lunedì 28 gennaio 2013

Quei giorni un po' così con quella faccia un po' così

Ci sono quei giorni che iniziano un po' così. Non sono quei giorni "no" in cui vorresti tornare a letto, però c'è qualcosa nell'aria che non ti convince, ti aspetti il disastro in ogni momento e quando non succede ne sei quasi delusa perché, se almeno fosse successo, ti saresti messa l'animo in pace e goduta il resto della giornata e invece...

La giornata di cui parlo è stata domenica 20 gennaio; sulla carta doveva essere una domenica normale, forse addirittura un po' sprint perché finalmente eravamo riusciti a trovare un giorno in cui andare a pranzo al Cohiba con la tribù Farnedi, cosa affatto semplice. In origine questo pranzo sarebbe dovuto essere il pranzo della vigilia di Natale ma immaginate lo sconforto (e l'incredulità) quando al telefono ci hanno detto che proprio il 24 dicembre il ristorante chiudeva per ferie. Hai un ristorante e chiudi per ferie proprio sotto le feste? Ma allora non ti vuoi bene!
Questo era quindi il secondo tentativo e tutto stava andando bene, nel senso che almeno stavolta eravamo riusciti a prenotare. La bomba è arrivata verso le dieci di mattina: un sms di Davide annullava tutto causa febbrone della Penelope; a quel punto però io e Rico eravamo già nell'ordine di idee di mangiare fuori, che fare? A entrambi  è venuta la stessa idea: sushi nel ristorante del Punta di Ferro.
In condizioni normali il solo pensiero di entrare in un centro commerciale di domenica, oltretutto in periodo di saldi, mi fa venire la pelle d'oca (io con la folla ho qualche problema), ma questa volta la voglia di mangiare fuori e la brama di sushi erano più forti, ragion per cui abbiamo elaborato un piano: arrivare a ridosso dell'ora di pranzo e scappare a gambe levate appena finito di mangiare. Siamo arrivati verso la mezza (mezzogiorno e mezza, per chi non è un indigeno) ma, avendo fatto colazione alle dieci, non avevamo ancora fame quindi abbiamo ammazzato il tempo facendo un giro di vetrine inclusa,  su richiesta di Rico, una capatina a vedere gli stereo in una zona piena di apparecchi per il dolby surround che sembrava la navicella di un'astronave aliena.
Per me l'unico vero momento di interesse si è presentato in un negozio di scarpe, in mezzo a tacchi himalayani e piogge di strass; mentre Rico mi indicava un paio di stivaletti beige con degli orrendi ricami floreali che sarebbero parsi eccessivi anche a Daisy Duke, ho individuato un paio di scarpe sportive che mi piacevano assai e il cui prezzo era stato drasticamente ridotto, essendoci rimasto solo un numero. Peccato che fosse il 41. La cosa lì per lì mi ha un po' abbattuto però non mi sono data per vinta, in fondo io porto il 39-40, dipende tutto da come calza la scarpa. E infatti, pur essendo in effetti  un po' abbondante, la scarpa era comodissima e c'era pure abbastanza spazio per inserire una di quelle solette pelose caldissime che i miei piedi apprezzano molto di questi tempi. E' pur vero che il motivo tartan dell'interno non mi faceva impazzire ma quello sarebbe rimasto un segreto tra me e i miei calzini quindi...
Una volta provate le scarpe c'è voluto un po' a risistemarmi; non so se capita anche a voi ma spesso i negozi di scarpe hanno ste poltroncine o sti divanetti un po' bombati o sbilenchi perché devono fare arredamento di design, però poi quando cerchi di appoggiarci sopra qualcosa questo cade sempre giù. Quel giorno avevo i guanti, il berretto, la borsa, la sciarpa, insomma ne è nata una prevedibile scena fantozziana, per fortuna con Rico come unico testimone.
Dopo quasi un secolo ero pronta e diretta alla cassa quando l'occhio mi è caduto su un altro paio di scarpe, anch'esse in sconto e molto simili alle prime.
A quel punto dovevo provarle (prima di ogni acquisto devo spazzare via qualsiasi dubbio altrimenti poi ci ripenso mille volte), si è proceduto quindi a una seconda svestizione (Rico immagino volesse suicidarsi), con prova della calzatura nonché sua immediata bocciatura, le prime comunque mi piacevano di più; raggiunta la pace dei sensi e la somma soddisfazione di chi ha attraversato la selva oscura ma almeno ne esce con un paio di scarpe, ho rimesso tutto nella sua scatola e l'ho lasciata lì da una parte (mi servivano entrambe le mani per velocizzare il complicato processo di rivestizione).
Alla cassa, mentre ciucciavano via i soldi dalla mia carta di credito, mi sono accorta che la commessa stava sudando sette camicie  nel tentativo di infilare la scatola delle scarpe in una busta di plastica (una sportina qui da noi) evidentemente troppo piccola. Mossa a compassione le ho detto che non mi serviva la scatola, che poteva mettere direttamente le scarpe nella sportina ma lei ha ribattuto che in quel caso non avrei potuto cambiarle in seguito; essendo però che le avevo già provate entrambe con soddisfazione e che lei le aveva addirittura tirate fuori davanti a me per controllare sotto i miei occhi che entrambe fossero numero 41, le ho ripetuto che andava benissimo senza scatola e finalmente, non senza qualche sforzo, siamo riusciti a uscire dal negozio.
La mia giornata era già un successo e non avevo ancora mangiato il sushi!
Al ristorante ci hanno fatto sedere quasi subito e devo dire che il tavolo era in buona posizione, sì perché il locale era uno di quei posti con un nastro trasportatore su cui scorrono ininterrottamente piattini di cibo, quindi se sei vicino alla cucina hai maggiori probabilità che i piatti  ti arrivino caldi; la cosa è ininfluente nel caso del sushi ma capite anche voi che per la roba fritta è tutto un'altro discorso...
In un locale del genere è assolutamente fondamentale riuscire a resistere alle tentazioni; davanti al vostro piatto scorreranno infatti cibarie di ogni genere (ravioli, noodle, tempura), soprattutto cose che lì per lì hanno un'aspetto succulento ma che sapete benissimo richiederanno una o due ere geologiche per essere digerite, quindi l'unica soluzione è procedere spediti mantendo lo sguardo fisso sull'obiettivo: il sushi. Le uniche deviazioni alla norma concesse sono la zuppa di miso (come antipasto) e, a fine pranzo, qualche pezzo di banana fritta o, in sua assenza, una frittella ripiena di nutella. Anche in questo caso è fondamentale la vicinanza alla cucina, la frittella fredda è come la Morte Nera, basta l'attimo di un morso e la tua vita è finita.

Mentre noi spazzavamo via polpette di riso a ritmo sostenuto, in uno dei tavoli vicini al nostro si sono seduti due signori che avranno avuto una settantina d'anni; li ho guardati incuriosita mentre si facevano spiegare dalla cameriera il funzionamento del ristorante, poi hanno tirato fuori le bacchette di legno dalla custodia e hanno iniziato ad assaggiare alcuni piatti, tenendo le due bacchette unite, a mo' di pala. Confesso che li ho ammirati, non so quanti loro coetanei sarebbero altrettanto curiosi di sperimentare cose nuove e, pensandoci bene, spero proprio di arrivare alla loro età con lo stesso spirito. Chapeau.
Come previsto, la nostra permanenza in loco una volta pranzato è stata molto breve, stavano già calando sul centro commerciale orde di shoppingari agguerriti per cui ci siamo dileguati con un sospiro di sollievo. Tornando a casa Rico si lamentava di aver mangiato troppo, io invece ero molto soddisfatta, non solo per aver finalmente trovato le scarpe che cercavo da un po' di tempo, ma anche per essere riuscita a dire no al terzo pezzo di banana fritta (adesso a ripensarci piango ma il mio fegato ringrazia).
Una volta a casa, mentre Rico di sotto accendeva la stufa, ho portato la sportina con le scarpe in salotto per sistemare i lacci e tagliare le etichette. L'ho aperta e dentro c'erano le scarpe. Le altre scarpe.
Avevo portato alla cassa la scatola con le altre scarpe, quelle che non volevo. E ormai non potevo più cambiarle, non avevo  voluto la scatola.
Ci son quei giorni che iniziano un po' così.




martedì 15 gennaio 2013

L'unica luce in fondo al tunnel è l'età che avanza

Anche quest'anno, con l'avvicinarsi del periodo natalizio-capodannesco, ho pensato di preparare un post tiramisù da condividere in gennaio con i poveri tapini che si sono trovati loro malgrado intrappolati nelle interminabili cene parenti, magari proprio di fianco alla zia rompipalle o al nonno incazzereccio la cui conversazione spesso si limita a una o più delle seguenti domande (da adattare secondo i casi):
a) Come va con la scuola? (anche se avete trent'anni e magari state facendo un master/dottorato)
a1) Come va col lavoro? (la domanda è sempre la stessa, che abbiate un lavoro o meno)
b) Ce l'hai il/la findanzato/a? (a questi eventi privacy pensano sia il nome di una monovolume)
c) Ma quando ti sposi? (per chi ha risposto sì alla domanda precedente)
d) Ma non è ora di fare un bambino? (per chi ha risposto sì alla domanda precedente)
e) Ma non è ora di fare un altro bambino? (per chi ha risposto sì alla domanda precedente)
E via così all'infinito, tipo purgatorio, l'unica luce in fondo al tunnel è l'età che avanza...(la loro).

Mettere insieme un post del genere è una responsabilità non da poco, quindi nei mesi scorsi ho iniziato a guardarmi intorno alla ricerca di un'ispirazione. Il primo segno dell'austerità dei tempi l'ho notato in una vetrina del centro di Cesena: dove solo un anno fa trionfavano diademi principeschi e collane di perle (vedi A caval donato...basta donar cavalli, grazie!), oggi al cane non è rimasto che un misero fiocco decorativo. L'espressione solare e gioiosa invece è sempre la stessa.
Cerco comunque di mantenere un minimo di ottimismo ricordando che quest'anno, mercé una crisi che tocca quasi tutti, la situazione regali potrebbe essersi rivelata meno drammatica che in passato, anche se è meglio non farsi troppe illusioni, ci sono oggetti assolutamente spaventosi e disponibili al prezzo di pochi euri.

Ho dato un'occhiata alla mia provvista di settimanali per identificare il regalo orrendo definitivo, quello che vi farà sorridere e pensare in effetti poteva andarmi peggio ma, confrontandoli con alcune fotografie scattate negli ultimi tempi, non riesco onestamente a decidere quale tra questi deliziosi oggettini abbia i requisiti per aggiudicarsi la pole position. Visto l'impasse, mi limiterò a presentarveli, lasciando a voi il compito di decidere chi merita la corona. Date un'occhiata e fatemi sapere.


Regalo numero uno: questo come possiamo definirlo, tecno-romantico? Cuoricioni in 3D? 
Come reagisci se il tuo compagno o la tua compagna, che hai sempre reputato persona dotata di buon senso e di gusto perlomeno normale, ti presenta uno di questi cubi con dentro la vostra foto, magari per il vostro anniversario? 
Per me le opzoni sono limitate: 
a) glielo tiri nella schiena, 
b) divorzi subito, adducendo come motivo l'evidente crudeltà psicologica, 
c) facendo uno sforzo sovrumano, ripensi a tutte le cose belle che avete condiviso e abbozzi un sorriso falsissimo, mentre progetti di far cadere sul cristalloso aborto la stufa di ghisa.
A me personalmente ricorda molto la lastra di cristallo in cui vengono imprigionati il Generale Dru-Zod  & Co. alla fine di Superman.


Questo secondo candidato è un esempio lampante di come a volte non ci rendiamo conto delle gemme che abbiamo di fronte. Ho scovato questa meraviglia in un mercatino di beneficenza visitato durante il ponte dell'8 dicembre; in questo caso confesso di essere rimasta abbagliata dallo sfacciato orrore del soprammobile al centro e di non aver quindi immediatamente colto l'enorme potenziale rappresentato dal quadro in alto a sinistra e dal suo implicito messaggio "ricordati che devi morire". 
Tipico errore della novellina. Ma ve lo immaginate che impatto potreste avere regalando a qualcuno il quadro di Frau Blucher?

Chiaro che anche il portacaramelle (o è una salsiera?) con cavallo al galoppo e putti dall'aurea chioma al vento è un'ottima carta, potenziata ulteriormente dalla possibilità di regalare anche il gemello (nella foto qui a fianco), disponibile in una versione decisamente meno austera, più sbarazzina, grazie a una sapiente scelta cromatica.
Non posso fare a meno di chiedermi come sia possibile che all'autore il primo sia piaciuto tanto da decidere di farne un altro.
Ciascuno di questi deliziosi oggettini veniva via a 25 euri, se non ricordo male.
Il prossimo regalo ci arriva direttamente dalle pagine di Grazia e in effetti è molto più sciccoso; le deliziose scarpe qui ritratte (pump le chiamano), in questo sobrio color viola metallizzato che fa tanto messa di mezzanotte, sono finemente decorate da veri e propri specchi, sapientemente posizionati lungo il tacco e sulla zeppa davanti (platform la chiamano). Immagino la scena quando sei in giro con questi tesori ai piedi e i fari di una macchina t'illuminano: incenerimento delle retine di chiunque si trovi a meno di venti metri di distanza. Però è chiaro che risultano utilissime quando hai il dubbio di avere la maledetta foglia d'insalata tra i denti: ti togli una scarpa e, rimanendo atleticamente in bilico sull'altra gamba (tacco permettendo), porti la scarpa alla bocca per toglierti ogni dubbio. Certo anche un comune specchio da borsetta andrebbe bene ma dopo dovresti scervellarti per decidere come spendere quei 795 euri avanzati, troppi pensieri!

A questo punto avrei concluso e vi lascio con quest'ultima immagine che francamente rappresenta per me una sonora sconfitta: quando ho visto questa vetrina mi sono letteralmente mancate le parole, non sono riuscita a dire niente, perché...cosa...niente.
Mi resta un unico rammarico: di fronte al cartello che vantava una maggiore scelta all'interno del negozio, ho avuto paura e non sono entrata. 







P.S. Allora, per quale votate?

mercoledì 9 gennaio 2013

Nonantola e il mucchio selvaggio


Erano le ore diciotto di mercoledì 12 dicembre e mi trovavo in autostrada tra Bologna e Modena alla guida della mia fedele Fiesta, in quel momento strapiena di ukuleli, al punto che un’inchiodata sarebbe stata letale.
Come inizio mi pare abbastanza d’effetto, adesso vediamo di fare un passo indietro e chiarire le cose: stavo facendo da autista a Farnedi che quella sera doveva tenere, presso la fonoteca di Nonantola, un incontro dedicato all’ukulele e aveva quindi deciso di dare fondo alla nostra provvista domestica e portare tutti gli ukuleli in dotazione (a lato solo alcuni esemplari) per permettere ai partecipanti di provare dal vivo lo strumento. A vederci da fuori immagino sembrassimo la macchina di Fantozzi carica per le ferie, mi chiedo ancora come sarebbero andate le cose se ci avesse fermato una pattuglia per un controllo e mi avessero chiesto di aprire il  bagagliaio.

Come sempre il tratto dell’autostrada tra Bologna e Modena era l’equivalente di una zona di guerra e mi aveva già strappato una vasta gamma di brutture, peraltro pienamente giustificate: camion che invadevano corsie senza mai una freccia di preavviso e sfanalatori impazziti che mi alitavano sul collo, ne avevo già maledetti almeno una ventina. Altro che scompensi ormonali, la causa dell’alopecia maschile sono io.
Una volta arrivati a destinazione ed espletate le millemila prove necessarie a interfacciare pc, videoproiettore, sistema audio ecc ecc, Giorgio Casadei (l’organizzatore della serata) ha consegnato a Rico dei documenti da compilare per il Comune e ci ha accompagnato fino a La Smorfia, una pizzeria napoletana dove ho mangiato una delle pizze più buone degli ultimi tempi, arrivando alla conclusione che a me la pizza napoletana piace, se la sanno fare.
Essendo un po’ stretti coi tempi siamo tornati immediatamente alla fonoteca, ri-sfidando il freddo polare della provincia modenese; abbiamo varcato la soglia palesemente compiaciuti della nostra impeccabile puntualità, peccato che i famosi documenti, compilati come richiesto in tutte le loro parti, fossero rimasti allegramente in pizzeria. Farnedi a quel punto doveva rimanere in loco quindi la carne da cannone ero io: mi sono rimessa giaccone, sciarpa, berretto, guanti e grasso di balena e son tornata alla Smorfia dove, grazie a dio, erano pieni di gente e non avevano ancora trovato il tempo di sparecchiare il nostro tavolo, ragion per cui i due preziosissimi fogli erano ancora lì.
Al ritorno in fonoteca ho studiato la situazione e notando che parecchi tra il pubblico avevano portato un loro strumento, sono andata a recuperare l’unico tra gli undici ukuleli che era proprio mio, dicendomi che quello in fondo era un incontro per principianti, ce la potevo fare anch’io.
Ovviamente quando ti senti impedito vuoi dare nell’occhio il meno possibile, quindi mi sono seduta in fondo all’aula e in un angolo, con le spalle coperte, sembravo il tenente Ripley in Alien.
Poco a poco la sala si è riempita e si sono aperte le danze: Farnedi è partito con un breve accenno alla storia dello strumento mostrando video e foto; all’inizio era tutto molto tranquillo, poi quando siamo arrivati al momento della prova pratica ho iniziato un po’ a sudare (c’è del materiale per tesi di laurea in psichiatria). Mentre Enrico e Giorgio giravano per la sala offrendo ukuleli al popolo, un uomo dietro di me se n’è uscito con “No, io no che non conosco gli accordi!”
Fratello! - ho pensato- affrettandomi a dirgli che non si preoccupasse, che anche io ero messa così, che sapevo due accordi in croce, tutto ciò nel tentativo di incoraggiare il mio compagno in difficoltà. Il quale compagno in difficoltà si è fatto spiegare come fare il do e il fa e, dopo neanche un quarto d’ora era là che suonava tremila note al secondo, pareva ne avesse otto di mani! Solo dopo ha lasciato casualmente trapelare che lui non sapeva suonare l’ukulele, però la chitarra sì. Si sarebbe meritato una badilata nella schiena ma ero troppo presa dall'immane sforzo di suonare “la gatta” alla velocità smodata richiesta dal Farnedi quindi ho dovuto soprassedere.
Insomma, per tirare le somme, suonare in gruppo si è rivelato un vero toccasana per l’autostima: se sbagli accordo nel mucchio non si sente, se le dita s’invrucchiano e produci versi indefinibili, anche quello nel mucchio non si nota, se perdi il filo, il mucchio prosegue e alla prima occasione puoi infilarti di nuovo e continuare fingendo che non sia successo niente. Tutto questo sempre a condizione che nel mucchio la percentuale di impediti come te sia limitata. In questo caso lo era.
Alla fine insomma ti trovi a dire “oh, in fondo poi son bravina!” e per un po’ puoi tranquillamente far finta di crederci. Un sentito grazie ai colleghi del mucchio.


P.S. Ecco un esempio di come può essere suonare l’ukulele nel mucchio

P.P.S. Questo articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press