effetto boomerang della faccenda; sì perché, essendo i pantaloni riconoscibilissimi, appena vedi una tizia inzampata in quei robi, la prima cosa che pensi è che evidentemente l'indossatora (evito indossatrice per ovvi motivi) deve averne proprio bisogno. Sostanzialmente il pantalone Freddy mi diventa l'equivalente di un'enorme freccia al neon con sopra scritto Attenzione caduta glutei. O forse sono troppo catastrofista, chissà. Ai dati vendita l'ardua sentenza.
A questo punto allarghiamo il campo d'indagine e tentiamo di valutare la situazione nel suo complesso: abbiamo il reggiseno con l'imbottitura di silicone così se sei piatta diventi Pamela Anderson, il body che ti fa il vitino di vespa e appiattisce quella pancia che proprio non si guarda, le mutande imbottite se hai il sedere piatto e i pantaloni che tirano su i glutei se hai il perimetro in caduta libera.
Dimenticato niente? Ah, sì, il mantra che ci sgardella gli zebedei da anni: l'importante è accettarsi per come si è.  Auguri.



P.S. Comunque, tornando alla pubblicità, quei pantaloni sembrano dipinti sulla modella tanto sono stretti quindi, non so se realmente tirano su più di un argano come sostiene il fabbricante, però son sicura che alla circolazione non faranno un gran bene; vedo profilarsi all'orizzonte una possibile collaborazione tra Freddy e qualche nota azienda produttrice di calze contenitive.

P.P.S. In dialetto romagnolo, gardella = griglia.

sabato 8 dicembre 2012

Il Faro di Alessandra

Quella che state per leggere è la rivelazione di un terribile segreto il quale però, come tutti i terribili segreti, se poi non lo riveli a qualcuno che gusto c'è?
Dovete sapere che, da un po' di tempo a questa parte, la tribù a cui appartengo si ritrova puntualmente ogni anno per condividere un momento di comicità irresistibile, una di quelle esperienze che ti riconciliano col mondo e ti permettono di guardare al futuro con rinnovato entusiasmo pensando che, in effetti, a questo punto non si può che migliorare.
Come da tradizione, anche quest'anno ci siamo ritrovati davanti al cinema all'ora X e ci siamo messi in fila per acquistare i biglietti. La scelta del mercoledì era obbligata: va bene la terapia del buonumore ma spendere più di 6,5 euri non era proprio pensabile; per dirla tutta, io e la Piraccia avevamo proposto di aspettare qualche settimana e andare al cinema a Gambettola dove, essendo la pellicola in seconda visione, avremmo pagato solo 3,5 euri, potendo quindi scialacquare il resto in loverie (niente popcorn né patatine però, in casi come questo i dialoghi sono sacri) ma la folla ci aveva ributtato a valle, c'era forte bisogno di comicità, non si poteva attendere oltre.
Ci tengo a precisare che la Piraccia si univa a noi per vivere questa esperienza per la prima volta  ma ho come avuto l'impressione che non fosse particolarmente elettrizzata all'idea. Con il senno di poi mi dico che, forse, avremmo dovuto facilitarle le cose e organizzarci in modo da non lasciarla seduta proprio di fianco alla Zoffoli che notoriamente al cinema passa la metà del tempo a chattare col cellulare e tu nel buio della sala ti ritrovi accanto il Faro di Alessandria (ribattezzato Faro di Alessandra) ma confesso che, presi da mille piccoli imprevisti, non ci abbiamo proprio pensato.

* Prima di procedere, un amichevole avviso a chiunque non abbia ancora visto le varie puntate della saga di Twilight (e per ragioni sue le voglia vedere): non proseguite a meno che non siate come mia mamma che legge prima la fine dei libri così dopo può continuare senza avere l'ansia di sapere come va a finire.
Tornando al film, concordo sul fatto che nella visione di qualsiasi opera lo spettatore gioca un ruolo fondamentale e deve metterci del suo (per esempio lavorando sodo sulla sospensione dell'incredulità); però quando quelli del casting remano contro, è veramente dura.
Facciamo un esempio: dopo averti martellato il cervello fino alla nausea con sta storia che i vampiri sono bellissimi perché devono attrarre le loro prede umane, ti trovi davanti questa neonata che è per metà vampiro e quindi dovrebbe essere perlomeno emi-gnocca, mentre invece pare la figlia dello Scrondo; di fronte a cotanta evidenza i dubbi spuntano come funghi e, dato che mater semper certa, ti scopri a scambiare occhiate significative con i vicini  mentre dal tuo pugno chiuso s'innalzano indice e mignolo nell'universale gesto. Chiaro che, a questo punto, tutta la tensione romantica è andata a farsi benedire e l'unico obiettivo dei minuti successivi è scoprire chi sia il vero padre della creatura, praticamente una puntata di Beautiful.
Riflettendoci però ti rendi conto che non è la prima volta che quelli del cast si fanno una canna, basta pensare al pater familias (Mr Cullen) il quale, a detta della protagonista, è l'uomo più bello mai comparso sul pianeta, peccato che poi abbia la faccia di Peter Facinelli il quale, lasciatemelo dire, sarà pure un bravo attore ma la coppa del super-fustacchione in questo universo non la vincerà mai.
E' in questi casi che si riconosce lo spettatore flessibile, quello che perdona lo scivolone e tiene duro, d'altra parte è anche vero che la riga da qualche parte la devi pur tirare e gli autori in questo caso non ti rendono le cose facili; nell'ultimo episodio infatti la trama prevede l'entrata in scena di molti vampiri accorsi in aiuto dei nostri eroi minacciati dai temibili Volturi (adesso guardate la foto e ditemi se non sembrano i fratelli poveri di Michael Bolton) solo che tra i marmorei soccorritori si annoveravano purtroppo alcuni parenti stretti di Cip e Ciop e a quel punto la sospensione dell'incredulità è ormai salpata a vele spiegate per i mari del Sud. C'erano pure il vampiro Diavolina che sparava fuoco dalle dita e quello che manipolava gli elementi creando pareti d'acqua, pareva quasi uno spin-off di X-Men, ma con dei truccatori un po' così.
Indimenticabile il momento eroticomico, quando l'uomo lupo di punto in bianco e senza alcuna motivazione logica si è tolto la maglietta (per mostrare i pettorali scolpiti, un'ormai consolidata tradizione della saga) e buona parte del pubblico è scoppiata a ridere, come se fosse stata in attesa proprio di quella gag.
Tra gli altri episodi degni di nota ricordiamo il gran finale con lo scontro vampiresco in cui la terra innevata si squarcia e al di sotto compare la lava incandescente, cosa che però non turba più di tanto la neve la quale persiste tenacemente in barba a ogni legge della fisica, mentre  i vampiri sul campo di battaglia cadono come le mosche, questa volta in barba alla trama del libro; per un attimo le quotazioni dello sceneggiatore schizzano alle stelle ma ovviamente non dura e si scopre che trattasi di una visione della solita vampira che vede il futuro ipotetico, un po' come quella volta che Pamela si sveglia e un'intera serie di Dallas finisce giù per lo sciacquone. Il chiaro e distinto movafangulo! che è risuonato in sala avremmo voluto dirlo tutti.
Non riuscendo a farmi coinvolgere dalla trama per i motivi di cui sopra, ho iniziato a pormi tutta una serie di domande a cui non ho trovato risposta: ma se sei un vampiro millenario, i capelli non ti crescono più? In quel caso, se ti mordono che hai un taglio di capelli che fa orrore te lo tieni per l'eternità? Alla faccia della dannazione, passare tutta l'eternità che ne so, col taglio di Dolly Parton. Certo che se vivi per secoli e secoli puoi anche investire qualche anno e andare a fare un corso professionale da parrucchiere così te li sistemi da solo, tanto cos'altro hai da fare?
La conclusione ha riservato anch'essa qualche perla: una volta sconfitti i cattivi il bello e la sua bella si ritrovano da bravi cuoricioni nel luogo romantico per eccellenza della saga: il prato in fiore. Immaginate l'atmosfera soffusa da sogno fatato, loro due soli, occhiate zuccherose in ogni dove. E' a questo punto che lei lo guarda sognante con gli occhi da Bambi e gli dice: "Ti faccio vedere una bella cosa".
Adesso ditemi voi: era proprio l'unica frase possibile? Nell'intero arsenale della lingua italiana non c'era un'altra opzione?


P.S. A riprova del fatto che viviamo in un mondo molto vario, l'Albertini a fine proiezione mi ha rivelato che la sua vicina di posto a un certo punto si è commossa.

giovedì 29 novembre 2012

Baràtt: loschi figuri ammantati di oscurità

Non so cosa abbiate fatto voi il 10 novembre ma, in caso siate stati sul divano a vegetare broccolo-style, non preoccupatevi, noi ne abbiamo fatta più che a sufficienza per tutti.
Procedo con la narrazione del nostro D-day.
***
E' da più di un mese che ci lavoriamo ed  è finalmente arrivato il momento della verità: oggi pomeriggio alle 16 parte Baràtt, lo spazio di libero scambio fumettoso organizzato dall'associazione MicaPoco di cui faccio parte.
Trattasi di un evento collegato a Cesena Comics, il festival dei fumetti che si tiene a Cesena nella settimana dal 12 al 18 novembre; abbiamo pensato di organizzare un pomeriggio in cui chiunque può presentarsi con fumetti già letti da scambiare gratuitamente con quelli di altri partecipanti, un modo per avere fumetti "nuovi" a costo zero, alla faccia della crisi.
Sono le 9.30 ed è appena suonata la sveglia; sono ancora un po' rintronata ma urge scuotersi, tra un po' passa l'Albertini a prendermi col furgone per andare alla scuola media Anna Frank a ritirare le sagome giganti dei Peanuts che ci prestano per l'evento. Accendo il cell e mi arriva un sms della Ste con un contrordine, passa lei a prendere tutto, appuntamento al bar Roma alle 11.
Mentre scendo a fare colazione squilla il telefono e la conversazione segue all'incirca questo canovaccio:
1 - Ste:"Ciao, qua abbiamo già fatto tutto, è passato a prendermi il babbo di Mirco perché oggi pomeriggio gli serviva il furgone, tu dopo vieni al bar Roma?"
2 - Io:"Sì, vengo alle 11"
3 - Ste:"Ok perché io non ho la macchina quindi se mi puoi dare un passaggio quando abbiamo finito..."
4 - Io:"Nessun problema, ci vediamo dopo"
5 - Ste:"Ok"

Alle 10.30, colazionata e ripulita, mi blindo con il giubbotto pesante e inforco lo scooter (sabato è giorno di mercato quindi parcheggio impossibile); fa un po' freddino ma tanto il viaggio dura solo un quarto d'ora, posso farcela. Arrivo al bar Roma e trovo la Clodia che mi squadra con due occhi così, visto che da programma a quell'ora dovevo essere con l'Albertini a recuperar sagome.
Le spiego brevemente l'accaduto ma, quando arrivo al momento della telefonata, il cielo improvvisamente si oscura e cala su di me il gelo della morte certa: la memoria è tornata alla frase n.3 della conversazione (vedi sopra). Cazzarola, come faccio a dare un passaggio alla Ste in scooter? Non ho mica un altro casco! E adesso chi glielo dice? La sudorazione aumenta esponenzialmente.
Per mia fortuna, una volta illustrato il marone (stupidaggine di proporzioni comunali) che ho combinato, la Rinaldi corre in mio soccorso offrendo i servigi della Tommasoni-mobile come taxi e io ricomincio timidamente a respirare.
Quando poi arriva l'Albertini come prima cosa la informo del servizio taxi Tommasoni, per poi infilare rapidissimamente nel discorso tutto il resto. Alla fine me la cavo con un paio di occhiatacce di quelle che tagliano l'acciaio come fosse burro ma conservo il cuoio capelluto, tutto considerato poteva andare peggio.
Il resto della mattinata scorre via rapidamente mentre l'Ale sistema nelle vetrine le varie tavole di fumetti forniteci dall'associazione Barbablù e noi mettiamo a punto gli ultimi dettagli, tra cui come diavolo vestirci a pomeriggio perché dovremo stare dalle due alle otto all'aperto e la questione è delicata; io propendo per un look ormai consolidato, quello da benzinaio/posteggiatore, per cui sarò il più coperta possibile, magari non proprio un gran bel vedere ma...
L'appuntamento è in galleria Oir per le 14.30 quindi praticamente parto dal bar Roma, arrivo a casa, tocco il muro e riparto, accompagnata da Rico e da una valanghina di fumetti.
L'allestimento dell'area dove si tiene l'evento ci porta via parecchio tempo: ci sono gli scatoloni di fumetti donati da amici e parenti da disporre sul tavolo del baratto, i poster da attaccare ai muri, le sagome dei Peanuts da collocare in giro, insomma, si fan le quattro e non ce ne siamo neanche accorti.
E a questo punto si aprono le danze, o meglio, si aprirebbero se ci fosse qualcuno ma non c'è anima viva! Sento riaffiorare l'ansia degli ultimi giorni, mi torna il mente il sogno fatto un paio di notti fa in cui noi preparavamo tutto ma poi non veniva nessuno. Che fosse profetico? L'Albertini mi ucciderà.

E invece, poco a poco, qualcosa inizia a muoversi; la prima ora in realtà la passiamo chiacchierando, è arrivata anche la Zoffoli col suo carico di Lupo Alberto da donare alla causa e compaiono i primi bambini per partecipare al laboratorio per creare oggetti col sapone, organizzato parallelamente a Baràtt.
Solo verso le 17.30 avvistiamo tra i passanti i primi fumettari, facilmente riconoscibili dagli zainetti o dalle buste di plastica chiaramente carichi di materiale da scambio.
Fortunatamente Rico è dei nostri quindi, oltre a essere ferratissimo sui fumetti che ha donato lui, può anche offrire recensioni su gran parte del materiale disponibile. Io mi pavoneggio lanciando in giro occhiate soddisfatte, come a dire: quello lì, l'esperto, l'ho portato io!
Mi trovo anche spiazzata dalle richieste di alcuni genitori di acquistare i fumetti in mostra; spiego che possiamo solo barattarli perché a fine giornata i fumetti rimasti saranno donati al reparto di pediatria dell'ospedale e vedo qualche faccia di bambino parecchio delusa. Son momenti difficili.
Sono molte le persone che si fermano incuriosite ma, non avendo con sé fumetti da barattare, non è che si possa combinare molto... In diversi chiedono se saremo lì anche il giorno dopo ma mi tocca rispondere picche; provo comunque a suggerire a chi abita nei dintorni di fare un salto a casa a prendere qualche giornaletto ma in realtà non sono molto fiduciosa (andare avanti e indietro con i bambini al seguito è una faticaccia), immaginate quindi la mia faccia quando tre delle famiglie in questione tornano con il loro bel carico di fumetti e ne lasciano addirittura qualcuno in più "per quei bambini in ospedale". Ogni tanto è bello anche sbagliarsi (ogni tanto).
Arrivano le sette di sera e siamo effettivamente distrutti (oltre che quasi ibernati), però tutto sommato contenti (e tonicissimi, o forse è rigor mortis, chissà). Con l'aiuto degli amici sbaracchiamo tutto, sfruttando i nostri baldi uomini (Rico, Tommasoni e Gasperoni) per caricare in macchina gli scatoloni di fumetti che pesano come il piombo ma di cui non possono lamentarsi se non vogliono incrinare irrimediabilmente la loro immagine virile.
Una volta staccati anche i poster e i disegni dalle pareti, restano solo le sagome cartonate dei Peanuts che devono essere collocate in luogo sicuro e asciutto in attesa della restituzione; ci distribuiamo il sagomato carico e si parte.
Immaginatevi un gruppo di loschi figuri, ammantati dell'oscurità della notte e intabarrati fino al naso, che si aggirano per il centro di Cesena portando sotto braccio queste sagomone alte fino a un metro e mezzo.
Lungo la strada abbiamo incrociato molta gente già tirata a balestra e calatissima nel ruolo da sabato sera: donne taccate e paillettate, uomini sempre un po' sottotono (diciamocelo, la moda uomo fa una gran tristezza); i soggetti e le soggette di cui sopra ci squadravano con delle facce che erano uno spettacolo, neanche trasportassimo armi di distruzione di massa
Le persone non sanno come reagire di fronte all'inaspettato.



P.S. Valutazione sintetica post-Baràtt:  tutto considerato direi che sono soddisfatta, non è venuta tantissima gente ma chi è venuto credo tornerà anche l'anno prossimo e alla fine siamo riusciti a raccogliere 220 fumetti e 10 libri per bambini.
P.P.S. I fumetti spaventosi che ha portato Lelli abbiamo pensato di rifilarli a Rico perché in pediatria han già i loro problemi senza che arriviamo noi a terrorizzargli i bambini.

martedì 20 novembre 2012

Tirar tardi e la nobile arte del fissar scarpe

E' domenica  mattina e ho dormito fino a un orario che è meglio non precisare in caso mia mamma legga questo post e svenga; negli anni dell'adolescenza, a casa nostra chi voleva dormire oltre le 10 la domenica mattina si trovava immancabilmente ad affrontare tutto il casino immaginabile: scale spostate, porte sbattute, nonché la lucidatrice (oggetto ormai vintage) che misteriosamente finiva sempre con lo sbattere contro la porta della camera da letto, quasi si trattasse di una potentissima calamita attira-lucidatrici.
La genitrice in questione potrebbe obbiettare che i lavori son da fare e se uno ha solo la domenica non è che possa aspettare i comodi della bella addormentata di turno; tutto vero e tuttavia la disapprovazione per quelle debosciate che osavano poltrire fino a tardi era a dir poco palpabile.
Ma passiamo sopra questi traumi giovanili e arriviamo al punto. Oggi sono a casa da sola e ho deciso di approfittarne per farmi i pancake, ovviamente non per colazione ma al posto del pranzo; potrei tirarmela e dire che è per il brunch ma è inutile ammantare di forestiero la cruda realtà, oggi si stravizia, punto.
La scelta dei pancake è in effetti un po' obbligata, essendo che ho finito il pane da toast e non l'ho ancora rifatto, lo stesso dicasi del pane normale (è un periodo in cui la voglia di fare non mi appartiene).
Dopo aver divorato i primi quattro pancake, debitamente ammantati di nutella o miele e cannella, mi rendo conto che c'è ancora parecchia pastella nella ciotola, peccato che io non abbia la benché minima intenzione di star lì a cuocere altre frittelle quindi butto tutto sulla piastra, originando un simpatico frisbee pastelloso. Certo che una volta fatto non posso mica buttarlo via (a casa Riluttanza non si butta via niente) quindi mi faccio coraggio e lo attacco con la teoria dei piccoli passi, tagliandone delle fette e, poco a poco, il mostro è sconfitto (in compenso io sono tonfa, digerirò forse dopodomani).

Una volta estratta la prima fetta, guardando il piatto mi son trovata davanti un enorme Pac-Man e il pensiero è inevitabilmente corso allo stimatissimo Signor Croci che nella giornata di ieri ha inaugurato a Bologna lo Spazio Tilt, l'avanguardia di quello che sarà il futuro Museo del Flipper a Bologna.

Le mie performance/aberrazioni culinarie erano accompagnate da una colonna sonora radiofonica, inizialmente Per favore parlate al conducente, seguito da Yes weekend, mentre la parte degustativa era corredata dalla lettura dell'immancabile rivista in cui stamattina si sottolineava l'assoluta imprescindibilità del golfino di cachemire e del tubino nero nel guardaroba di qualsiasi donna. Ops!
Mentre lottavo col Godzilla-pancake in radio si parlava di questo fenomeno musicale degli shoe gazers; la mia prima reazione è stata: chi xxx sono sti shoe gazer? Seguita immediatamente da: certo che non so proprio una mazza! Per fortuna altri ascoltatori condividevano le mie difficoltà quindi i conduttori sono corsi in nostro aiuto, rivelandoci che questi fissatori di scarpe venivano così definiti perché durante il concerto, invece di guardare il pubblico, passavano tutto il tempo a fissarsi i piedi. Forse sarà stata l'influenza della rivista che avevo davanti ma è sorto spontaneo il parallelo con quelle fighine che vanno in giro con l'aria annoiata e il broncio, fingendo di non interessarsi a nulla e a nessuno, convinte sostenitrici del Teorema di Ferradini nel quale un tizio sostiene che più te la tiri e prendi a pesci in faccia il prossimo, più questo prossimo ti desidererà. Cosa non troverebbe in lui un buono psichiatra (cit.).
In realtà basta una rapida occhiata a wikipedia per far luce sul mistero: i signori in questione facevano smodato uso di pedalini (effetti per chitarra) per cui gli toccava guardar sempre per terra onde evitare di pestare il pulsante sbagliato e combinare un casino. In effetti mi è capitato in più di un'occasione di osservare il palco intorno ai musicisti e notare quell'ammasso di cavi e accrocchi vari chiedendomi quanto fosse alto il rischio di rimanere fulminati, soprattutto con tutti quei bicchieri pieni nei paraggi.
Adesso mi viene il dubbio che l'espressione assorta e pensierosa che si nota a volte sul volto del musico di turno non sia da attribuire a chissà quali tormenti esistenziali che gli dilaniano l'essere, bensì al più prosaico sforzo di concentrazione richiesto per ricordare quale maledetto pedalino deve pigiare tra i trenta che ha davanti.
Poi qualcuno dovrà anche spiegarmi come mai, nonostante le infinite possibilità che l'italiano ci offre, non abbiamo trovato di meglio che chiamare sti aggeggi pedalini (non è che pretenda proprio una parola nuova di zecca ma fate almeno uno sforzo, anche solo un passettino: magari pedaletti o pedalozzi); la prima volta che ho sentito Rico parlare di un video tutorial per imparare a usare i pedalini confesso che mi ero un po' preoccupata...


P.S. Consiglio vivamente di dare un’occhiata al video di Teorema per l’accurata e azzeccatissima scelta delle immagini. Come sempre le perle le scopri per caso.
P.P.S. Chissà quali pedalini avranno usato…
P.ecc ecc S. Questo articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press

lunedì 12 novembre 2012

Un toro nel baule dei ricordi

Qualche giorno fa stavo esaminando alcuni appunti presi durante i cinque giorni di campeggio fatti in agosto; rileggendoli con calma mi sono resa conto che non c'è molto da aggiungere, parlano da soli, almeno a giudicare dalle risate che ho sentito mentre li leggevo a voce alta.
Ho deciso quindi di pubblicare gli appunti come mamma li ha fatti, limitandomi a qualche commento, rigorosamente in corsivo, onde preservare l'integrità del testo.
Mi limito a precisare che siamo intorno a Ferragosto e ci troviamo in un campeggio nell'Appennino marchigiano e, proprio sopra di noi, hanno piantato le tende alcuni padri con giovanissima prole al seguito. Le mogli, astutamente, sono rimaste a casa.

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Sono le 23.30, i cinni e soprattutto quei dementi dei loro babbi, dopo aver fatto tutto il casino possibile adesso si raccontano barzellette. Uno dei babbi dementi minaccia di fare una scoreggia. E' una cosa avvilente vedere degli adulti con la maturità psico-intellettuale di una vongola. Pavaiotte (farfalle) ovunque. Alla fine pure l'Angelo di Dio in coro.
Stamattina celestiale rumore di spicchettamento tende. Vasco Rossi a palla poi qualcuno gli avrà detto di abbassare. Finalmente spengono Vasco e dopo un po' uno dice "che pace!"

Mamma che aiuta il figlio a fare i compiti: "se ti sbagli ti do un cazzotto".
Rico beve il caffè nel barattolo dei peperoni ripieni di tonno che conteneva il pesto (fatto in casa) consumato la prima sera. Se vi gira la testa, è comprensibile.
C'è un gruppo di anziani che soggiorna qua tutta l'estate; oggi tagliano un albero secco e gli uomini  si sentono molto virili e dicono donne state indietro che sono emozioni troppo forti per voi. Avrebbe senso se segassero con la sega a mano ma la sega elettrica non è molto virile. Il lavoro palloso, scortecciare il tronco per farci una staccionata, l'han fatto tutto le donne. Campeggio specchio del mondo. Vanno a lavare insieme ma lui se ne sta in piedi e rompe le palle con domande idiote a lei che lava.
A un certo punto tale Corrado si allontana mentre proseguono i lavori e uno gli urla "Corrado! Non siam mica in comune qua, quando si lavora, si lavora!"
Mamma: "Luca smettila! Come ti ho fatto ti distruggo!"
Rico spalma una mosca su pane e nutella .

Andando in macchina a Pennabilli mi trovo dietro una 500 di un indigeno che mi sta attaccata al culo probabilmente xk sa la strada. Ansia. Dietro una curva a gomito trovo un toro e tre mucche in mezzo alla strada.
Mi è venuto un colpo, ho inchiodato e quello della 500 per fortuna ha fatto lo stesso. 
Dopo qualche secondo Rico mi dice: "prova a farli spostare, vai avanti con la macchina!" 
L'ho guardato malissimo, e le corna del toro dove le mettiamo? Va là che, se proprio vuole, il toro se lo sposta lui, io sto in macchina e non fiato. 
E così ho fatto, io fissavo il toro e lui fissava me, i due minuti più lunghi del mondo poi, finalmente, una delle mucche è partita e gli altri le sono andati dietro, toro compreso.
E' stato solo per qualche secondo, però il dubbio della candid camera l'ho avuto.

domenica 4 novembre 2012

Il titolo trovatelo voi, io vado a letto

Questo post è diverso da quelli che ho scritto finora, lo sto scrivendo di getto dalla camera di albergo in cui mi trovo stasera (domani lavoro, ogni tanto tocca).
Devo scrivere, mi serve, ne ho bisogno, è un modo per elaborare magari non i traumi perché non son cose così drammatiche, ma tutto quell'insieme di cose che ti capitano e ti fanno arrivare a fine giornata che ti sembra di aver tutte le ossa rotte, le spalle che scrocchiano indurite dalla tensione, la mandibola rigida, insomma, sono uno straccio.
Ieri pomeriggio ho deciso di partire in treno invece che in auto, principalmente perché mi hanno informato che l'albergo in cui dormirò martedì sera è di fianco alla stazione di Milano Centrale e, non so voi, ma quando io immagino un girone infernale coi suoi bei dannati sparsi tutt'intorno intenti a dannarsi, non è un quadro tanto diverso da quello dellle strade intorno a Milano alle sette di sera.
Il pensiero di dover guidare da Novara fin nel centro di Milano mi faceva coagulare il sangue quindi...a me treno!
Ovviamente quando decidi all'ultimo momento non hai molto da scegliere quindi oggi ho cambiato tre treni, uno più bello dell'altro. Anch'io però ci ho messo del mio: arrivata in stazione a Bologna ho visto che il mio treno per Milano partiva dal binario 3ovest quindi, dopo aver comprato qualche panino, ho seguito le indicazioni lungo il sottopassaggio e dopo aver fatto un giro dell'oca sono approdata davanti a un binario con scritto 3. Tutto regolare, sono salita e mi sono seduta su una panchina per consumare il mio frugale pasto; dopo un po' mi sono resa conto che il panorama di cui godevo mi era molto familiare (strano, ai binari ovest non vado mai...). C'è voluto poco per capire che ero al binario 3 normale, a forza di giri assurdi mi ero persa.
A questo punto è inutile trovare delle attenuanti, non si può dire che ho delle difficoltà di orientamento, che in termini di localizzazione sono diversamente abile, la verità è che sono invornita e quando vado in giro mi dovrebbero dare l'accompagno.
Comunque per fortuna c'era ancora tempo e il treno alla fine l'ho preso.
Seduta dall'altra parte del corridoio c'era una ragazza piena di valigie, incluso un boh, violoncello? nella sua bella custodia che ovviamente teneva il posto di una persona. A tutti quelli che arrivavano lei spiegava, scusandosi, che con il controllore aveva provato a metterlo sul porta pacchi ma non ci stava e quindi... A un certo punto è arrivata una signora, o meglio, una viaggiarice, che ha fatto il diavolo a quattro perche questa ragazza occupava troppo posto e ha rotto fino a che è riuscita a sedersi,obbligando la ragazza a tenere lo strumento in piedi nel corridoio dove dava danno a chiunque passasse. A quel punto delle quattro persone sedute nessuna riusciva a muoversi, erano assolutamente incastrate. Tempo un quarto d'ora e l'ineffabile viaggiatrice si alza e chiede di farla passare perché....deve scendere. Giuro, è scesa dopo un quarto d'ora. Gli sguardi increduli si sprecavano, lei però non ha fatto una piega (ma forse quello era il botulino).
L'ultimo treno ha dato il massimo: ero appena salita quando è saltata la corrente, poi è partito, ha fatto dieci metri è si è fermato; dopo un po' è ripartito e poco dopo si è fermato in un luogo isolato, era buio e pioveva, per fortuna non è saltata la corrente altrimenti era da panico.
Insomma alla fine scendo dal treno con trenta minuti di ritardo, fuori diluvia e mi tocca prendere un taxi perché questo benedetto albergo è a casa di dio ma evidentemente nella casa di campagna di dio, quella persa nel nulla. Il tassista mi toglie anche il sangue ma almeno sono finalmente arrivata.
Prendo la chiave della camera e vado verso l'ascensore, che è uno di quei cosi tutti in metallo con le porte in metallo degli anni sessanta che si vede che in quegli anni non c'era la claustrofobia perché è piccolissimo, ci sto io con la valigia e basta. Arrivo in camera e la camera è come l'ascensore ma non importa mi dico, ci devo solo dormire un paio di notti.
Però
Però
Disfo la valigia e apro l'armadio per sistemare i vestiti: non c'è un appendino per i pantaloni, ci sono sei grucce ma nessuna ha la barra orizzontale per i pantaloni, per cui i pantaloni finiscono sulla sedia, se domani qualcuno nota le pieghe, diro che è il nuovo effetto crease.
Il cellulare è scarico quindi tiro fuori il caricatore e cerco una presa; non ci vuole molto a scoprire che l'unica presa in tutta la camera è in bagno quindi mi rassegno e telefono a Rico seduta sul water. Per fortuna il cavo di alimentazione del pc mi pernmette di arrivare almeno al letto, altrimenti anche questo post l'avrei scritto sul water.
Al telefono mi sono beccata un cazziatone da Rico perché per cena questa sera ho comprato solo cracker, fonzies e m&ms in stazione; in effetti non è una gran cena quindi guardo tra le informazioni dell'albergo per vedere gli orari del ristorante, potrei mangiare un'insalata...peccato che per misteriose ragioni il ristorante sia aperto solo dal lunedì al giovedì e oggi sia domenica. Vabbè, vediamo cosa c'è nel minibar. Apro lo sportellino e, a questo punto, mi aspetto perlomeno che il frigo sia vuoto ma invece non c'è neanche il frigo, c'è il vuoto e poi il muro, come se qualcuno si fosse fregato il frigobar.

Credo di non aver dimenticato niente, adesso scusate ma vado a letto, è stata una giornata intensa.


martedì 30 ottobre 2012

La vita non è tutta Gioia e tutù

Per la prima volta in non so mai quanto tempo ho partecipato a un incontro organizzato dall'amministrazione comunale per presentare ai cittadini (sottolineo ai cittadini) alcuni progetti di riqualificazione del centro.
C'è stato un po' di tutto, dal tipo che si alza per fare un commento e urla per dieci minuti esatti, al sindaco che conclude il suo intervento con "Buona visione a tutti" facendo un po' l'effetto di una Signorina Buonasera della Rai, fino a quelli che, sicuramente per risultare più comprensibili a noi semplici cittadini, ci hanno sommerso di project financing e collettare gli scarichi, il tutto abbondantemente condito con generose dosi di  fondamentalmente quant'altro e puntatine di piuttosto che usato alla come capita.
La cosa più apprezzata della serata è stata il timer (saggiamente impostato sui dieci minuti) che allo scadere del tempo faceva suonare un gong a tutto volume; almeno sapevi che qualunque cosa ti riservasse l'amaro destino non sarebbe durata più di dieci minuti.
Nel corso della serata mi sono ritrovata più volte a riflettere su quanto sia spaventoso trovarsi costretti a parlare di fronte a un pubblico: tutta sta gente che se ne sta lì e ti fissa come se si aspettasse di vederti fare qualche gioco di prestigio, magari camminare sui trampoli o fare piroette, roba da fare venire la pelle d'oca anche a Terminator.
Mi è tornato in mente un episodio di Seinfeld in cui il comico americano, in uno dei suoi monologhi, aveva citato un sondaggio che indagava le più grandi paure dei cittadini americani: pare che al primo posto ci fosse proprio il dover parlare in pubblico. Al secondo posto c'era la morte. Non scherzo, la morte veniva dopo.
Ovvio che ognuno di noi trova un suo modo di gestire le situazioni stressanti; ho sentito consigliare le soluzioni più inverosimili, per esempio immaginarsi il pubblico nudo, sperando di ridurre la soggezione che si prova di fronte alla folla.
Evidentemente il saggio in questione non aveva mai considerato che ci sono cose che nessuno dovrebbe mai vedere, neppure immaginare, scene che rischiano di  restarti scolpite nel cervello e poi perseguitarti per tutta la vita.
A questo proposito ricordo un cenone di capodanno in cui un'attempata signora americana non proprio filiforme si presentò in sala con un abito con bustino e gonna di tulle, stile ballerina della Scala; trattandosi della sera di San Silvestro, momento che pare autorizzare le più agghiaccianti nefandezze stilistiche, mi dissi che tutto sommato poteva andare peggio. A ripensarci adesso direi che no, non poteva. Mentre l'aspirante ballerina chiacchierava amabilmente con il marito, il caso volle che le cadesse di mano qualcosa, non so cosa ma doveva essere importante poiché ella si affrettò a chinarsi per raccoglierlo; peccato che, insieme al busto, dimenticò di piegare le ginocchia e la gonna tullosa si sollevò completamente, rivelando che sotto il vestito la signora non portava le mutande bensì un PERIZOMA. Ripeto, un PERIZOMA.
Nonostante siano passati anni, ci sono giorni in cui la mia mente abbassa la guardia per un istante e quell'immagine si ripresenta in tutto il suo orrore. E' successo proprio oggi, mentre scrivevo questo post.

Ma torniamo al tema in questione; come stavo dicendo, parlare in pubblico non è facile, lo è ancora meno se qualche genio decide di illuminare il podio con un faro da un milione di watt puntato direttamente sul relatore, il quale può scegliere se guardare la platea e farsi cuocere la faccia/bruciare le retine, oppure fregarsene delle buone maniere e voltare le spalle al pubblico (in quel caso si consiglia di indossare indumenti di colore chiaro, onde evitare agli intervenuti la triste visione di una giacca innevata di forfora).
Intrappolato in un ambiente ostile, il povero relatore cerca disperatamente una via d'uscita onorevole; le convenzioni sociali gli impediscono di darsi semplicemente alla fuga, essendo che teme il giudizio del pubblico (poi se ti lanci di corsa verso l'uscita c'è il rischio che qualche bastardo stenda una gamba e tu finisca steso a pelle d'orso sul pavimento e con inevitabile foto dilangante sui media il giorno dopo), quindi si butta sulla velocità e inizia a parlare a un ritmo talmente frenetico da farti venire il dubbio che sia in realtà un androide, almeno fino a quando non inizia impappinarsi ogni tre per due, risultando largamente incomprensibile. È evidente che quel fascio di nervi in completo a giacca spera semplicemente di uscire quanto prima dal nero tunnel, cosa tutto sommato comprensibile e accettabile, eccetto per coloro che a) dovranno poi commentare l'intervento, b) magari devono tradurlo in altra lingua.

Quanto detto finora ha lo scopo di dimostrare che sono consapevole delle difficoltà che il relatore medio deve affrontare; ciononostante, malgrado ciò, tuttavia, insomma:

mi sono rotta gli zebedei di tutta sta gente che al momento di pronunciare il suo discorso, tira fuori un malloppo di fogli e, senza mai alzare gli occhi verso il pubblico, si limita a leggere un testo scritto, ovviamente con il trasporto di Trenitalia che annuncia l'ennesimo ritardo dell'Eurostar.
Gioia, a questo punto tanto valeva mandarmi il file per posta elettronica, potevo leggerlo comodamente a casa mia, stesa sul divano con una copertina sulle ginocchia, cosa son venuta a fare qua?


lunedì 15 ottobre 2012

Pennuto e pregiudizio

Son momenti difficili quando ti trovi faccia a faccia con i tuoi pregiudizi, quelli di cui proprio non ti eri accorta e che invece adesso se ne stanno lì davanti a te e fanno la ruota come i pavoni.
In questo caso specifico la verità mi ha colpito violentemente qualche settimana fa nella sala di attesa del dottore dove attendevo appunto il mio turno; onde distrarmi dalle solari conversazioni che generalmente nascono in questi luoghi ameni e che spesso ricordano la lista delle controindicazioni dei peggiori farmaci (exitus prima o poi viene fuori), ho preso una rivista dalla pila d'ordinanza sul tavolino d'angolo. Purtroppo non c'era Cronaca Vera, un capolavoro che generalmente garantisce smodate quantità di buonumore, rigorosamente in bianco e nero, però ho trovato un Men's Health e mossa da non so quale impulso ho scelto proprio quello.
Parliamo adesso del pregiudizio in questione: io di solito le riviste per uomini (quelle tipo Men's Health, GQ ecc) non le prendo neanche in considerazione perché solo a leggere la copertina la noia mi attanaglia.
Mettetevi un po' nei miei panni: io e il calcio abitiamo universi paralleli che mai s'incontrano, per me le automobili sono degne di nota solo in quanto mezzi che ti portano dal punto A al punto B e, ciliegina sulla torta, i gadget tecnologici mi danno sonnolenza.
Quella mattina invece, per un motivo che per ora mi sfugge, ho deviato dal mio solito percorso e, come a volte accade in queste situazioni, ho scoperto un tesoro.
Dopo le solite inevitabili duemila pagine di pubblicità, ho raggiunto una pagina contrassegnata in alto dalla scritta SALUTE. Il titolo del pezzo era Sterilizza la tua cucina e ho iniziato a leggerlo aspettandomi una lista di consigli su come pulire la cucina; in effetti di consigli ce n'erano, peccato che fossero su come neutralizzare l'invasione di batteri quando ti cimenti con una ricetta di pollo. Evidentemente l'autore riteneva che il lettore medio di MH potesse essere avvicinato al concetto di preparazione del cibo solo presentando il compito in una veste più maschia e virile, e ha optato per l'opzione epica lotta contro un terribile nemico: salmonella e company. Un po' CSI un po' La Cosa di Carpenter.
Nell'articolo leggiamo infatti che si sconsiglia di pulire il pennuto nel lavello in quanto lavare lì la carcassa può contaminare il lavandino; inoltre, si raccomanda di insaponare a lungo le mani come fanno gli anatomopatologi e usare cautela nell'utilizzo del termometro da carne, onde evitare di contaminare la scena.
Purtroppo è passato parecchio tempo da questo mio tête-à-tête con MH, per cui l'unico supporto per la mia ormai traballante memoria è la foto che astutamente decisi di scattare quel giorno a imperitura memoria del fatto e, sfortunatamente, la parte a destra dell'immagine è tagliata per cui non posso affermare con assoluta certezza che nel riquadro in giallo ci fosse proprio scritto Vittima - IL POLLO, però il sospetto è forte.

Proseguendo la lettura di questo piccolo capolavoro sono arrivata a un'altra illuminante rubrica: la ragazza della porta accanto. Tra le lettere inviate dai lettori spicca quella di Franco da Cremona che chiede se sia vero che più è piccolo il bikini, più lei si scatena a letto.
Non so bene cosa augurarmi: se che Franco da Cremona sia un giornalista di MH che affronta in modo creativo la penuria di corrispondenza da parte dei lettori, oppure che, in caso così non fosse, un bravo professionista (magari lettore della rivista) sia accorso in aiuto del buon Franco.

Concludo con un trafiletto a fondo pagina in cui si informavano i signori uomini che, secondo un sondaggio, il 30% delle donne ritiene poco sexy in un uomo parlare al cellulare con quella specie di accrocco di plastica infilato nell'orecchio. Resta la curiosità di sapere cosa abbia risposto il restante 70%:
a) lo trovo molto sexy
b) esticazzi.

Alla fine della fiera ho dovuto affrontare la dura realtà: le riviste femminili possono forse vantare ancora la prima posizione in fatto di quantitativo di stupidaggini per numero pubblicato, però sconsiglierei alle campionesse in carica di riposare sugli allori. Nuovi agguerriti contendenti si profilano all'orizzonte pronti a scalzare la regina dal suo trono.
Un nuovo meraviglioso passo avanti verso la parità tra i sessi.

venerdì 5 ottobre 2012

Chicchi di riso, stoviglie e qualche rimpianto

La domenica che vado a raccontare è iniziata presto ed è stata intensa; ero a Perugia per un lavoro che fortunatamente si è concluso all’ora di pranzo, permettendomi di saltare in macchina e puntare immediatamente verso casa. Due ore e mezza dopo ho varcato l’agognata soglia, proprio in tempo per vedere Farnedi che partiva per andare a suonare: sembravamo quei lottatori di catch che si danno il cambio sul ring (un momento di raccoglimento per l’indimenticato Abdullah the Butcher).
In realtà, più che un lottatore di catch, avevo lo stato d’animo di un tecnico del team Ferrari all’approssimarsi del pit-stop: avevo un’ora per pranzare (o fare merenda, dato l’orario), farmi una doccia, darmi una sistemata e farmi trovare pronta per le 16.15, quando un manipolo di coraggiosi si sarebbe presentato dinnanzi alla mia porta in tenuta da gita della domenica pomeriggio. Respirare era opzionale.
Quando il campanello è suonato stavo ancora mettendo le ultime cose in borsa (il tempo incerto mi obbligava all’equipaggiamento misto inclusi mantella di lana e ombrello), mi sono infilata le scarpe e sono uscita di corsa.
In effetti sapevo che era arrivato qualcuno ben prima di sentire il campanello, il cane dei miei vicini aveva dato fiato alle trombe con un entusiasmo tale che una persona con meno esperienza avrebbe temuto di trovarsi Nosferatu davanti alla porta. Io invece ho imparato col tempo che Ugo (il cane in questione) abbaia come un forsennato contro qualunque cosa si muova, non so se per compensare il fatto che starebbe comodamente in un moon-boot, o semplicemente perché gli scoccia di essere l’unico segregato in giardino mentre tutta sta gente se la spassa in giro per il mondo.
Fuori dalla porta mi aspettavano l’Ale e l’Albertini con cui mi sono lanciata in un resoconto delle mie ultime disavventure lavorative in attesa dell’arrivo di Mr & Mrs Gasperoni-Piraccini, i quali però sono arrivati parecchio più tardi, beccandosi l’inevitabile cazziatone e tentando di imputare  il ritardo a vecchietti con cappello che guidavano senza mai mettere la terza.
Una volta riunito il team al completo, ci siamo organizzati: Lorenzo ha offerto la sua macchina che essendo gigante ci teneva tutti comodamente, con l’aggiunto vantaggio di avere nel portabagagli un utile indumento parapioggia per quelli sprovvisti di ombrello: le mantelline di plastica superleggere che avevano utilizzato in viaggio di nozze per la visita alle cascate del Niagara.
Tutta questa fase di preparazione potrebbe far pensare a un trekking sul Cervino o un’esplorazione della giungla del Borneo; invece si trattava semplicemente di arrivare in quel di Montegiardino, comune sito nella Repubblica di San Marino (sempre estero ma senza anaconde o crepacci) dove era in programma il festival Artisti in casa: alcuni artisti, ciascuno all’interno di una piccola casa lungo le mura del centro storico, si esibivano per brevi concerti e ogni trenta minuti il pubblico si spostava da una casa all’altra, passando magari dal country blues alle canzoni degli anni 30.
Trovare il posto è stato facile, soprattutto grazie a Lorenzo e l’Ale che sono pratici della zona, il difficile è stato trovar da parcheggiare, non solo perché il luogo è piccolo e c’era già tanta gente (leggi auto) ma anche perché la Gasperoni-mobile non è fatta in economia e ci costringeva a una difficile scelta:
a) rassegnarci a vedere la macchina protrudere eccessivamente verso l’esterno, con il conseguente rischio sfracellamento specchietto,
b) tentare di accostarla il più possibile a bordo strada, rischiando però di vederla precipitare insieme all’autista giù per la scarpata.
Il temerario autista ha optato per la busta b e gli è andata bene.
Una volta arrivati al chiosco-cassa (nel frattempo ci avevano raggiunto anche la Clodia e Tommasoni), abbiamo appreso che l’organizzazione permetteva ai partecipanti di scegliere fra tre biglietti d’ingresso:
Biglietto asceta: pagando 8 euri potevi entrare nel borghetto e assistere a tutti gli spettacoli che volevi,
Biglietto essere umano medio: pagandone 10, oltre a tutti gli spettacoli, aggiungevi tre degustazioni di vino con il calice in omaggio,
Biglietto Bidone Aspiratutto: scucendo 15 euri ti promettevano una porzione di polenta con la salsiccia, un misto di salumi e formaggi tipici della zona e, per dessert, una fetta di pane con miele o la torta di San Marino.
Neanche a dirlo, nessuno di noi ha avuto la minima esitazione, abbiamo pagato i nostri 15 euri  ricevendone in cambio un vagone di tagliandini, un bicchiere e una borsina porta bicchiere da appendere al collo (faceva un po’ mucca al pascolo ma pazienza). Una volta dentro, ci siamo buttati sul primo banchetto degustazione per rimetterci in forze  e, con rinnovato vigore, siamo partiti alla ricerca di Casa Farnedi. Sì, perché uno dei dieci artisti ospiti nelle casine era proprio Farnedi; quando l’abbiamo raggiunto aveva già provveduto a decorare il cartello d’ingresso con disegni di animali vari e aveva sparso per la stanza al pianterreno biscotti secchi e caramelle gommose (oltre a un numero n di ukuleli) da offrire ai suoi ospiti. Non l’avremmo più rivisto fino alle 23 (termine delle performance accasate), da una parte perché la sua casina strabordava sempre di gente, dall’altra perché avendolo noi visto una marea di volte, volevamo sentire qualcosa di nuovo.
Volevamo e ci siamo riusciti: nella casina numero 7, su consiglio di Ale Monogawa, abbiamo assistito a una performance di musica pop da cucina in cui gli unici strumenti erano appunto pentole, piattini, carta stagnola, imbuti e così via; un’atmosfera magica, anche un po’ giapponese. Presentazione di una delle canzoni eseguite: tanti piccoli chicchi di riso che sorridono felici. Magico, appunto, con un tocco giapponese.
La casa numero 5 ospitava invece The Sgirlies, un duo femminile che proponeva teatro/canzoni degli anni 30-40.
Entrare è stata una vera impresa, un po’ come quando a Bologna tenti di salire sul regionale per Rimini il venerdì pomeriggio: non c’è posto per gli scrupoli, si calpestano bambini e si gambizzano nonne senza alcuna pietà. La pietà è per quelli che restano sul binario.
In questo caso la nostra spietatezza ha dato i suoi frutti e sono riuscita a sedermi su una poltrona, ero un po’ laterale ma almeno i miei piedi, reduci da mezz’ora in piedi in un’altra casa, potevano finalmente tirare il fiato.
Lo spettacolo comico delle Sgirlies mi è piaciuto assai: teatro e canzoni (tutte a cappella) da Baciami piccina Però mi vuole bene , per citare alcune di quelle che ho riconosciuto (molte non le avevo mai sentite), il tutto con una recitazione dal ritmo perfetto e molto divertente. Saremmo rimasti lì ancora molto ma era l’ultimo concerto della serata quindi le due artiste, dopo l’ennesimo bis, ci hanno cortesemente ma implacabilmente buttato fuori.
A quel punto, in attesa del concerto dei Bevitori Longevi, siamo passati a trovare Farnedi che stava raccogliendo baracca e ukuleli e ci siamo fermati a fare due chiacchiere; prendendo in mano uno dei sette ukuleli presenti mi è venuta voglia di suonare qualcosa, mi sono fatta coraggio e ho chiesto al popolo (eravamo praticamente solo noi) se volevano sentire una canzone, ovviamente coi miei modesti mezzi. Il popolo mi ha incoraggiato ed ero proprio sul punto di lanciarmi quando sono entrati in casa due sconosciuti, oltretutto musicisti, a salutare il collega. Ma porcaccia miseria! Già per me era una roba enorme suonare qualcosa in pubblico (anche se pubblico di amici), figuriamoci se potevo suonare davanti a estranei, per giunta musici. Per un po’ ho sperato che levassero le tende ma, sentendo che parlavano di strumenti, mi sono rassegnata all’evidenza: non li avremmo schiodati di lì neanche coi panzer.
Ormai la serata volgeva al termine ed eravamo tutti parecchio stanchi: dopo un ultimo sguardo alla piazza dove i Bevitori Longevi erano in pieno concerto, abbiamo salutato gli irriducibili e siamo tornati alla macchina, con la testa piena di stoviglie, chicchi di riso e, sì, anche qualche rimpianto.


P.S. Qui sotto trovate un video delle Sgirlies, per chi volesse farsi un’idea più precisa…

P.S. Questo articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press


martedì 25 settembre 2012

L'orto del vicino è sempre più verde

Non so se sia per la pioggia battente che qualche giorno fa sembrava volermi entrare in casa ma mi rendo improvvisamente conto che siamo arrivati a fine estate, quello che molti considerano il vero inizio dell'anno, il momento giusto per lanciarsi in riflessioni e fare un quadro dei mesi appena trascorsi; prima però di dare un'occhiata alle mie imprese estive, facciamo un po' di storia e torniamo al momento in cui dette imprese hanno visto la luce.
L'anno scorso la mia vicina di casa che fa la maestra mi ha comunicato che a scuola stavano portando avanti un progetto di autofinanziamento per pagare l'adozione a distanza di un bambino; il progetto consisteva nel piantare dei semi di piante da orto e poi vendere le piantine ottenute ad amici e conoscenti.
Trattandosi di nobile intento e verde progetto, ho voluto dare un segnale d'incoraggiamento offrendomi di acquistare qualche piantina; fino a quel giorno non avevo mai seriamente pensato di coltivare pomodori o cetrioli in terrazzo (ho parecchie aromatiche ma niente di più), però più ci pensavo più l'idea mi divertiva. Avevo un paio di vasi capienti e ne ho acquistato un terzo con il relativo terriccio; so che ci vorrebbe un mix di terreno ultraspecifico ma quella era la prima volta, non volevo scoraggiarmi ancora prima di partire quindi ho usato del terriccio classico e sul fondo invece delle palline di argilla ho sparso uno strato di tappi di sughero che conservavo in uno scatolone e che a mio avviso avrebbero fatto lo stesso servizio (riciclo, riciclo e ancora riciclo).
Quando finalmente mi sono arrivate le creature (avevo ordinato pomodori, cetrioli e zucchine) le ho divise nei vasi (andando un po' a naso, le foglie uguali insieme) e per un po' è andato tutto bene, le piantine crescevano rigogliose e io ero una fierissima coltivatrice ma, ovviamente, non poteva durare.

La mia pianta di cetrioli mi ha dato la prima soddisfazione con un'abbondante fioritura e dopo un po' sono comparsi qua e là parecchi robi bislunghi e verdi. I cetrioli! - ho pensato e li ho fatti vedere a Rico dispensando vagoni di orgoglio verde; poi, una mattina, osservando le piante mi sono accorta che uno dei cetrioli era inspiegabilmente diventato...rosso! Dopo un primo momento di sgomento mi sono ripresa e ho affrontato la crudele realtà: la mia vicina mi aveva rifilato dei peperoncini cornetti al posto dei cetrioli! L'ho detto a Rico e il maledetto è ancora là che se la ride. Sul fatto che non distinguo una pianta di cetrioli da una di peperoni preferisco sorvolare.
Comunque, tutto considerato a noi il piccante piace e il peperone pure quindi le cose non sono andate poi male, soprattutto considerando che la pianta è sopravvissuta all'inverno (ovviamente in casa), tornando a fiorire e a produrre anche quest'anno.
Per quanto riguarda le altre piante, anche loro hanno avuto una vita difficile: i pomodori sono stati scelti come luogo preferito dal gatto dei vicini per stendersi e fare i comodi suoi per cui, anche una volta recintato il vaso, erano talmente provati che hanno prodotto giusto un paio di pomodori (vedi foto), buoni finché vuoi ma...

E arriviamo all'esperienza più dolorosa, quella con le zucchine: avendo specificato che le avrei coltivate in terrazzo, immaginavo che la vicina mi avrebbe dato una di quelle piante di zucchine che son fatte tipo un caspo, invece mi ha rifilato una pianta che si è poi rivelata strisciante, per cui mi sono trovata con chilometri di pianta di zucchina che non sapevo più dove mettere (il balcone prima o poi finisce) e che s'invrucchiava su se stessa, diventando sempre più una selva impenetrabile.
I miei sforzi però sono stati ripagati dalla comparsa un bel giorno di una zucchina; la guardavo crescere con meraviglia e devozione, l'avrei anche accarezzata ma temevo di essere vista dai vicini e internata seduta stante. Sfortunatamente, qualche giorno dopo sono comparse strane macchie bianche sulle foglie e girando su internet alla ricerca di spiegazioni mi è sembrato di capire che trattavasi di roba incurabile per cui l'unica soluzione era tagliare le foglie incriminate sperando di evitare la diffusione del morbo.
Dato l'invrucchiamento della pianta, ormai convertitasi in un ammasso inestricabile, la diffusione del contagio era quasi inevitabile ma ho voluto almeno tentare: ho preso le forbici per eliminare le foglie infette e mi sono data da fare, sfoltendo a destra e a manca; le foglie ammorbate cadevano a un ritmo impressionante e, finito il primo trattamento, ogni giorno controllavo attentamente nell'eventualità di nuovi casi; proprio in uno di questi interventi, confusa dall'invrucchiamento della pianta e preda del sacro fuoco della potatura, ho inavvertitamente tagliato il ramo che nutriva proprio la mia zucchina, non ancora del tutto cresciuta. Non vi dico il dispiacere. Adesso, ripensandoci, la comicità della cosa salta prepotentemente agli occhi ma in quel momento...
Mi accorgo che rivivere il trauma mi ha causato una grande spossatezza, quindi per ora mi congedo (devo anche andare a lavorare, tra l'altro). Di tutto il resto (ce n'è ancora, c'è tutta l'estate 2012) parleremo nel prossimo post...
Però non è giusto, uffa!

martedì 18 settembre 2012

Lacrime contemporanee in una residenza d'epoca

Sono appena tornata in camera dopo uno di quei pranzi di rappresentanza che sembrano non finire mai, pare che avrò un paio d'ore d'inattesa pausa e ho intenzione di godermele tutte. Sono in uno di quei posti con arredamento d'epoca e come sempre mi diverte notare le assurdità della decorazione d'interni. Facciamo un esempio: in bagno c'è un cartellino in quattro lingue che ti suggerisce utili accorgimenti x risparmiare acqua (chiudere l'acqua mentre ti lavi i denti, t'insaponi ecc) e il cartello si trova proprio accanto ai rubinetti old style (rigorosamente dorati e separati, senza miscelatore) che ti costringono a sprecare ettolitri d'acqua per trovare una temperatura che ti permetta di farti un bidè senza bollirti le pudenda.
Le cose non si mettono meglio nella doccia che ha un pomello degno del Nautilus (vedi foto) col quale ovviamente l'ustione è inevitabile (non riuscendo a capire quale delle leve aprisse l'acqua e quale fosse quella del caldo/freddo ho girato la prima a caso e mi son beccata una doccia gelata).
Nel caso poi, da vera debosciata, volessi stenderti sul letto e guardare la televisione, questo orrore moderno è astutamente  nascosto in una credenza lignea per non inquinare l'atmosfera old style di cui sopra; peccato che, date le limitazioni spaziali imposte dal mobile, sia una tv bonsai (anche un po' old style, per la verità) che dal tuo letto, laggiù lontano, riesci a vedere soltanto strizzando gli occhi e accelerando quindi la formazione delle zampe di gallina intorno agli occhi, diventando anche tu, a tua volta, un po' più old style.
Ammetto però che, nonostante queste piccole pecche, la camera è bella e spaziosa, il letto comodo ecc ecc. per cui ringrazi il cielo (si son viste cose molto brutte negli anni) e sei felice.
Poi però ti telefona l'Elena che è appena entrata nella sua camera e ti dice che l'hanno messa all'ultimo piano in una camera meravigliosa col soffito con le travi a vista (scopriremo in seguito che trattasi della junior suite); all'inizio la descrizione non ti colpisce più di tanto, sì ha la cabina armadio ma tanto in valigia hai tre vestiti in croce, non è fondamentale, sì c'è la doccia separata dalla vasca e quindi non rischia di scivolare sul pavimento inclinato della vasca mentre fa la doccia ma tanto farai solo un paio di docce, puoi sopravvivere. E' solo quando ti rivela che in camera ha il bollitore, con tazze e selezione di tè diversi, che proprio non riesci a trattenere un singhiozzo e la immagini con invidia mentre sorbisce un tè seduta in poltrona. La cosa diventa ancora più drammatica quando la raggiungi in camera sua e scopri che ha due finestre che danno sul giardino e la puoi quasi vedere, seduta davanti alla finestra con la tazzina in mano e un raggio di sole che la illumina.
Fortunatamente, proprio quando sei sul punto di scopppiare in singhiozzi di fronte alla matrignità della Vita, ti torna in mente quell'albergo di Como in cui sei finita in una sera d'autunno, quello col lettino di metallo da vacanza in colonia e la sopracoperta arancione col buco, quello in cui la porta d'ingresso della stanza era a tutti gli effetti una porta antipanico.
Con quella stanza ancora viva in mente ti guardi intorno e lo devi ammettere: qua è tutto grasso che cola, in fondo anche la Vita potrà avere le sue favorite, no?

venerdì 7 settembre 2012

Zeppa, zeppa delle mie brame

L'altra sera ho deciso di vivere pericolosamente e mi son messa le zeppe. Badate, non un paio di zeppe da qualche centimetro, stavolta ho calato l'asso di briscola con un paio di zeppe da 10 cm, per giunta rosse.
Tutto è nato da una battuta di Rico sul fatto che ho la scarpiera piena di zeppe altissime che non metto praticamente mai da cui si evince che a me le zeppe piace solo guardarle; devo ammettere che la scarpa in sè mi attrae per cui la compro (solo e rigorosamente zeppa, il tacco a spillo non lo prendo neanche in considerazione), poi però misteriosamente non trovo mai occasione per metterla e la poverina si ritrova sola e abbandonata nella scarpiera, dove l'unica consolazione le deriva dalla compagnia di altre zeppe nella stessa, tristissima situazione.
Il fatto è che, per dire pane al pane e vino al vino, i tacchi sono maledettamente scomodi (quelle che sostengono il contrario sono le stesse secondo cui il perizoma - notoriamente un filo in mezzo alle chiappe - è molto comodo), per cui trovo sempre un paio di sandali alternativi che, guarda caso, vanno a pennello con quello che indosso.
Quella sera avevamo in programma una mangiata di pizza in collina e, potendo prevedere che un 80% del tempo l'avrei passato seduta, ho chiuso gli occhi e mi sono buttata.
La mia cautela nell'utilizzo di queste protesi è dovuta a un trauma giovanile, un matrimonio di tanti anni fa per il quale commisi l'errore madornale di indossare delle scarpe con un tacco stellare, nonostante dovessi stare fuori tutto il giorno. Era ormai sera inoltrata, c'era musica molto bella e tutti ballavano divertendosi da matti, tutti tranne la sottoscritta i cui piedi, dopo ore e ore sulle punte, versavano in condizioni disperate. Ricordo perfettamente la frustrazione (e il male ai piedi); da quel momento ho deciso che non mi sarei più auto-sabotata, riservando gli infernali trampoli alle uscite superbrevi.

Una volta calzati i grattacieli (fortunatamente tengo le scarpe in garage, stesso piano della  macchina) ho controllato di non aver dimenticato nulla (chiavi, portafogli ecc, di sopra con quei cosi non si poteva tornare) e sono uscita. Inevitabilmente, una volta aperta la portiera e sbattuti sul sedile borsa e maglia, mi è tornato in mente il fumetto di Orgoglio e pregiudizio che la Clodia mi aveva prestato e che da DUE mesi mi ripromettevo di restituirle. Senso di colpa a valanghe, dovevo tornare a prenderlo. Mi sono girata per correre a recuperarlo, ricordandomi appena in tempo della zeppatura e optando quindi per una serie di passi timidi timidi fino al piano di sopra. L'andata si è conclusa senza incidenti, il vero scoglio è stato la discesa dal primo piano. Il ricordo/trauma della mia recente caduta dalle scale era ancora fresco (un roba brutta, livido lì di dietro per più di due settimane, per fortuna svanito prima della scadenza dell'IMU, altrimenti rischiavo di dover pagare qualcosa), per cui sono scesa tenendomi fermamente al corrimano; il look era un po' da ottuagenaria con protesi all'anca, però sono arrivata giù intera che è quello che conta.
Altro problema non da poco è stato guidare con un piede rialzato di dieci cm: non hai le misure quindi o dai di gas come quelli di Hazzard, oppure la macchina sobbalza un po' e rischia di spegnersi. Mi mancava solo la P sul lunotto posteriore, che due balle.
Ovviamente, il mio look ha destato un certo qual numero di commenti, commenti che si sono fermati a un passo dal popolare la s'è cavèda d'int i straz e solo perché ho degli amici compassionevoli.
Conclusa la cena, mentre la Clodia e Paul (d'ora in poi Tommasoni) tornavano a casa con la nipote cinquenne che aveva sonno, la macchina contenente Mohuro, l'Ale, l'Elisa e Lorenzo ha proposto di andare a bere qualcosa al chiosco; il primo pensiero è stato dovrò parcheggiare a casa di dio e poi farmela a piedi su sti cosi! Seguito a ruota da Vabbè, ho fatto trenta, facciamo trentuno.
In realtà è andata meglio del previsto e in cinque minuti di cammino ero già a destinazione; una volta al chiosco siamo riusciti ad accaparrarci un tavolo e sederci a riposare le stanche membra (podo-gioia); di lì in poi, adottando qualche semplice precauzione (niente cambi bruschi di direzione, mai stare in equilibrio su un piede solo, ecc.) sono riuscita a concludere la serata rimanendo verticale.

L'esperienza è stata un po' stressante ma anche divertente (l'altitudine fa strani scherzi) e mi ha fatto riflettere; mi sono tornate in mente quelle donne tailandesi che si adornano il collo di spirali di metallo per farlo diventare più lungo, le cosiddette donne-giraffa. Ovviamente i tour operator organizzano delle escursioni per visitare i villaggi e fotografare queste donne e ricordo di aver letto commenti feroci da parte di chi sosteneva che non si doveva incoraggiare con il turismo quest'usanza barbara che metteva a rischio la salute delle donne.
Inevitabile il paragone con il racconto di una signora di mia conoscenza che anni fa prese appuntamento con l'ortopedico il quale, dopo averla visitata (non ricordo se il problema era il menisco o l'alluce valgo) commentò: "Ne ha portati di tacchi, vero?"
Paese che vai, usanze che trovi.
Mi è anche venuto il dubbio che forse avevamo ragione io e mia sorella quando alle elementari giocando con Barbie ci rendemmo conto che i suoi piedi non entravano mai bene nelle scarpine che compravamo e, dopo vari tentativi infruttuosi, optammo per una soluzione definitiva tagliandole le dita dei piedi. Magari non erano un gran bel vedere ma le scarpe calzavano che era un piacere! A distanza di qualche decennio, plaudo alla nostra lungimiranza, ho sentito che ci sono donne che si fanno accorciare le dita dei piedi perché così stanno meglio in sandali.

Qualche settimana fa ho letto un'intervista a un noto stilista di scarpe il quale sosteneva che agli uomini piacciono le donne sui tacchi perché danno la sensazione di essere sempre sul punto di cadere, sembrano incerte, insicure e questo scatena nel maschio l'istinto di protezione.  In effetti l'altra sera, mentre camminavo verso il chiosco, non ho potuto fare a meno di pensare che se in quella via poco illuminata qualcuno avesse deciso di rapinarmi/scipparmi ecc, con quei robi ai piedi non sarei mai riuscita a corrergli dietro, sarei rimasta lì come una pipiloca senza poter far nulla; la cosa mi ha fatto sentire indifesa e devo dire che non è stata una bella sensazione.
Mi rendo perfettamente conto del fatto che, con un po' di allenamento (come mi suggerì alle superiori una mia compagna di scuola drogata di tacchi) s'imparano a gestire anche i tacchi più assurdi; però, tutto considerato, dato che fortunatamente agli scaffali alti io ci arrivo, sapete cosa vi dico?
L'istinto di protezione ve lo potete tenere e tanti saluti.