sabato 16 luglio 2011

Mozart in babydoll

Siamo in due, vestite come delle gemelline, siamo sorelle e abbiamo appena tagliato la corda da un matrimonio parenti. Potrebbe essere l’inizio di un film alla Thelma e Louise, se non fosse che 1) a noi nessuno c’insegue, 2) non siamo armate e 3) al momento la nostra sola priorità è arrivare al teatro Alighieri a Ravenna in tempo utile per ritirare un paio di biglietti. 

Facciamo un passo indietro: più o meno in questo periodo è il compleanno di mia sorella e da qualche anno a questa parte come regalo di compleanno compro sempre due biglietti per un musical. Quest’anno il Ravenna Festival mi ha un po’ spiazzato, proponendo Il flauto magico nella sua versione sudafricana “Mozart’s The Magic Flute - Impempe Yomlingo” ma, viste le strepitose performance degli anni precedenti, dopo un breve consulto con la sorella si è deciso di accettare a scatola chiusa.

E adesso siamo qui che ci scapicolliamo per andare da Cesenatico a Ravenna senza stirare pedoni innocenti ma abbastanza dinamicamente da arraffare sti benedetti biglietti prima che abbassino la saracinesca. Mentre la voiture divora la strada, noi si chiacchiera di questo e quello e, tra un questo e due quelli, ci rendiamo conto che non è che abbiamo un’idea proprio precisissima della trama. Con gesto sicuro estraggo il cellulare e mi metto alla ricerca. Wikipedia non delude: schiarisco la voce e inizio a leggere. Per fortuna siamo ancora all’altezza della ruota panoramica di Mirabilandia, perché la storia pare non finire mai e i nomi dei personaggi di sicuro non aiutano; sono certa che nel 1700 fossero comunissimi, del tipo Andrea o Maria, per me invece Papageno, Monostato e compagnia bella non risultano proprio ricordabilissimi. Pamina la lasciamo stare perché quando sei la figlia della Regina della Notte non si può certo pretendere che tu abbia un nome normale. (Mi sovviene una scena di Mr Hobbs va in vacanza in cui una procace bagnante, parlando di Guerra e Pace, sentenzia: con tutti quei nomacci russi non riuscivo a distinguere le femmine dai maschi! A noi va un po’ meglio, i nomi delle femmine finiscono per a.

Probabilmente anche l’autore a suo tempo si è reso conto della difficoltà e infatti a un certo punto ha gettato la spugna, come dimostrano i tre fanciulli che ricorrono nel testo sempre e solo come i tre fanciulli, equivalente settecentesco di quei tre tizi là.

Fortunatamente a Ravenna il sabato sera i parcheggi abbondano (perlomeno in luglio), quindi tutto fila liscio e stringendo in mano con orgoglio i nostri biglietti varchiamo la soglia del foyer giusto qualche minuto prima dell’inizio. Ci tengo a sottolineare che siamo un po’ trafelate e non proprio lucidissime, questo per giustificare il fatto di aver dimenticato la divisione pari/dispari della platea e aver costretto quasi un’intera fila di gente ad alzarsi per arrivare dall’altra parte. Per fortuna era un teatro signorile e nessuno ci ha tirato le uova. Quando finalmente siamo arrivate ai nostri posti, la principessa sul pisello seduta di fianco (l’unico ostacolo rimasto tra noi e le agognate poltrone) non ha reagito bene alla mia gentile richiesta di farci passare, si è alzata con estrema lentezza e con un’espressione piuttosto seccata. Il volgo alza un po’ troppo la testa di questi tempi.
Poi però si sono spente le luci e mi sono dimenticata tutto. Mi sono dimenticata dov’ero, delle corse fatte, della paura di non fare in tempo; c’ero solo io. E c’erano loro. 

Sono stati rari i momenti in cui sono uscita dalla trance in cui la performance ti risucchia. Mi sono trovata a riflettere su questa compagnia in cui pare che tutti facciano tutto, a partire dal giovane direttore in pantaloni e maglietta che ha condotto la parte iniziale in un tripudio di marimbe e tamburi, per poi suonare la tromba e uno strano corno in momenti successivi e infine passare a un marimbone enorme in fondo al palco. Lo stesso hanno fatto altri, passando con naturalezza dagli strumenti al ballo e al canto.
Un altro momento speciale è stato l’entrata in scena dei famosi tre fanciulli, che aspettavamo con una certa curiosità e che non ci ha deluso: sono comparse tre signore rotondette vestite in babydoll e provviste di orsacchiotto e alette d’angelo. 


Per non parlare di Papageno vestito mimetico che balla con Papagena, anch’essa vestita mimetica però in rosa.  In casi come questi non c’è trance che tenga.
Mi chiedo come avrebbe reagito Mozart, si sarebbe spellato le mani? Chissà.

A questo punto, se ne sapessi un po’ di più, potrei parlare delle marimbe e dei tamburi, dei musicisti e delle musiciste che li suonavano, menzionando en passant il nome di quel corno ricurvo che è comparso all’improvviso per poi sparire altrettanto rapidamente. Ma io non ne ho un’idea. Posso dirvi che da quel palco l’energia arrivava a ondate, forti, potenti e gioiosissime, e che a un certo punto mi sono resa conto che già da un po’ avevo gli occhi spalancati e la bocca aperta e ho sperato che non ci fossero telecamere a riprendere la serata, altrimenti sarei finita su qualche video con quella faccia da pipiloca. Ma pur sapendolo, mi è capitato ancora e ancora di scoprirmi a bocca aperta di fronte a quello spettacolo meraviglioso, è stato come avere di nuovo sette anni.
E quando si sono accese le luci, l’ovazione del teatro mi ha fatto pensare che forse, in quelle due ore, di bocche se n’erano aperte parecchie.
Che altro dire: Ravenna Festival, chapeau.



Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

 
P.S. Un’immagine vale mille parole, dicono.





lunedì 11 luglio 2011

Rocca in concerto: partenza col botto.

Sono le 20.10 e sto sfrecciando sul mio bolide a due ruote verso la Rocca Malatestiana; stasera c’è la prima serata di Rocca in Concerto e mi sono offerta come addetta strappamento biglietti ma sono in leggero ritardo. Arrivo su e vedo l’enorme cancellata di ferro, chiusa, con dietro la biglietteria e un paio di persone che armeggiano lì intorno; però (ed è un però grande come una casa), non c’è traccia neanche in lontananza di quello che mi sta più a cuore al momento: il baracchino che vende le piadine farcite. So che non è molto artistico ma io non mangio niente dalle due ed è solo perché sono arrivata in scooter che nessuno ha sentito il brontolio del mio stomaco che pare un cumulonembo sul piede di guerra.
Appoggio armi e bagagli in un angolo della biglietteria (una cavità polverosa scavata nel muro) e con la scusa di andare a cercare un paio di sedie mi lancio in perlustrazione. E in risposta alle mie preghiere mi appare un omino vestito di bianco in piedi tra piadine, affettati e verdure. Sta mangiando con evidente soddisfazione una piadina farcita, probabilmente approfittando degli ultimi momenti di calma prima dell’apertura dei cancelli. Tentenno per un po’, divisa tra l’opzione sana (prosciutto stracchino e rucola) e quella lova (salsiccia e cipolla), poi cedo di schianto e dopo qualche minuto torno tutta pimpante sul posto di lavoro, reggendo in mano una fumante (diciamo anche un po’ ustionante) piadina lova. Sono quasi le 20.30, orario previsto per l’apertura della biglietteria e dietro la cancellata c’è già una nutrita folla ma il gruppo (i Floyd Machine) non ha ancora finito di fare le prove dei suoni e a noi è stato detto di non aprire finché si sente suonare. Certo, è facile da dirsi ma un po’ meno da farsi quando senti su di te le occhiatacce torve del popolo al di là delle sbarre che ti fissa pensando che se non apri è per una qualche tua forma di sadismo. Dietro suggerimento delle più esperte, faccio finta di nulla e continuo a mangiare la mia piadina, pregando che ste benedette prove finiscano prima che la muraglia umana al di là del cancello si scateni in una stampede degna delle migliori. E indovinate di chi sarebbero i corpi a terra tutti calpestati.
Improvvisamente tutto tace, ci arriva il via libera e noi si corre ad aprire, accompagnate da sospiri di sollievo da entrambi i lati della barricata. Da questo momento per le successive due ore la biglietteria sarà letteralmente sommersa da una fiumana di gente arrivata per l’occasione. Io sono l’addetta all’obliterazione biglietto, mentre la Clodia è stata mandata giù in piazza, da dove parte la navetta che porta su la gente che, per vari motivi (alcuni validissimi, altri decisamente meno), farebbe fatica a fare tutto il percorso in salita e sull’acciottolato. Tra questi segnaliamo le solite soggette che vengono a vedere un concerto sul prato della Rocca con zeppe trampolate o addirittura tacchi a spillo. Ho assistito alla scena di una ragazza taccatissima che si è trovata improvvisamente scalza perché una delle sue scarpe era rimasta conficcata nel terreno. E non è neanche venuta fuori tanto facilmente.
Come in ogni evento che si rispetti, c’è stato l’inevitabile contrattempo che andiamo a illustrare:
- essendo che in piazza del popolo proiettano un film all’aperto, l’amministrazione comunale ha deciso un po’ all’ultimo che il concerto alla rocca non poteva cominciare prima delle 22.15, per non disturbare la proiezione. Ovviamente, appena scoperta la cosa, si è provveduto a informare tutti quelli sul Faccione usando la pagina di Rocca in Concerto e poi si è messo l’avviso sui cartelloni. Il problema è che molta gente ha fatto come faccio sempre io, che non guardo mai da nessuna parte, e quando è arrivata lassù (magari senza uso navetta quindi dopo la scarpinata di cui sopra), ha scoperto che si iniziava alle 22.15 e non l’ha presa bene.
Ora, nessuno meglio di me capisce lo stato d’animo di quello che arriva in cima alla vetta sudato fradicio, stanco, assetato e, dopo aver fatto la fila per entrare, scopre che s’inizia più tardi e che quindi poteva anche partire mezzoretta dopo. Io in questi casi avverto un forte bisogno di masticare le ossa di qualcuno; però, quando un tizio se la prende con te, umile strappa biglietti, sostenendo che “potevate anche avvisare”, cominci a farti delle domande: siamo forse veggenti capaci d’indovinare chi verrà al concerto e chiamarlo per avvisare? O secondo lui avremmo dovuto affittare l’aereo pubblicitario del Crodino e passare per ore sopra la città, facendo anche qualche picchiata (non tutti ci vedono a quelle distanze)? O magari gli organizzatori dovevano infischiarsene delle richieste del Comune e far partire il concerto? Salvo poi essere costretti a chiudere baracca e burattini poco dopo causa intervento vigili urbani? Il tema è complesso e gli interrogativi abbondano.
Come pure i dubbi circa la propria e altrui sanità mentale quando, dopo aver strappato un biglietto d’ingresso ti senti chiedere E’ compreso anche il giro? Che giro?! Il giro di do? Il girotondo? Il giro sulla navetta? E come sempre la realtà va oltre: alla tua richiesta di chiarimento ti rispondono Il giro sulle mura! Ti verrebbe da rispondere Come no, con sette euro ti diamo il trasporto in navetta, il concerto, il giro notturno sulle mura e alla fine sull’ultima torre c’è anche uno che ti scaraventa giù. Tutto compreso. Ma ste straccia palle delle buone maniere s’intromettono e ti tocca tacere.

Prima dell’inizio del concerto c’è bisogno di qualcuno che salga sul palco per ringraziare il pubblico, gli sponsor ecc ma, quando la vittima sacrificale di turno (il baldo Enrico) ha accettato il compito, non poteva sapere dello slittamento di orario che il Comune avrebbe imposto e quindi non è proprio con animo serenissimo che sale sul palco. Seguono le inevitabili proteste della folla che però il nostro affronta con sommo sprezzo del pericolo.
Poi, finalmente, il gruppo inizia il concerto e ogni altro pensiero scompare magicamente.
Intorno alle 22.40 l’afflusso di gente si tranquillizza quindi, deposte le armi (nel mio caso l’aggeggio per bucare gli abbonamenti), salgo fino sul prato a vedere come vanno le cose. Un vero spettacolo: centinaia e centinaia di persone, un mare di gente che applaude o canta (quando c’è una di quelle canzoni che non è proprio possibile starsene lì a bocca chiusa).
A quell’ora la stanchezza inizia a farsi sentire quindi insieme ai vari compagni di avventura mi siedo sul prato a godermi il venticello, le stelle e la musica che di bello ha che, se anche non la vedi, lei ti abbraccia comunque. Ce ne stiamo lì sul prato a mangiare un ghiacciolo e a chiacchierare anche quando, finito il concerto, la folla si riversa verso l’uscita e per un attimo il pensiero oddio ci calpestano! fa prepotentemente capolino.
Ci sarei rimasta ancora lassù al fresco, solo noi quattro gatti sul prato; purtroppo però lo spirito è forte ma la stanchezza e il sonno giocano sporco. Ci avviamo verso l’uscita e proprio in quel momento il mistero ci assale: dall’altoparlante una voce proclama: Romi, ho un bacione per te, ripeto, Romi, ho un bacione per te. Dopo, soltanto silenzio.
Cosa volete che vi dica: se questo è l’inizio non oso immaginare  cosa succederà giovedì prossimo.




martedì 5 luglio 2011

Un sabato al fulmicotone, tra cori, strozzapreti e coprispalle dimenticati

E’ mattina presto e nel torpore del dormiveglia avverto uno strano ticchettio. Porcaccia miseria! Piove!
Normalmente, il fatto che in luglio si metta a piovere io lo celebro come la manna, essendo che ho la pressione bassa e il caldo mi prostra, oggi però c’è un però: questo pomeriggio si sposa mio cugino e il voltafaccia meteorologico mi obbliga a un rapido cambio di mise. Il vestito anni ottanta a righe blu e spalla sbilenca, corredato da zeppe trampolate blu, dovrà lasciare il posto a qualcosa di più coprente perché va bene tirarsi a balestra ma, quando si tratta di patire del freddo, io tiro la riga. Un po’ mi dispiace perché sto benedetto vestito l’ho comprato un paio d’anni fa ma non ha mai visto la luce, anche a causa della citata spalla sbilenca che va sempre giù (poverina l’hanno fatta così) e rompe non poco le scatole.

Dopo un rapido esame delle possibilità che offre l’armadio opto per una combinazione vestitino+pantalone già usata in un paio di altri matrimoni con un certo successo, tutto risolto ma un po’ con l’amaro in bocca perché avevo dichiarato pubblicamente la mise e prevedo lamentele.

Lascio come sempre tutto all’ultimo momento e finisco col vestirmi di corsa sperando che mia sorella (che si è offerta di passarmi a prendere) non arrivi troppo presto altrimenti mi trova in mutande. La preoccupazione si rivelerà infondata, essendo la Francesca imbottigliata nel traffico dei vacanzieri che scendono in riviera e che, contrariamente a ogni pronostico, alle tre del pomeriggio di sabato sono ancora lì che scendono.
Quando arriva mi fiondo in macchina e vedo che mi guarda strano; la squadro a mia volta e noto che ha un vestitino di cotone rosa antico, colore quasi identico al mio. I sandali sono neri come i miei ma per fortuna la borsa è diversa. Scoprirò poi che ha portato anche un paio di pantaloni neri (e indovinate cosa indosso io), in caso fosse freddo. Fortunatamente quelli rimangono in macchina ma tra vestito rosa, sandalo e capello corto, sembriamo quelle povere gemelline che i genitori vestono identiche per andare a passeggio.
Una volta superato lo shock-da-vestito-identico ci dirigiamo di buon passo verso Cesenatico (dopo aver caricato un paio di ombrelli per sicurezza) ostentando una certa sicurezza, dato che la chiesa sappiamo bene dov’è. Quello che non sappiamo è che dall’ultima volta che siamo passate da quelle parti sono cresciute case come i funghi dopo il diluvio e per un attimo la cosa ci spiazza, mentre i minuti scorrono inesorabili verso le quattro-zero-zero. Arriviamo finalmente a destinazione, parcheggiamo e corriamo verso la chiesa battendo sul filo di lana la sposa che, essendo la sposa, deve gestire un vestito ingombrante e muoversi con passo dignitoso ed elegante e non può certo scapicollarsi come invece facciamo noi.

Dopo una breve pausa (la mandria umana deve sistemarsi in chiesa) la cerimonia ha inizio e il coro della parrocchia dà subito prova di essere un coro coi controfiocchi, niente a che vedere con certe performance che in passato animavano le funzioni religiose di altre chiese quando tra i quattro gatti del coro cantava anche la sottoscritta. Tra i sacerdoti  presenti sull’altare (una masnada, corredati di nugoli di testimoni) scorgo Don Virgilio e la mente torna a quel famoso Giovedì Santo di mille anni fa quando, dopo una stecca colossale di una delle stars del nostro coro, con conseguente crisi di riso di tutti gli altri e brutale chiusura della canzone a opera della chitarrista (un delicato arpeggio stile sega nastro), il povero don a fine messa scese dall’altare e ci disse:”Avete rovinato la mia canzone preferita”. Il sacerdozio è una strada irta di difficoltà.
Purtroppo, essendo la chiesa piena di gente fino all’orlo, dalla nostra posizione si vedeva ben poco, soprattutto a causa del simpatico padre di famiglia che aveva amorevolmente preso sulle spalle il figlio, trasformandosi in una creatura di due metri e rotti e impedendo la visuale a parecchi dei presenti. Spiace pensare all’alopecia che l’avrà sicuramente colpito a seguito della caterva di accidenti che gli abbiamo mandato. Simpaticamente, ovvio.
Dimenticavo di dire che mentre scendevamo dalla macchina io avevo in mano un coprispalle e, essendo il vestito senza maniche, ho chiesto a mia sorella:” Boh, lo prendo su? Per non andare in chiesa a spalle nude” E lei:”Ma no, non c’è bisogno”. Ovviamente, io appena entrate in chiesa mi do un’occhiata intorno e constato con sgomento che ci sono solo spalle coperte; dopo un primo momento di comprensibile smarrimento però non posso fare a meno di notare che, le spalle sì saranno anche coperte ma ci sono scollature vertiginose a volontà e chilometri di gambe nude che neanche una pubblicità Golden Lady. Tutto regolare, la cosa importante è che le peccaminosissime spalle siano coperte. Mah.

Dopo circa un’ora e venti di messa si comincia ad accusare la fatica. Non aiuta il fatto che siamo solo poco oltre la metà del corposo libretto del matrimonio, la strada è tutta in salita. Lancio uno sguardo pieno di desiderio verso l’uscita e mi accorgo che c’è un folto capannello di gente che sembra aver avuto la mia stessa idea e averla anche messa in pratica. La cosa mi restituisce la speranza. Sì, però noi come facciamo? Siamo sedute su una panca laterale verso la metà della chiesa, non possiamo semplicemente alzarci e andare via. A questo punto la sorella maggiore salva la situazione con un’idea geniale: al momento della comunione ci alziamo in piedi e ci avviamo verso il fondo della chiesa ma invece di metterci in fila per la comunione, guadagniamo l’uscita e la tanto agognata libertà.
Ad attenderci fuori c’è una nutrita schiera di parenti che evidentemente ha dato il collo prima di noi e la cosa mi rincuora. Diversamente da quanto previsto, i commenti nei nostri confronti non sono tanto rivolti ai look-fotocopia, quanto al nostro colorito non proprio ambrato. La Stefania che sfoggia un’abbronzatura degna di luglio, mi guarda i piedi (che in effetti farebbero la loro figura in un obitorio) e sospira “e pensare che da piccola diventavi così nera!” Non posso darle torto, ma è anche vero che a) non amo il sole b) ho lavorato tutto il mese di giugno quindi l’unico modo per sembrare vagamente più abbronzata sarebbe stato vestirmi di bianco neve da capo a piedi e quello ai matrimoni non si può fare, pena la lapidazione, quindi metto subito una pietra sopra a qualsiasi rimpianto e mi rituffo nella chiacchiera.
Il rinfresco si svolge nel cortile della parrocchia dove ci accolgono tavole imbandite di ogni ben di dio (tutto a buffet), musica e panche dove sedersi liberamente, niente posti assegnati o cena ingessata a sedere, una vera gioia.
Il prato è molto grande e quindi non ti rendi conto di quanta gente ci sia se non quando ti dicono che servono i primi e, arrivata al tavolo dei cappelletti al ragù, ti trovi di fronte una fila chilometrica; butti un occhio alla fila di fianco che pare più corta e lasci, non senza qualche rimpianto, i cappelletti per gli strozzapreti. La fila è composta in gran parte da parenti e si chiacchiera in attesa di mettere le mani sullo strozzaprete panna radicchio e salsiccia. Lo zio Massimo tenta un’incursione a inizio fila ma trova un parentado decisamente affamato e poco incline a fare sconti, per cui viene infamato e accusato a gran voce di voler passare avanti. In quel momento la fila pare muoversi piuttosto spedita, grazie alle abili mani di alcune signore che servono piatti di pasta a una velocità smodata; mi sento ottimista quindi azzardo a voce alta un pronostico positivo che viene immediatamente massacrato da mio cugino Luca con un ferale “Tanto quando arriva il nostro turno vedrai che la pasta finisce”. Una gufata coi controfiocchi. Gufata che oltretutto si avvera, costringendoci lì in prima fila a fissare i piatti vuoti in affamata attesa. Ad aggiungere la beffa al danno, il cugino iettatore non lo posso neanche menare come meriterebbe perché finirei sicuramente col prenderle io, a volte la vita è ingiusta.
Fortunatamente, le signore sono rapide come la folgore anche nei rifornimenti e una volta arraffato il mio piatto di strozzapreti, torno sui miei passi e collasso su una delle panche in zona parenti. Le figlie piccole delle mie cugine scorrazzano allegramente tra i tavoli mentre noi si chiacchiera degli esami di maturità (la Cate fa il membro interno e sta soffrendo molto), dei maledetti provider di telefonia che ti fanno aumentare le rughe (salvo poi per la legge del contrappasso imbattersi nella zia Agnese che deve avergli fatto vedere i sorci verdi, almeno a giudicare dalla vagonata di ricariche gratis che le hanno mandato). L’Agnes mi fa notare con disappunto che avevo annunciato tutta un’altra mise e si dichiara delusa dall’ensemble troppo discreto; non mi sento di darle torto, però faccio presente che quando il gioco si fa freddo le fighine iniziano a giocare, io invece mi copro. Non è bello passare metà festa di matrimonio in un bagno sconosciuto e coi foroni.
Siamo lì che ce la passiamo da papi quando, senza volerlo, mi cade un occhio sull’orologio: sono LE OTTO!!!!!!!! AGITAZIONE DI ESTREMITÀ!!!!!!!


Urge chiarimento: quando i miei genitori mi hanno detto che Stefano si sposava e che loro non ci sarebbero stati perché in Sicilia, io avevo appena acquistato due biglietti per Il flauto magico come regalo di compleanno per mia sorella. Ovviamente in tutta un’estate è inevitabile che le uniche due cose a cui non vuoi mancare siano esattamente lo stesso giorno, quindi avevamo deciso di rimanere al matrimonio fino alle sette e mezza per poi correre a Ravenna. Peccato che fossero già le otto. Ci siamo alzate un po’ di corsa e, salutati tutti quelli che si trovavano a portata di voce, siamo corse verso la macchina. Purtroppo gli sposi erano ancora tra le grinfie del fotografo e quindi non siamo riusciti a salutarli.
Siamo andati via con un po’ di rimpianto, non capita spesso che il clan si riunisca così numeroso e ci sono un sacco di persone con cui non siamo riuscite a scambiare più di quattro parole.
In più non c’è stato il tempo di scoprire quale fosse la macchina del babbo-con-bambino-in-spalla, una rigatina lì ci sarebbe stata bene. Ma, correndo il rischio di non arrivare in tempo a teatro, la vendetta è passata in secondo piano, siamo balzate in macchina e via verso nuove avventure, o meglio, via verso Ravenna, il teatro, le marimbe e gli umidificatori, ma di questo parleremo la prossima volta (come dicevano sempre in Heidi).