giovedì 30 dicembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - quinta e ULTIMA parte

Ed eccoci arrivati all’ultimo giorno, il primo novembre. L’inizio non è particolarmente scoppiettante: la colazione in questo albergo non è che la lontana e poverissima parente di quella rumorosa e frequentatissima del Bulldog.
Claudio ci fa vedere le foto che ha scattato quella mattina in giro per Brugge e che sono belle assai; praticamente ha girato tutta la città mentre noi agonizzavamo nei nostri letti in preda ai succhi gastrici impazziti. L’Uomo Bionico prenderebbe appunti.
Quando finalmente riusciamo a uscire dall’albergo e c’incamminiamo verso il centro città, il tempo è decisamente minaccioso ma noi continuiamo imperterriti, avendo una destinazione irrinunciabile: il giorno prima ho trovato un volantino in cui si pubblicizzava niente di meno che “il museo della patatina fritta” di Brugge e ovviamente devo assolutamente vederlo.

Non è molto difficile da trovare ma, una volta arrivati là, essendo io l’unica interessata, ci limitiamo a qualche foto ricordo davanti all’ingresso del museo. Mi rimane il rimpianto di non avere seguito il mio cuore e di aver forse mancato l’esperienza più bella e assurda dell’intera vacanza.
 Ci fermiamo davanti a una cioccolateria belga e Farnedi decide di comprare delle fette di arancia caramellate ricoperte di cioccolato fondente. Le compra per tutti ma sopravvaluta la nostra capacità di gestire gli zuccheri e infatti il sacchetto delle arance ci farà compagnia fino a casa in Italia, diventando il decimo membro del gruppo, (l’undicesimo, il decimo è ovviamente I pilastri della terra).
Dopo aver passeggiato per il centro in mezzo a orde di turisti e alle solite carrozze kitschissime, decidiamo di fare il giro dei canali in barca e ci mettiamo pazientemente in fila. Non dobbiamo aspettare molto e, se si eccettuano un paio di momenti difficili, la mezzora di attesa trascorre piacevolmente. I momenti difficili si presentano quando una delle barche attracca al molo e scarica i turisti per poi accogliere il nuovo gruppo; detti turisti dovrebbero uscire da dove sono entrati, il problema è che lungo quel percorso ci siamo noi in fila, quindi ci tocca appiattirci contro i muri e sperare in dio. Proprio mentre il serpente umano in uscita le si avvicina, la Cecca si posiziona frontalmente, per poi cambiare idea e mettersi di fianco nel tentativo di occupare meno spazio; mentre la folla le sfila di fianco, si riposiziona frontalmente e conclude: “Sono tonda”
La fortuna ci bacia, assegnandoci una guida che diventa immediatamente il moroso della Rinaldi: un omone grande e grosso che intrattiene il suo pubblico in inglese e francese. Ogni tanto dimentica di ripetere in una delle due lingue quindi c’è sempre qualcuno che chiede “cos’è che ha detto?”
Mentre la barca scivola sull’acqua noi, cullati dalla voce del pifferaio poliglotta, ammiriamo il panorama autunnale e fotografiamo fino a slogarci il collo, distraendoci solo raramente e per comprensibili motivi (la Cecca si è messa di nuovo gli occhiali finti senza preavviso).
Al momento del pranzo la compagnia si riunisce e troviamo un bistrot che offre omelette, insalate, tramezzini, insomma dovrebbe andare bene a tutti. Entriamo e si scopre immediatamente che non hanno tavoli per nove quindi dobbiamo dividerci tra due tavoli tondi con sedile circolare. Segue un sacco di “passami quello” “Dai qua” ecc.
Non avendo ancora preso un’omelette, mi lascio tentare da una con prosciutto e formaggio che, nonostante ne mangi solo metà, mi farà compagnia per molte ore a venire. In una sola parola: burro.
Si fa l’ora di partire per l’aeroporto di Bruxelles; riprendiamo le macchine e arriviamo senza grossi problemi al noleggio auto. Peccato che siamo a secco e non volendo pagare un milione di euro per la benzina siamo costretti a tornare indietro al distributore.
Una volta restituita l’auto, ci avviamo verso il terminal carichi di bagagli (e omelette). All’entrata c’è un bel cartello che avverte che tutto l’aeroporto è SMOKE FREE. La Berti, in evidente delirio tossico, cerca di convincerci che “smoke free” vuol dire che sei libero di fumare. Pur apprezzando la creatività, la copriamo di brutture e le facciamo spegnere la sigaretta. All’ingresso del terminal ci dà il benvenuto un tappeto di M&Ms che inizialmente ipotizziamo siano cadute a qualche bambino ma, essendocene una vagonata, è più probabile che fosse una squadra di calcio. Resistendo a fatica all’impulso di raccoglierle, dargli una spolveratina e via, procediamo verso il macchinotto del check-in. E a questo punto si presenta il problema dell’interfaccia tecnologica; in realtà non ci sarebbe nessunissimo problema (non è la prima volta che lo facciamo), senonché arriva una pazza furibonda travestita da simpatica assistente di volo la quale, con la scusa di prenotarci i posti vicini, combina dei casini mai visti, spargendoci alla boia del cane per l’aereo.
Il clou però arriva al momento di pesare le valige: ricorderete che la maggior parte di noi è partita con il solo bagaglio a mano (il principe no, la corona d’oro massiccio pesava troppo). Al ritorno imbarchiamo tutti, quindi ci pesano il bagaglio e si scoprono aumenti assolutamente inspiegabili, ipotizzo che ci abbiano usato per trafugare lingotti di piombo per una qualche strana ragione.
Sul volo da Bruxelles a Monaco tutto fila liscio, eccetto quando Claudio decide che vuole accendere il navigatore dell’iphone per vedere dove siamo; gli faccio presente che il navigatore si è perso più di una volta andando agli 80 sugli svincoli di Bruxelles quindi è improbabile che possa essere utile alla nostra attuale velocità di crociera (quelle stracentinaia di km/ora) ma lui decide di provare comunque. Mentre io mi copro gli occhi, prevedendo da un momento all’altro l’arrivo della hostess e il conseguente cazziatone per aver acceso apparecchiature elettriche in volo, Claudio accende il telefono ma scopre che il navigatore non è utilizzabile in modalità aeroplano. Resta la curiosità di sapere per quanto avrebbe scampanato a morto detto navigatore, impostato con un limite di velocità massimo di 130 km/ora.
Essendo che tra un volo e l’altro c’è giusto il tempo di un respiro, appena toccato terra ci lanciamo fuori dall’aereo e arriviamo correndo all’altro gate, per poi scoprire che il volo è stato ritardato per “motivi tecnici”. Dopo mezzora di attesa, sentendo per l’ennesima volta la scusa dei motivi tecnici, iniziano a fiorire ipotesi sulle reali motivazioni del ritardo, tra cui:

1)      “Il pilota è ancora ubriaco dalla festa di Halloween, in questo momento le hostess lo stanno prendendo a schiaffoni, tentando di farlo tornare in sé”;
2)      “La festa di Halloween era proprio sul nostro aereo e stanno passando l’aspirapolvere per nascondere le tracce dei bagordi”;

Quando finalmente ci comunicano che possiamo partire siamo decisamente provati (qualcuno di noi domattina lavora!) e strisciamo sull’aereo senza tante cerimonie.

Sembra impossibile ma atterriamo a Bologna; ovviamente a questo punto ci aspettiamo che ai nostri bagagli sia successo di tutto, che siano alle Fiji o sul K2 invece, dopo un’attesa piuttosto lunga, arrivano tutti sani e salvi. Ci attardiamo giusto il tempo di fare una foto al nostro “I pilastri della terra” sul nastro trasportatore e poi usciamo diretti alla navetta che ci porterà alle macchine. Peccato che non sia un’idea originale; al punto shuttle troviamo altre venti persone più o meno nelle nostre pietose condizioni. Siamo a un passo dalla rissa per un posto sul pulmino. Durante i venti minuti di attesa ci ripetiamo come un mantra che la prossima volta che si decide di andare in vacanza si guarda quali voli partono da Forlì (massimo Rimini) e si decide sulla base del volo più comodo, la destinazione ci rimbalza.
Arrivati finalmente alle macchine ci salutiamo rapidamente e dopo poco più di un’ora siamo, incredibilmente, A CASA.

A questo punto il resoconto dovrebbe terminare ma lungo il percorso sono andati smarriti alcuni dettagli che meritano menzione:

1)      L’idea del cerino acceso in bagno a cui dobbiamo la vita è arrivata dalla Clodia e non da Rico;
2)      In uno dei mille bar di Amsterdam dove ci siamo fermati per un tè c’era un barista matto da legare che ha tirato i piattini di ceramica a Rico e aperto la porta del bagno dando una manigliata in testa alla Toda;
3)      Nel bagno dell’appartamento di là, qualcuno faceva delle puzze così puzze che la gente scappava e ficcava la testa nelle scarpe alla ricerca di un po’ d’aria buona;
4)      Mi attardo a controllare internet dopo colazione e quando arrivo all’appartamento mi rendo conto che non ho le chiavi dell’ingresso e fuori piove; provo il cellulare ma nessuno di quelli di sopra risponde, mi salva il buttafuori del pub lì accanto, consigliandomi di fregarmene e suonare un campanello a caso fino a che non mi aprono;
5)      Durante la nostra visita di Brugge la Berti e la Cecca, incappottate e sciallose, si fermano ad ammirare la statua di Papageno. Rico le guarda, scatta una foto e urla “la Compagnia dell’Anello!”;

6)      L’autista della nostra macchina è sempre stata la Rini, quindi immaginate un po’ chi era quell’altra che voleva fermarsi a fare pipì al semaforo….
7)      La seconda sera Mauro arriva e chiede a Rico: “Avete dello shampoo da prestarmi? Il mio me l’hanno sequestrato all’aeroporto” Rico: “C’è un campioncino nel beauty” Risposta “Sì, nel beauty ci ho già guardato, ma avete portato solo quello?” Due pensieri: 1) Ha frugato nel beauty di un altro senza chiedere il permesso, appendetelo per i piedi e frustatelo, 2) Lui si è fatto sequestrare lo shampoo e si lamenta perché noi non ne abbiamo portato abbastanza anche per lui? Vedi frustate precedenti;
8)      Come una iattura, la cartolina della bambina brutta ci si è rivoltata contro; è arrivata per posta dopo qualche giorno. Il postino ha sofferto. Maledetta Rini, sempre un passo avanti!

lunedì 6 dicembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - quarta parte

La partenza per Bruges è prevista in tarda mattinata; ci alziamo per tempo in modo da finire la valigia e svegliamo Mauro dicendogli che si dia una mossa altrimenti si fa tardi.
Dopo un po’ il poveretto arriva con una faccia alquanto perplessa e chiede: “Ma l’avete messo l’orologio indietro di un’ora?”
Improvvisa impennata del numero di brutture giornaliere. Con tutto il bisogno di dormire che c’era, abbiamo buttato giù per il cesso un’ora di sonno. Boia l’ora legale e i nostri tre neuroni fancazzisti. Ma andiamo avanti.
Ovviamente, come in tutte le giornate di viaggio, c’è voluta una vita per arrivare a destinazione perché come sempre accade in gruppo, uno doveva andare in bagno, uno voleva il caffè, uno voleva il croissant, uno doveva fumare la sigaretta, uno affilava il coltello pensando a chi sgozzare per primo, tra quello del bagno, quello del caffè o quello del croissant, tanto quello della sigaretta ci pensavano già catrame e nicotina.
Abbiamo fatto una breve camminata verso la stazione e anche lì a ogni curva della strada dovevamo avere mille occhi altrimenti qualcuno rimaneva per strada (anch’io, a dir la verità); con il biglietto in mano ci dirigiamo verso la scala che porta ai binari mentre un gruppo di astuti prende l’ascensore per fare prima e non dover trascinare su i bagagli. Peccato che l’ascensore porti al binario di fianco. Pacchi di risate.
Arriviamo in aeroporto e via a prendere le macchine. Per un attimo ci illudiamo alla vista di una cinquecento rosa shocking ma non è la nostra macchina, sigh. Ci infiliamo nella seconda macchina tutti contenti con la Cecca al volante ma all’improvviso Mauro decide che nell’altra macchina in tre dietro stanno stretti e noi invece in due mooolto più larghi (loro hanno una focus, noi una fiesta, boh) quindi comincia a fare una gran scena che lui dietro non ci vuole stare. A quel punto alla sottoscritta che di pazienza non è che ne abbia da dar via, le girano gli zebedei (virtuali), quindi manda a cagare il sopracitato Mauro andandosi a sedere al suo posto nella focus. Il viaggio può finalmente cominciare.
Il nostro bolide condotto con mano sicura dalla Berti divora la strada con l’occasionale supporto del navigatore nel telefono di Claudio che si rivela di grande utilità in più di un’occasione; la strada è costellata di campi, torri eoliche, boschi, pecore, torri eoliche, mucche, torri eoliche. Qui le torri eoliche vanno molto.
L’unico neo del navigatore in questione è un’impostazione demoniaca per cui se superi di 1 km il limite di velocità suona un allarme che fa il rumore delle campane a morto, un po’ un monito “Chi va forte va alla morte”, che non contribuisce alla spensieratezza del viaggio. La radio però ci dà una mano con una programmazione che si fa dare del lei e a un certo punto io, la Clodia e la Berti ci troviamo a cantare a squarciagola “Hot stuff” ballando sguaiatamente nonostante le infamate del Principe e i sospiri rassegnati di Claudio.

E finalmente, dopo un lungo peregrinare, raggiungiamo Bruges che è in effetti molto pittoresca e molto ben tenuta, anche se un po’ cartolinosa. Check in e poi via in esplorazione, approfittando del bel tempo. Valanghe di foto, belle, brutte e soprattutto deficienti.

Probabilmente il fatto che sia il weekend dei morti spiega la folla oceanica che riempie il centro. In giro ci sono carrozze e cavalli che portano a spasso i turisti e le strade sono piene di negozietti di cioccolata, cartoline e merletti. Ora, non fraintendiamoci, non è che ci si auguri che un colossale incendio distrugga tutti i pizzi e i merletti di questo mondo e spazzi via coloro che li fabbricano; però qui non giri angolo senza sbattere in qualche vetrina merlettata, alla lunga è un po’ una maletta.
Arrivati alla piazza principale, guardandomi intorno, noto una fila chilometrica che finisce nel mezzo della piazza, intorno il nulla. Cos’è? Un’opera d’arte contemporanea? Scatteranno una foto con il satellite? La risposta arriva pacchianamente decorata e trainata da due cavalli: tutta questa gente in fila VUOLE essere scarrozzata in giro per la città su uno di quei cosi. Di fronte a tutto ciò tornerebbe utile il famoso incendio colossale di cui si parlava prima, facciamo tabula rasa e speriamo nelle nuove generazioni.
Ovviamente non può mancare la quotidiana sosta cum birretta; in questo caso però riuscire a trovare posto per nove persone ci costa parecchia fatica ma alla fine trionfiamo e ci sediamo intorno ai tavolini  di un bar all’aperto con vista sui canali della città. Il panorama è molto bello, la birra è buona, per non parlare degli scrocchini di dubbia origine ma decisamente masticabili; ciononostante, ci vediamo costretti a porre fine al magico momento, dovendo tornare in hotel a prepararci per la grande soirée che ci attende.
Sì, perché la Berti, che conosce praticamente mezzo mondo, ha due fornitori in zona (niente spaccio, niente contrabbando, solo trasporti) i quali, sapendo che si trova a Bruges, l’hanno invitata a cena e, informati della nostra presenza, hanno esteso l’invito all’intera compagnia.
L’inquietudine si fa strada; noi si era partiti convinti di fare un viaggio alla buona, quindi non è che si abbia in valigia roba da poter sfoggiare al ristorante. L’unica che avrebbe la mise adatta per la serata, la Gioia, l’ha indossata la sera prima al ristorante messicano e forse per scaramanzia, rifiuta di metterla di nuovo, non si sa mai.
Partiamo quindi tutti un po’ “informali”, eccetto la Berti che almeno ha una stola/foularino/pashmina che fa già vestito figo. La Rini, onde ovviare al problema, ha messo una maglia con una scollatura vertiginosa, confidando che nessuno si accorgerà di cosa indossa. Vorrei poter fare altrettanto ma purtroppo.
Partiamo alla volta di Zeebrugge (sul mare), sempre accompagnati dagli allegri rintocchi a morto del navigatore di Claudio il quale, dopo che la Berti gli ha chiesto di non metterle ansia mentre guida, ripete a intervalli regolari quanto manca all’arrivo, sottolineando quando il tempo di percorrenza aumenta. Tuttora ci si chiede come abbia fatto ad arrivare indenne al ristorante.
Entriamo e i camerieri vengono a prenderci i cappotti mentre noi ci scambiamo sguardi della serie “Oddio, dove siamo finiti, qui ci tolgono anche le mutande!”
I due ospiti, marito e moglie, sono già arrivati. Prendiamo posto a tavola e io, seduta di fianco alla Berti, alzando lo sguardo mi rendo conto che nessuno si è seduto a fianco della signora. Dico a Mauro di scalare di un posto, non possiamo certo trattarli come dei lebbrosi. Lui mi guarda col panico negli occhi e fa segno di no, che lui non sa una parola di francese. A risolvere la situazione ci pensa la Clodia che s’immola per la causa. Intanto la Berti è già in piena conversazione e brandisce minacciosamente un cocktail, mentre intorno a noi svolazzano miriadi di camerieri portando pane, burro, vino e alcuni centrotavola che reggono delle ciotoline con una strana salsa gialla. La studiamo perplessi, sarà una salsa per i crostini? Un intingolo per il fritto? Una crema da cucchiaio? Cosa diavolo è? L’unica è aspettare e vedere cosa fanno gli ospiti, i quali ospiti dopo un po’ prendono ciascuno una ciotolina e c’informano che trattasi di crema di zucca. Sospiro di sollievo.
Il vero momento magico, quello che resterà scolpito nella memoria della sottoscritta, arriva quando portano gli antipasti.
Faccio una premessa: la Berti, conoscendo i suoi polli, aveva chiesto il menù vegetariano per una persona e il cameriere aveva prontamente dichiarato la propria disponibilità. Sì, però il tapino non poteva sapere che noi si andava ben oltre il vegetarianesimo e giustamente, essendo ospiti, nessuno si è sentito di dirglielo. Ragion per cui, quando hanno portato gli antipasti, a noi sono toccate le crocchette al prosciutto e formaggio o le ostriche, mentre alla Clodia hanno servito una sontuosa insalata coperta da un palpabilissimo mare di cipolla. A casa Rini la cipolla è uno di quei cibi che se lo nomini dopo devi fare l’esorcismo quindi ci siamo trovati di fronte a un problema di galateo: dalla faccia della Clodia si capiva che mangiare la cipolla non era neanche pensabile ma, come evitare che l’ospite al suo fianco si rendesse conto della situazione? La soluzione ha richiesto uno sforzo di gruppo: la Clodia mangiava l’insalata evitando accuratamente la cipolla, mentre ogni tanto qualcuno di noi, Mauro tra tutti, chiedendo di assaggiarla, toglieva di mezzo parte della pestilenziale mostruosità.
La necessità si è ripresentata all’arrivo della portata principale, nel suo caso una pasta primavera disseminata di cavolfiori e altri ingredienti tabù, ma ormai il più era fatto, avevamo un sistema. Anche noi carnivori abbiamo avuto le nostre difficoltà: il mio filetto ben cotto era praticamente ancora vivo mentre il filetto al sangue della Berti era quasi carbonizzato, in quel caso è bastato un rapidissimo scambio di piatti e via andare. A quel punto però ci erano già passate per le mani almeno tre bottiglie di vino differenti, quindi si è fatto tutto un po’ confuso. A terminare la serata ci hanno pensato caffè e abbondanti ammazzacaffè e quando ci siamo congedati dai nostri ospiti e siamo saliti in macchina, pochi nutrivano concrete speranze di arrivare sani e salvi in camera, senza prima vedere da vicino un fosso belga.
Tra il livello etilico stellare di…un po’ tutti, il dannatissimo navigatore menagramo e il buio buissimo della notte, il viaggio di ritorno è stato un’impresa epica. A un certo punto qualcuno (non diremo chi) voleva scendere a fare la pipì, peccato fossimo fermi a un semaforo.
Contro ogni logica siamo riusciti a ritrovare l’albergo e a tornare nelle rispettive camere. Ci siamo attardati un momento in una camera (non diremo di chi) e mentre si chiacchierava allegramente qualcuno ha detto:”Mi sa che me la sono fatta addosso”. A quel punto per noi si era proprio fatta ora di andare a letto e abbiamo tagliato la corda al suono di: “Ecco, quando c’è da pulir dei culi se la filano tutti!”
Alla luce di questa travolgente esperienza posso affermare senza timore di essere smentita, che a noi la barriera linguistica ci fa una sonora pippa, che nonostante i due abbiano parlato francese per quasi tutta la sera (solo alla fine ho scoperto che parlavano anche inglese, dopo ore di sofferenza) abbiamo comunque fatto la nostra porca figura di italiani che sanno comunicare pure con le pietre. We rock.

sabato 4 dicembre 2010

Forse in miniera è peggio....forse

Qualche giorno fa mi chiamano per un lavoro: un'azienda ha bisogno di due interpreti per un meeting in una vicina città di mare. Fin qui niente di strano.  Dopo qualche ora scopro che il lavoro inizia alle 8 di mattina quindi dobbiamo essere là alle 7.30. Vabbè, una levataccia alle 5 ogni tanto non ti uccide. Peccato però che si lavori dalle 8 alle 19 con solo un'ora di pausa (dieci ore). Allora no, non voglio morire di sfinimento quindi chiedo la camera per la sera prima. Risposta, non c'è problema però dato che non possono spendere per l'attrezzatura per la simultanea (leggi pagare un tecnico) useranno un altro sistema ma senza la cabina per la traduzione.
Lo so che come introduzione è pallosa ma credetemi, serve.
In sostanza saremo sedute a un tavolino con un microfono in mano in una sala piena di gente e tradurremo per gli ospiti stranieri che ci sentiranno con le cuffie. Loro, perché noi col cavolo che abbiamo le cuffie, noi saremo in sala in mezzo al popolo bove.
Non so se avete presente cosa fa la gente alle conferenze: chiacchiera, legge il giornale, risponde al cellulare, starnutisce, tossisce ecc. E noi dovremmo cercare di capire cosa dicono dei tizi sul podio che spesso sono incomprensibili anche quando sei chiusa ermeticamente nel silenzio della tua cabina.
Vabbè, il lavoro è lavoro, forza e coraggio. Andremo io e Isabella.
Sono previsti 20 interventi e ovviamente chiediamo che mandino copia delle presentazioni che useranno; al momento della partenza verso la famosa cittadina, alle 20.30 di venerdì, ne abbiamo ricevuti ben 4. Allegria.
L'avventura parte bene, strada libera, tempo buono. Arrivo sul lungomare con la massima tranquillità, tanto chi vuoi che ci sia da queste parti in novembre? Una bolgia infernale. E' vero che è venerdì sera, ma cosa diavolo ci fa tutta sta gente qua? Lo scopro poco dopo; sono tutti diretti al mio albergo.
All'ingresso dell’hotel c'è uno che ha tutta l'aria del buttafuori; mi squadra e mi fa "Ciao, entra pure". Ora, non è che io me la tiri però mi chiedo:
a) chi diavolo è sto tizio?
b) cosa fa un buttafuori con tanto di auricolare davanti al mio albergo?
c) il buon vecchio Buonasera che fine ha fatto?
Entro e faccio il check in e, guardandomi intorno, mi rendo conto che dentro all'hotel deve esserci un ristorante o roba del genere, perché arrivano continuamente gruppi di gente tirata a balestra (oro e lustrini ovunque).
Mi danno la chiave e salgo in camera. Chiudo la porta e finalmente mi rilasso. Do un’occhiata in giro e niente da dire, la camera è grande, con un bel bagno. Il problema si pone al momento di dormire, quando spengo la tv: nel silenzio si sente una musica che pompa che non lascia dubbi, da qualche parte qui dentro c'è un locale notturno che fa un curioso casino.
Provo a spegnere la luce per vedere se la stanchezza ha la meglio; combatto per un'oretta ma non ho fatto i conti con il freddo polare della camera e il velo di copriletto a mia disposizione. Apro l'armadio per prendere la coperta. Non c’è'. La coperta non c'è! Un po’ come dire che si è seccato il mare, che la Nutella è blu e le Big Babol verdi. La coperta in hotel è una delle certezze della vita, di questo passo dove andremo a finire?!
Distrutta dalla stanchezza mi butto addosso il telo della doccia e, visto che il cuscino è un'ostia, prendo quello del letto di fianco e glielo metto sopra.
Adesso devo dormire, la sveglia suona alle 6.15 e sarà ormai l'una, dovrò dormire almeno qualche ora!!!
Spengo la luce e appoggio la testa sul cuscino che mi accoglie con uno spuntone non meglio identificato; allungo una mano e dopo aver tastato in qua e in là mi tocca ammettere l'incredibile: in questo cuscino c'è una molla di metallo. Perché? Chi mette una molla in un cuscino? Accendo la luce e lo esamino ma è cucito. Chi cuce una molla in un cuscino? Perché?
Non so bene quando ma a un certo punto crollo. Mi sveglio che è ancora buio, accendo il cellulare e scopro che sono le 5.36. Ma porc...adesso figurati se mi riaddormento. Dopo qualche tentativo poco convinto, accendo la luce e leggo.
Fortunatamente un libro l'ho portato, è "Orgoglio e pregiudizio e zombie" e francamente mi ci identifico abbastanza.

Incontro Isabella a colazione e poco dopo partiamo. La nebbia è fittissima e il paesaggio a dir poco spettrale, sarà un segno?Arrivate a destinazione scopriamo che, nonostante l'avessimo precisato, il tavolo per noi non è previsto; secondo loro dobbiamo stare sedute tra il pubblico in ultima fila con i computer sulle ginocchia. Va là che non è vero! Ci facciamo portare il tavolino ma pare sia troppo vicino al palco, il nostro sussurrare li disturba. Ma se noi sussurriamo e loro parlano col microfono! Misteri.
Mentre tentiamo di posizionare il tavolo in modo da vedere palco e schermo, arriva una tipa con tailleur inamidatissimo che, vedendoci lì sedute al tavolino fa una faccia come se avesse mangiato un limone e sbotta: “Ma io mi aspettavo che assumendo degli interpreti professionisti ci sarebbe stata anche la cabina! Alzo la testa e le rifilo un’occhiataccia delle mie, ribattendo gelida:” Francamente anch’io”
Iniziamo a lavorare sedute al dannato tavolino ma le proteste aumentano e a un certo punto mentre sto lavorando, Isabella mi fa capire che ci spostiamo in una stanza lì vicino. O almeno è quello che capisce quel decimo di cervello che può dedicarle attenzione. Invece quando vado di là scopro che ci hanno messo a lavorare al tavolo della reception! Non è una stanza ma l'ingresso dell'azienda! L'audio arriva da un televisore appeso al muro e quindi è strepitoso. Aggiungo che, nonostante il sabato l’azienda sia chiusa, passa puntualmente gente che sbatte porte, risponde al cellulare, accende la macchina del caffè, insomma, a parte i sacrifici umani, capita di tutto.
Passiamo buona parte del tempo a zittire quelli che passano di lì, lanciando occhiatacce a destra e a manca. Mi sento molto la signorina Rottermeier.
Dopo l’ennesima mezzora di lavoro, passo il testimone a Isabella e mi rifugio in bagno ma non sono al sicuro neppure lì; m’imbatto in una delle organizzatrici che mi comunica con la massima disinvoltura che può darsi che ci siano dei ritardi e lavoriamo più a lungo ma che ci pagheranno l’albergo per un’altra notte. Il solo pensiero di un’altra notte in quella ghiacciaia mi fa venire la pelle d’oca e le faccio capire senza mezzi termini che devono finire all’orario concordato perché più di dieci ore non si può lavorare, specialmente in quelle condizioni.
Ovviamente tutti i relatori arrivano con le loro belle presentazioni in power point piene di tabelle e grafici lillipuziani che, sul televisore della reception a cinque metri da noi, sembrano tante strane formichine.
Quando finalmente si fa ora di pranzo, siamo praticamente alla frutta. Raggiungiamo per tempo il buffet e riusciamo a vedere il tavolo prima che le cavallette lo spoglino. Ce n’è di ogni: coda di rospo, salmone, tagliolini allo scoglio, ravioli, carpaccio, pesci al forno, ecc ecc. Impossibile non chiedersi come sarebbero andate le cose se invece di spendere uno stramilione di euro nel super buffet pescioso, avessero optato per qualcosa di più semplice (e digeribile) e dirottato parte dei fondi verso il noleggio della cabina+tecnico. Non lo sapremo mai, in compenso mi trovo a sperare in un’intossicazione alimentare che metta fine alle mie sofferenze.
Il pomeriggio prosegue più o meno sulla falsariga della mattina, con solo qualche momento degno di nota:
a) nonostante ci avessero assicurato che l’azienda era chiusa, a un certo punto compare un ragazzo che ha tutta l’aria del corriere e, vedendoci al tavolo della reception, viene verso di noi parlandoci ad alta voce. Mi sbraccio come una forsennata e quello mi squadra come se mi avesse dato di volta il cervello ma almeno smette di parlare; lo trascino fuori e gli spiego la situazione. La faccia è un po’ dubbiosa ma almeno si avvia verso la cabina del custode (lui la cabina ce l’ha) e non lo vediamo più.
b) nel corso del pomeriggio mi levo la soddisfazione di zittire la tipa inamidata della mattina (aspettavo l’occasione da ore) e, per rilassarmi, nei momenti liberi inizio a scrivere questo resoconto, tra un’occhiataccia e un “shhhh!!!!!”

La ciliegina sulla torta arriva nel tardo pomeriggio: uno dei partecipanti esce dalla sala, si appoggia al nostro tavolo e viene colto da una crisi di tosse. Intere frasi che volano fuori dalla finestra. Evvai.
La frase più bella di tutta la giornata?

“E con questo abbiamo concluso”


mercoledì 1 dicembre 2010

Cinque giorni tra Amsterdam e Brugge (nove soggetti, un paio di occhiali e un mattone) - terza parte

La giornata di libertà inizia bene, il sabato i muratori non lavorano. Dopo la solita colazione affumicata e decisamente affollata, mentre un gruppo di eroi parte alla volta della casa di Anna Frank noi (che la casa di Anna Frank ci rimbalza) si parte verso il Rijksmuseum (caldamente consigliato da mio zio).
Arriviamo a destinazione dopo una stupenda passeggiata per le vie della città che al momento pare ancora addormentata. La mattinata promette bene.
Purtroppo non mantiene. Ad attenderci di fronte al museo troviamo una fila di quelle che ti fanno cadere le braccia, però pare si muova abbastanza in fretta quindi decidiamo di rimanere. Riusciamo a entrare proprio quando sta iniziando a piovigginare. Lo zio non me ne vorrà ma il museo in questione ti ricorda un po’ che esiste la morte. Sarà che nella nostra ignoranza non riusciamo ad apprezzare l’arte fiamminga, sarà che non avevamo la guida che ci guidasse, sarà che sarà che sarà, comunque una tristezza devastante, condita di gorgiere, occhiaie, e male di vivere. Il colpo di grazia ce lo dà il quadro di una bambina che sembra l’angelo della morte e ti ricorda che a questo mondo tutto è pianto e stridore di denti.
Il quadro della bambina brutta

A salvare la situazione arrivano alcune sale piene di case di bambole alte tre metri, perfette ricostruzioni delle case olandesi dell’epoca e un’ultima sala in cui esponevano i disegni dei vincitori di un concorso per illustratori di libri per bambini. Uno in particolare, un libro di sole immagini senza testi, ci ha restituito tutto ciò che avevamo perso nelle sale precedenti e quindi siamo usciti dal museo non proprio pimpanti ma quasi (ovviamente dopo aver acquistato una cartolina con il quadro della bambina brutta da portare come cadeau alla Rini).
Ci siamo avviati per raggiungere il gruppo delle donne che, dopo un’infruttuosa spedizione al museo A.F. (troppa fila) si era separato dagli uomini e procedeva diretto verso un mercato locale; prima però abbiamo fatto una breve sosta in un bar per un rapido spuntino a base di leverwurst (a me pareva Pressatella).
Abbiamo consegnato la foto della bambina brutta che ha avuto l’effetto atteso: sobbalzi, strabuzzamento d’occhi, segni della croce ecc.
Intanto si era fatta l’ora di pranzo e seppur stanchi per il tanto camminare, abbiamo esplorato i dintorni alla ricerca di un posto che andasse bene a tutti e sei (gli altri tre erano ancora in giro per conto loro). In questo caso il destino ci ha gettato un osso, avendoci bistrattato già abbastanza per quel giorno; abbiamo trovato un ristorante molto carino, tranquillo e oltretutto specializzato in zuppe (quello che volevo mangiare io!!!) dove abbiamo mangiato benissimo e ci siamo riposati a dovere. La mia zuppa col coriandolo fresco era buonissima anche se in diversi sostenevano che puzzasse di cimice (io non sniffo insetti abitualmente quindi non saprei).

Siamo tornati alla base sempre camminando, il modo migliore per godersi la città, anche se ogni tanto qualcuno sembrava lì lì per collassare e si temeva di dover buttare il corpo nel canale.
E’ importante precisare che l’esperienza è stata ancora più memorabile grazie a una luminosa iniziativa della Ceccarelli di cui non ho ancora fatto menzione ma che non posso certo ignorare. La gigina in questione ha approfittato di un momento di distrazione del popolo e si è infilata in un negozio dove ha proceduto all’acquisto di un paio di occhiali finti le cui lenti erano disegnate per dare l’impressione che dentro ci fossero gli occhi. E’ inutile tentarne una descrizione, le parole sono impotenti, date un’occhiata alla foto qui sotto e vi renderete conto da soli del genio.

Se li è infilati e poi ha iniziato a girarci intorno senza dire nulla. L’effetto è stato esplosivo. E non si è esaurito certo con la prima apparizione, una fonte di buonumore praticamente inesauribile al modico prezzo di euro 2,5. La Cecca regna, come sempre.
Una volta ripreso il controllo delle nostre facoltà (duramente provate dall’esperienza), abbiamo percorso un tratto di strada con la soggetta e i suoi occhiali che viaggiavano in testa al corteo (sempre scortati da qualcuno perché i due forellini che le permettevano di vedere non davano grandi garanzie e il canale non era poi molto distante). I fortunati che stavano dietro poteva godersi le facce dei malcapitati che li incrociavano: c’era chi scoppiava a ridere, chi distoglieva lo sguardo pensando che non fosse normale (e, diciamo la verità, non aveva tutti i torti) e chi la fissava come se non riuscisse a capire cosa stesse realmente guardando. I fumati ovviamente non facevano una piega.

Arrivati a casa e visto che il bel tempo teneva duro, mentre alcune rientravano in appartamento per le grandi manovre, noialtri ci siamo seduti a uno dei tavolini del pub sotto casa e abbiamo preso qualcosa da bere (leggi birrette), passando un’allegra mezzora a guardare la fauna locale che sciamava verso le vie del centro. C’era veramente di tutto. Al momento del secondo giro di beveraggi, la Cecca e Rico sono partiti verso la porta del pub, trovandosi però a dover fare la fila per entrare perché l’ingresso è vietato a chi ha meno di 16 anni e il buttafuori stava controllando i documenti di un gruppo di ragazzine davanti a loro. Io li osservavo da lontano, sembravano i prof che accompagnano le classi in gita.
Il buttafuori a testa bassa controllava i documenti uno a uno; quando è arrivato il suo turno la Cecca gli ha dato una tesserina (che ho scoperto dopo essere la chiave dell’appartamento) e lui ha alzato lo sguardo con un’espressione del tipo “Cosa fai mi prendi per il culo?” Quando ha visto la Cecca, è scoppiato a ridere e li ha fatti entrare. Ha continuato a ridere per parecchio. Anch’io.
Dopo un po’ ci ha raggiunto la Berti che voleva anche lei farsi una birretta però, come ha tenuto a precisare, “una pinta piccola”. Inevitabile il successivo massacro verbale a base di metri corti, chili leggeri e così via.

La sera ce la siamo presa comoda, chiacchierando e guardando la tv mentre una si stirava i capelli, l’altra se li arricciava e l’altra ancora rimpiangeva di non aver comprato la parrucca viola al mercato quella mattina. Quando finalmente siamo usciti per cenare era già parecchio tardi; dopo mezzora di discussioni, proposte e controproposte, qualcuno (per fortuna nessuno si ricorda chi) ha proposto un ristorante messicano lì vicino e il popolo, stremato dalla battaglia, ha approvato.
Taglio corto perché è inutile e doloroso rivivere il trauma; mi limito a pochi ma significativi dettagli per fare un quadro della situazione:
 a)      Le insalate che abbiamo ordinato non sono mai arrivate ma hanno tentato comunque di addebitarcele; ovviamente la Berti  li ha rimandati subito a casina loro;
b)      Il polpo era tenero quando un copertone di camion;
c)      La pannocchia di mais era bruciata, come pure il contorno di verdure della Clodia;
d)      Nella tortilla (si fa per dire) abbiamo trovato un guscio d’uovo.
 Come da manuale, il conto era pure salato.
Abbiamo abbandonato quel covo di rapinatori mugugnando e invocando a gran voce un controllo dell’Ufficio di Igiene locale; in mezzo allo scontento generale è arrivato il commento lapidario del Principe:
“Ci fotterono”.

Continua....