giovedì 29 settembre 2011

I menu di Benedetta

Io cerco di tenere a bada il Godzilla che è in me, giuro ci provo davvero ma, di tanto in tanto, la mia parte tirannosauro viene fuori in modo preoccupante.
L'altro giorno facendo zapping sono capitata sul nuovo programma di Benedetta Parodi su La 7; trattasi dell'ennesimo programma di cucina (in tv ce ne propinano ormai un numero spropositato), però devo dire che è piacevole e lei risulta vera e quindi simpatica.
Non sono quelli della trasmissione ma non potevo non metterli
La puntata in questione aveva come tema il brunch, quell'incrocio tra colazione e pranzo che ti prepari di solito la domenica mattina quando ti alzi a mezzogiorno devastato da una nottata di bagordi. Nulla da dire sulle ricette, anzi proverò ad aggiungere il succo d'arancia e la cannella alla pastella dei French Toast, però un lieve appunto mi sentirei di farlo:
"Come prima cosa prepareremo una tuna salad"
Il mio primo pensiero è stato: ma è tanto difficile dire insalata di tonno? Ma poi mi sono detta che magari la ricetta è un po' diversa e quindi ci può stare lasciare il nome in inglese, un po' come si fa con la Ceasar Salad.
Quando però mi ha tirato fuori la ricetta dei muffins, lì non ce l'ho proprio fatta; dentro di me contestavo già l'uso del plurale perché secondo me le parole straniere andrebbero sempre al singolare ma, rendendomi conto di essere un po' troppo talebana su queste cose, ero sul punto di lasciar perdere quando ho sentito una roba tipo "ecco, il muffins è pronto" e mi si è coagulato il sangue, E' UN SINGOLARE, SIGNORE BENEDETTO, UN SINGOLARE!!!!! E ALLORA TOGLIAMOLA STA ESSE!!!!!!!!

Con questo concludo il mio sfogo che mi rendo conto essere del tutto sproporzionato all'entità del problema ma ogni tanto le cose le devi tirar fuori altrimenti ti viene la gastrite o peggio ancora le ecchimosi da craniata contro il muro.
Ossequi.

venerdì 23 settembre 2011

Campeggio last minute: una vacanza bestiale - Terza e Ultima Parte

Questa volta la notte trascorre in modo un po’ meno traumatico; sempre freddo, sempre a rigirarmi semisoffocando causa felpa termica in faccia ma, almeno, grazie ai due pile avvolti intorno al sacco a pelo, riesco a dormire per parecchie ore di fila. Il trauma però è solo rimandato. Infatti proprio quella mattina arrivano tre allegre famigliole di italiani (e a giudicare dalla parlata temo fossero delle nostre parti), provviste di un certo numero di bambini. Che non avessero un’idea ben chiara del concetto di campeggio è apparso evidente quando, dopo aver montato la prima tenda familiare, una di loro ha passato l’aspirapolvere. L’ASPIRAPOLVERE. E non quello piccolo e portatile, magari solo negli angoli, no, ha usato la scopa elettrica e l’ha passata avanti e indietro per qualche minuto. Ho temuto volesse dare pure la cera.
Da quel momento in poi la pace e la tranquillità del campeggio vanno in ferie anche loro; da una parte i bambini urlano a qualsiasi ora del giorno (incluse le cinque di mattina), dall’altra i genitori guardano la TV (si sono portati la tv, probabilmente la parabola è rimasta a casa solo perché non entrava in macchina) fino a mezzanotte e mezza, nonostante il periodo di silenzio inizi alle 23; insomma, un delirio.

La mattina dopo, verso le 6.30 veniamo svegliati da urla belluine (Hoooooooo!!!! Huìììììì!!!!) non meglio identificate e accompagnate da meno misteriosi muggiti; Rico mi rivelerà successivamente che quando il casino l’ha svegliato lui era convinto si trattasse di una lezione di karate. Fortunatamente, dopo una decina di minuti la transumanza termina e ritorna il silenzio. Mi giro nel sacco a pelo tentando di riprendere sonno ma, purtroppo, il fragore bovino non ha svegliato solo me: una vocetta penetrante squarcia la quiete: “Mamma?!” E continua a ripetersi ogni dieci secondi. La colpa è ovviamente di quella disgraziata della di lui madre che si guarda bene dal rispondere, probabilmente sperando che il nano si riaddormenti. Eppure dovrebbe saperlo che non funziona così; morale, sto bambino tiene sveglio mezzo campeggio e mezzo campeggio manda accidenti di vario genere alla sua famiglia.

Quel pomeriggio, mentre me ne sto stesa sul prato leggendo l’ennesimo numero di Maison Hikoku (Rico ha portato due diverse serie di manga e ci stiamo abbuffando di fumetti), un grido improvviso mi fa sobbalzare. Riconosco la voce e lo raggiungo in tenda: il tapino mi aspetta con la faccia di uno che ha appena mangiato un limone e, in effetti non ha tutti i torti: mentre stava riordinando la tenda il poveretto ha preso in mano un oggetto non identificato che si è rivelato essere un enorme lumacone ciccione. Ecco spiegato l’urlo schifato, seguito dall’apertura della mano e abbandono del salsicciotto bavoso che ora giace immobile in un angolo della tenda.
Ammetto di non aver proprio reagito nel modo migliore di fronte a tutto questo orrore: senza minimamente preoccuparmi del suo trauma, mi sono piegata in due dal ridere per almeno un paio di minuti, mentre lui me ne diceva di tutti i colori. Sono un mostro insensibile.
A questo punto le nostre strade si dividono: mentre io mi occupo di traslocare il viscido ospite verso un albero nei paraggi, Rico afferra un sapone e parte diretto ai bagni per togliersi la bava dalla mano, salvo però tornare cinque minuti dopo: “Non va viaaaa!!!!! Dammi il detersivo per i piatti!!” Alla fine però, dopo molto sfregare e parecchio imprecare, tutto torna alla normalità.

Ovviamente, di fronte a questa calata di barbari sul campeggio noi scegliamo la fuga, anche perché quella sera è in programma un’altra cena sociale, in questo caso la cena di Ferragosto, e non esiste che ci facciamo incastrare due volte. Il volantino che annuncia la cena è a modo suo un’opera d’arte, evidenza oggettiva degli effetti devastanti che produce qualsiasi tentativo di tradurre dei testi dall’italiano all’inglese traducendo parola per parola (in the kitchen are we).
Ci lasciamo alle spalle il campeggio con il serpentone di tavoli in via di composizione e partiamo alla ricerca di un posto dove mangiare. Avendo letto che in uno dei paesini dei dintorni è in programma una sfilata, decidiamo di provare là e io m’immagino già la scena: noi due che sorseggiamo frizzantino circondati da modelle chilometriche calate in abiti sciccosissimi. Peccato che, nell’unica pizzeria che troviamo ci rispondano picche, sono già tutti lì in attesa dell’evento e hanno occupato fino all’ultima sedia. Riprendiamo la macchina e fortunatamente nel secondo ristorante c’è posto; ci sediamo e sospiriamo soddisfatti, anche questa è fatta! In realtà le cose stanno diversamente: bastano pochi minuti per renderci conto che il personale è assolutamente sconvolto dalla massa di gente arrivata per cena, tutti corrono di qua e di là come se trasportassero organi per trapianti. Ci guardiamo un po’ perplessi e proprio in quel momento una delle cameriere, passando, appoggia i menù sul nostro tavolo e schizza via senza dire una parola. Prendendo il menù mi cade l’occhio sulla tovaglia: è alla rovescio e pure macchiata, cominciamo bene.
E invece, a dispetto delle mie nere previsioni, le cose filano più che lisce; del tutto casualmente ordiniamo una focaccia con salumi e formaggio mentre tutto il resto del mondo vuole la pizza, quindi ci servono quasi subito e in meno di un’ora siamo pronti per il conto. Arriviamo alla cassa parecchio ringalluzziti ed è lì che ci si presenta un problema francamente inimmaginabile: il cassiere non sa né il prezzo della focaccia né quello di salumi, formaggi ecc, non sa neppure dove cercarli nel menù. Ci lanciamo in suo soccorso indicandogli i prezzi (avendo ordinato sappiamo dove sono) e ripartiamo di gran carriera, sperando di non aver perso l’evento clou della serata.

Purtroppo la kermesse è già iniziata. Un lunghissimo tappeto rosso corre lungo il corso principale indicando il percorso della sfilata; è fiancheggiato da centinaia di sedie, ovviamente tutte occupate. Più o meno a metà del percorso trovasi il tavolo dei commentatori, a cui siedono una commentatrice principale, che parla con una dizione super impostata da signorina buonasera, e un paio di esperti che intervengono su richiesta della signora: una illustra le musiche utilizzate come colonna sonora, l’altro dà cenni storici del periodo in esame. Sì, perché trattasi di una sfilata che ripercorre la storia del paese dal Cinquecento a oggi.
Come modelli sono stati precettati i giovani locali e devo dire che, soprattutto gli uomini, danno prova di grande forza d’animo, essendo che gli tocca andare scalzi perché l’organizzazione non dispone di calzature delle varie epoche; va meglio alle donne che sotto i loro vestitoni lunghi possono nascondere un paio di infradito o addirittura delle Nike (ogni tanto fanno capolino quando alzano il vestito).
Quello della commentatrice non è un compito facile perché il percorso della sfilata è lunghissimo e lei deve trovare qualcosa da dire per tutto il tempo; gli esperti le danno una mano ma per la maggior parte del tempo la poveretta è lasciata a se stessa e, dopo aver menzionato per la centesima volta questi abiti così ricchi di oro, pietre preziose e perle, trovare altro materiale si rivela un’impresa. Dopo circa mezzora lo stress e la stanchezza sembrano avere la meglio e la dizione perfetta s’incrina lasciando trasparire in modo sempre più evidente l’accento locale che, per chi come noi viene da fuori, è piuttosto marcato. A questo punto si sparano le ultime cartucce, le migliori, e vediamo sfilare tre individui che rimarranno per sempre scolpiti nella mia memoria:

a)      Il boia, a torso nudo e con calzamaglia nera e scure,
b)      Il condannato a morte, anch’egli a torso nudo, le mani legate davanti e, inspiegabilmente, la stessa calzamaglia del boia,
c)      Il poveretto che trasporta il ceppo per l’esecuzione (astutamente collocato su una carriola), anche lui inguainato nella stessa calzamaglia di cui sopra. Si vede che c’era un 3x2.

Proprio quando credi che non possano in alcun modo superare quanto appena visto, ecco che ti arriva il garibaldino a cavallo. Inizia a sfilare nonostante il nervosismo evidente dell’animale di fronte alla folla e al rumore. La presentatrice, carica di entusiasmo, esorta il pubblico chiedendo un forte applauso; la folla la ignora nella maniera più assoluta dimostrando che, checché se ne dica dei suoi gusti in fatto di intrattenimento, non è così rimbambita da applaudire un cavallo nervoso a pochi metri di distanza. Incredibilmente, cavallo e cavaliere completano il percorso senza che la povera bestia tiri calci a nessuno (uno alla presentatrice sarebbe stato quantomeno comprensibile) e di lì a poco la sfilata giunge al termine. Ed è bello poter dire: io c’ero.

Con questo si conclude la cronaca della vacanza; sono successe molte altre cose ma se continuassi arriveremmo a Natale. Permettetemi quindi di elencare brevemente alcuni dettagli omessi nel corso della narrazione:

1)      Tornando dal supermercato incrociamo un cartello che indica la grotta di monte cucco e decidiamo lì su due piedi di seguirlo. Dopo un quarto d’ora di strada con una pendenza allucinante (la macchina poverina teneva il fiato coi denti), arriviamo in cima; deltaplani e parapendii volteggiano sopra di noi in un cielo azzurrissimo con il sole ormai al tramonto, il tutto in un silenzio quasi assoluto, di quelli a cui ormai non siamo più abituati. Un’esperienza strana e bellissima. Purtroppo noi siamo in bermuda e maglietta e a quell’altezza fa un freddo boia, riusciamo a resistere per un quarto d’ora ma poi il vento gelido ci scaccia. Tornando giù ci tocca fare lo slalom tra mucche e cavalli che pascolano allegramente in mezzo alla strada; verso la fine della discesa comincio a sentire un odore di bruciato che non promette bene, la voiture ha una certa età, non puoi scherzare coi freni. Ci fermiamo per far riposare il mezzo, con grande soddisfazione di quelli nel suv dietro di noi che, dopo aver morso il freno per parecchi minuti, possono finalmente sfrecciare giù bruciando l’asfalto.
2)      Il penultimo giorno, mi sveglia l’ennesima vocetta penetrante, di una bambina stavolta, che pare trovarsi a mezzo metro dal mio orecchio. Sta raccontando che la bambina era vicino alla macchina e dopo però la macchina l’ha messa sotto. Chissà come mai l’avrà messa sotto?! Io un’idea l’avrei. Mi alzo e guardo Rico. “Smontiamo?” Risposta: “Smontiamo”.
3)      L’ultimo giorno andiamo a pagare e la signora ci chiede “E’ andato tutto bene?” Io, incapace di dire la verità ma anche di mentire spudoratamente, scelgo un compromesso, e rispondo “Sì, è solo che non siamo molto abituati a tutta la gente che c’è a Ferragosto” al che lei ribatte piccata “Qui non c’è mai molta gente, neanche a Ferragosto!”                                                                                              Ma se non lo vuoi sapere, cosa me lo chiedi a fare?
4)      Sempre mossi dal desiderio di fuggire dal delirio del campeggio, una delle ultime sere decidiamo di visitare Costacciaro; stiamo camminando lungo il muro esterno, ammirando il panorama notturno quando un cartello di divieto di sosta attira la nostra attenzione: sotto il cartello c’è una comunicazione:

DIVIETO DI SOSTA E TRANSITO
DOMENICA 07/08/2001
DALLE ORE 08 ALLE ORE 24.00
PER PANINAZZO

Non dico che non ci dormiamo di notte ma, se qualcuno potesse far luce sul mistero del paninazzo…

lunedì 19 settembre 2011

Mutandine oggi, programmi domani

quella con le mutandine non l'ho trovata, sigh
Per fortuna oggi non lavoro quindi mi concedo una colazione rilassata con tè, toast e una rivista frivola rigorosamente femminile, in quelle maschili troppi orologi, troppe macchine, troppe donne discinte e pettorute. Mentre sfoglio, mi cade l'occhio su una pubblicità. Cade l'occhio non è proprio una definizione azzeccata, diciamo che non puoi guardare da nessun'altra parte, l'intera pagina è occupata da un sedere femminile. Direi che il primo obiettivo della pubblicità (attirare l'attenzione) è stato sicuramente raggiunto. Guardo meglio, trattasi di una marca di quelli che loro chiamano proteggi-lingerie (il buon vecchio salvaslip). In effetti il sedere veste un paio di mutande rosa molto basiche (molto più mutande che lingerie) con la parola venerdì al centro; subito sotto il sedere c'è una scritta: MUTANDINE OGGI, PROGRAMMI DOMANI. Mi concentro sulla frase per qualche minuto ma non ne vengo a capo; che volesse dire che di venerdì porti le mutande e il sabato no perché trovi da far del buono? O che ti metti le mutande oggi ma, grazie ai miracolosi salva lingerie, domani potrai rimetterle (AAAAAAA!!!!!) e quindi preoccuparti solo dei tuoi programmi  per il sabato sera?
Tutto è dubbio e incertezza, se qualcuno può svelare l'arcano si faccia avanti e avrà la mia eterna riconoscenza. Eterna almeno per un paio di giorni  :)

P.S. Nella foto vedete il mercoledì,  il venerdì in Rete non l'ho trovato, sigh.

domenica 18 settembre 2011

Simpatici avventori del sabato sera.

Ho deciso di introdurre questa nuova categoria, Toccata e fuga, per poter inserire pensieri fugaci, commenti e impressioni condensati in poche righe. Fatemi sapere cosa ne pensate  :)
A volte l'universo mi pare accanirsi...
Ieri sera io e l'Ale andiamo al Magazzino Parallelo a rivedere il concerto di The Grace, quello che il caldo aveva sabotato (vedi Scusa Jeff ma quando è caldo è caldo) qualche mese fa. Arrivate in loco facciamo qualche chiacchiera e ci guardiamo intorno per decidere dove posizionarci: davanti non se ne parla, l'arsenale di casse è decisamente minaccioso, le sedie in mezzo sono un po' fitte, quindi alla fine scegliamo una panca con tavolino un po' indietro ma decisamente più comoda.
Per la prima mezzora tutto fila liscio, poi iniziano a fare capolino in zona concerto gruppi di simpatici avventori attirati dalla musica i quali, una volta esaurite le sedie disponibili, decidono con la massima tranquillità di restarsene in piedi lì dove sono, alla faccia di noi dietro.
Dopo aver aspettato un po' mi alzo e li avvicino:
"Scusate ma se rimanete qui noi seduti dietro non vediamo più niente!"
Risposta: "Ah, ma dì, se non stiamo qui dove andiamo?!"
Lascio a voi intuire la mia risposta mentale.

lunedì 12 settembre 2011

Il mio regno per il figlio di un vetraio!

Con quella di stasera si conclude la rassegna Rocca in concerto che ogni anno per cinque giovedì ospita gruppi rock alla Rocca di Cesena. La rassegna avrebbe dovuto concludersi il 4 agosto ma, causa maltempo, uno dei concerti (quello di The Rose) è stato rimandato.
Ovviamente, anche in questa occasione siamo stati precettati per fornire tutti quei servizi complementari che l’organizzazione (leggi la Ste) richiede: Paolo fa il pony express per portare le pizze ai tecnici che non hanno il tempo di scendere a cenare, Rico presenta al posto dell’Albertini che piuttosto che parlare in pubblico si fa sparare in un piede, io faccio la buttafuori e oblitero l’occasionale abbonamento, oltre a correre a chiamare Otello tutte le volte che arriva qualcuno con un cane perché non si è ancora capito se e come possono entrare (alla fine entrano ma c’è sempre da sudare) e la Clodia fa un po’ il jolly, scendendo in piazza a controllare la navetta che porta su la gente, informando quelli in fila che chi ha l’abbonamento può passare avanti e domando l’occasionale folla turbolenta.
Si dà il caso però che questo sia un giovedì particolare, infatti la Rinaldi è in pieno trasloco e oggi pomeriggio andiamo da lei per darle una mano. Per offrire un quadro più completo della situazione, preciso che la temperatura si aggira sui 35 gradi e l’appartamento da sgombrare è una mansarda, vi lascio immaginare il resto.
Arriviamo armati delle migliori intenzioni e ci mettiamo subito al lavoro; la Clodia ci indica uno sgabuzzino dicendo che è da svuotare e tutto il contenuto va buttato via però, una volta tirate fuori le scatole, troviamo chilometri di nastro e carta da regalo praticamente nuovi, parecchie decorazioni natalizie ancora incellofanate e una strepitosa befana di pezza. Approfittando dell’assenza della padrona di casa, scesa a caricare scatoloni in macchina, appendo qualche decorazione in giro per la stanza; intanto Rico ha trovato due scatole di cancelleria ed è andato in estasi, in questo momento sta provando penne e pennarelli uno a uno, seduto per terra e felice come una pasqua.
Quando la povera Clodia torna, aspettandosi di trovare sacchi dell’immondizia pieni e pronti da portare alla stazione ecologica, trova sì un paio di sacchi corrispondenti alle aspettative ma, aimè, anche parecchia roba messa da parte e noi che insistiamo che è nuova e non va buttata via. La Rinaldi oppone una strenua resistenza (come tutti quelli che traslocano sanno, arriva un momento in cui non ne puoi più e daresti fuoco a tutto) ma alla fine raggiungiamo un accordo: tutto quello che è ancora impacchettato/incellofanato, lo si dona al locale mercatino di beneficienza, qualcosa lo tiene lei (poca roba) mentre io porto a casa abbastanza carta e nastri da regalo da impacchettare tutta la mia via. Ci sarebbe un altro sgabuzzino da svuotare ma, visto come le è andata con il primo, la Clodia decide saggiamente di mandarci a casa con la scusa che dobbiamo prepararci per il lavoro alla Rocca, salvo poi schiavizzare l’Umberta qualche giorno dopo.
Arrivo alla Rocca in perfetto orario (per una volta) e avvicinandomi al cancello noto che è assolutamente deserto, ancora nessuno in attesa di entrare; non mi sorprende, quando rimandi un concerto dai già per scontato che verrà meno gente, tra quelli che si dimenticano, quelli che non lo vengono a sapere e quelli che magari avevano già un altro impegno, i numeri calano sempre.
Di lì a poco compare la Clodia e, vista la tranquillità della situazione, abbandoniamo la biglietteria e saliamo verso il palco alla ricerca della Ste. Paolo è già lì e partirà a breve sulla sua fedele vespa per il servizio di consegna pizze.
Le cose procedono più o meno come sempre, salvo per il fatto che il popolo, inizialmente scarso, poco a poco si riprende e alla fine ci ritroviamo, senza sapere bene come, con una rocca quasi piena. Non mancano ovviamente i borderline: da quello che quando gli strappi il biglietto ti fa la battuta ma quando tu gli rispondi con una battuta resta lì a guardarti come uno stoccafisso, neanche avessi tirato fuori un coniglio dal cilindro, a quello che tenta di infilarsi senza pagare e quando tu avanzi verso di lui ti dice che ha bisogno di parlare con Giorgio, salvo poi  battere in ritirata dopo aver farfugliato un cognome a caso appena tu indaghi chiedendo “Giorgio chi?”
Altra grossa novità: per la prima volta nessuno ha chiamato i vigili per lamentarsi del casino. Dovete sapere che puntualmente ogni giovedì, esattamente cinque minuti dopo l’inizio del concerto (9.45, 9.50), i soliti noti telefonavano ai vigili per lamentarsi che il volume era troppo alto e nonostante i misuratori mostrassero che si era entro i limiti consentiti, non hanno mai mutato il loro modus operandi. Con tutta probabilità a salvarci dall’ennesima sgardellatura di zebedei è stato il rinvio per maltempo che ha stravolto la loro tabella di marcia. Probabilmente avevano già in agenda di telefonare per lamentarsi del casino di qualcos’altro.
Dopo aver dato il mio modesto contributo in zona biglietteria, ho deciso di godermi la vita e salire a vedere il resto del concerto. C’è voluto un po’ per trovare la Clodia e l’Ale tra la folla ma, conoscendo i miei polli, sono andata davanti. E infatti erano là, sedute sul prato a destra del palco. Di lì a poco ci hanno raggiunti anche Rico e l’Anna, dopo una rapida incursione in zona piadina salsiccia e cipolla.
E qui arriviamo a parlare del fenomeno paranormale della serata: misteriose apparizioni e sparizioni. Il primo fenomeno si è verificato dopo una decina di minuti dal mio arrivo: alzo la testa e c’è un uomo in piedi davanti al palco. Se ne sta lì in evidente estasi di fronte al gruppo, peccato che tutto il resto del mondo sia seduto e che lui non sia né snello né figlio di vetrai. C’è il dubbio che sia anche completamente sordo, se ne sta lì davanti a quattro quintali di casse che hanno la potenza di suono di una portaerei e non fa una piega! Fortunatamente è abbastanza vicino al palco da coprire solo parzialmente la visuale ma comunque…
Non abbiamo ancora finito di smoccolare contro sto tizio che ne compare un altro; due secondi prima c’era il palco e due secondi dopo solo una maglietta rossa con dentro una schiena. Il tizio in questione si accompagna a una ragazza che però si siede subito; lui invece, pur essendo chiaramente insieme a lei, rimane tranquillamente in piedi. E diversamente dal non-figlio-di-vetrai di cui sopra, che perlomeno era attaccato al palco, il nuovo arrivato è proprio a un metro da noi. A quel punto, prima di compiere atti estremi, mi sono consultata con gli altri, chiedendo se secondo loro sarebbe stato scortese alzarmi e andare a chiedergli di sedersi. Purtroppo il verdetto del gruppo è stato unanime e mi ha ridotto al silenzio. Verbale, perché il mio cervello ha continuato ad arrovellarsi: perché diavolo sta in piedi? Non è che sia più comodo. Anche dall’altra parte c’era gente in piedi ma in quel caso era perlomeno comprensibile, stavano ballando. Qui invece l’immobilità totale. Ho anche ipotizzato che fosse talmente preso dal gruppo da non accorgersi di niente, come il non-figlio-di-vetrai là davanti, ma a una seconda occhiata quello non stava neanche guardando il concerto, si stava rullando una sigaretta!
Mi sono persa per qualche minuto in queste riflessioni e quando sono riemersa mi attendeva un’ulteriore sorpresa: il non-figlio-di-vetrai era scomparso. Mi sono guardata intorno pensando si fosse spostato/seduto ma niente, non ce n’era più traccia. E qui le opzioni non sono molte:
a)      Si era rotto e se n’è andato (dato il rapimento e l’estasi con cui seguiva il concerto è poco plausibile)
b)      Emorragia dai timpani, convulsioni e collasso, seguiti da rimozione del corpo mediante barella (altrettanto poco plausibile, qualcuno se ne sarebbe accorto).
c)      Un rapimento alieno (fa troppo X-files).
d)      Attacco di diarrea fulminante e conseguente corsa verso la toilette (questa vince).
Speravo che l’evento creasse un trend, infettando i vicini (in particolar modo la schiena rossa davanti a me) e invece ciccia. Ogni tanto ci illudeva andandosi a spostare di fianco al palco (sempre in piedi ovvio) per poi tornare tristemente al suo posto.
A questo proposito vorrei aggiungere un punto al mio vademecum per maschi frequentatori di concerti (per maggiori info vedi Tacco quindici, paillettes e formaggio di fossa: Lou Reed a Sogliano sul Rubicone): se siete tra quei buontemponi che si piazzano in piedi davanti a gente seduta, prendetevi almeno il disturbo di indossare una maglia con le scritte su entrambi i fronti, almeno quelli dietro hanno qualcosa da fare e ciò li distrae dal prendervi a badilate.
Mi rendo conto di non poter pretendere che si piazzino davanti a me solo atleti con glutei scolpitissimi e schiene di ampiezza autostradale, fasciati in abiti seconda pelle, ma perlomeno venitemi incontro!
Nel frattempo, mentre io mi trastullavo con le mie considerazioni, sul palco si stavano creando le condizioni per il disastro: la cantante del gruppo faceva salire due bambine sul palco.
Da dove comincio? I bambini sul palco durante un concerto rock ti fanno sorridere i primi due minuti, dopodiché sono di troppo. E soprattutto, una volta fatti salire non ci sono garanzie che accettino di scendere, soprattutto se i loro genitori si guardano bene dal venirli a prendere a fine canzone, salvo poi denunciare a destra e a manca nel caso i giovani virgulti: a) cadano dal palco, b) inciampino in uno dei novemila cavi elettrici che ci sono e (vedi a), c) vengano calpestati da uno del gruppo preso dalla performance e non avvezzo ad avere intorno a sé roba sotto il metro di altezza.
Abbiamo guardato con preoccupazione l’Albertini che si avvicinava al palco tentando invano di convincere le virgulte a scendere; di genitori neppure l’ombra, neppure quando la cantante ha ringraziato le bambine in quello che era inequivocabilmente un gesto di congedo. Solo parecchi minuti dopo una mamma si è fatta avanti per far scendere le due gigine e ho scoperto in seguito che Paolo, avendola individuata, era andato da lei a chiederle d’intervenire. Altrimenti forse sarebbero ancora là.
Risolta anche l’ultima emergenza, si sono fatte le 11.45; il gruppo ha iniziato a congedarsi, salvo poi rientrare come previsto su richiesta dei molti fan. Peccato però che quello che doveva essere il pezzo finale si sia trasformato in un altro quarto d’ora di concerto.
Dalle nostre parti ormai anche i muri sanno che, in caso di concerti dal vivo, devi chiudere baracca e burattini entro mezzanotte, pena sanzioni, scudisciate e marchiature a fuoco. È quindi con una certa preoccupazione che abbiamo seguito la Ste mentre si avvicinava al palco facendo segni al gruppo. Onde evitare fraintendimenti vorrei precisare che la preoccupazione non era per lei ma per i membri del gruppo. C’è voluto qualche minuto perché l’effetto dello sguardo Albertini (quello che fonde il metallo e secca le piante) raggiungesse tutti i membri del gruppo, quindi la serata si è conclusa con ben cinque minuti di ritardo. Sono lieta di poter affermare che non sono state riportate vittime tra gli artisti.




Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

mercoledì 7 settembre 2011

Campeggio last minute: una vacanza bestiale - Seconda Parte

La mattina dopo le cose mi appaiono un po’ più rosee, anche se ho i muscoli irrigiditi dal freddo e un sonno boia. Vado in bagno e solo una volta arrivata là mi viene in mente che in campeggio la carta igienica te la devi portare tu. Io lì non ho neanche un fazzoletto di carta. Un grugnito, una maledizione e si ritorna alla tenda dove scopro che ci siamo dimenticati pure la carta igienica.
Una volta superato anche questo scoglio, è ora di far colazione quindi metto a bollire l’acqua per il tè e apparecchiamo la tavola: pane preso al negozio del campeggio, nutella e marmellata, biscotti, miele e caffè. Tutto a posto, eccetto le tazze che sono rimaste a casa, insieme alla carta igienica, ai cucchiai, al coperchio. La lista si allunga.
Viste le condizioni pietose della nostra attrezzatura, l’obiettivo della mattinata diventa il reperimento di tutto ciò che manca. Partiamo diretti verso il locale supermercato conad ma quello che troviamo è un negozio sì a marchio conad ma molto molto piccolo; una volta arrivati alla cassa avendo trovato solo un misero pacco di carta igienica, la commessa ci informa che il vero supermercato conad è lì vicino ma dobbiamo fare attenzione perché non c’è l’insegna. E in effetti, quando arriviamo là è solo un edificio rosso come gli altri, devi guardare bene per capire cos’è. Ti viene da chiederti cos’abbiano avuto in mente i genialoidi che l’hanno progettato, forse volevano metter su un supermercato esclusivo, per pochi intimi, come quei ristoranti che fingono di essere altro per farti credere che sei un gran figo perché vai in un posto che conoscono solo gli eletti. Contenti loro.
Una volta entrati all’uberconad, con l’aiuto di un sollecito commesso (un po’ perplesso di fronte alla nostra richiesta di due coperte di pile), riusciamo a recuperare buona parte dell’equipaggiamento, eccetto i cucchiai che lì costano come l’oro e visto che non mangeremo brodo o zuppe, glieli lasciamo senza rimpianti.
Torniamo al campeggio e ci sistemiamo all’ombra del nostro melo per un aperitivo. Dopo pranzo pennichella e poi cazzeggio totale leggendo stesi all’ombra. Si potrebbe rimanere a poltrire tutto il pomeriggio e difatti è proprio quello che facciamo e che faremo nei giorni seguenti. Le uniche varianti saranno rappresentate da modifiche nella composizione dell’aperitivo (patatine al pepe, rustiche, standard, salamino, birretta, vinello, cocacola) e qualche puntatina in piscina (perché di notte ci saranno 8 gradi ma di giorno arriviamo anche a 30). Dette puntatine sono necessariamente brevi, data la densità di bimbi-minchia/m³. Si definisce bimbo-minchia un giovinetto di età compresa tra gli otto e i quindici anni che fa un casino insopportabile; inspiegabilmente, il bimbo-minchia è sempre italiano e quasi sempre maschio. Facciamo un esempio: in una di queste gioiose occasioni, arrivati in piscina ci sediamo a uno dei tavolini a bordo acqua per leggere un po’, essendo che la vasca straborda di gente. Trattasi di un desiderio irrealizzabile, considerando la tribù di bimbi-minchia che infesta i paraggi. Tra questi includo anche due individui che, seppur anagraficamente adulti, rientrano appieno nella categoria, essendo che non si vede alcuna differenza tra loro e i bimbi-michia di cui sopra: ridono a crepapelle delle varie bravate, anche quando esse consistono nello sputare l’acqua della piscina verso l’esterno (indovinate verso chi) e spintonare gli altri bimbi-minchia sparandoli in acqua incuranti di chi investono, salvo poi cadere dalle nuvole quando, dopo mezzora di gente che si salta sulla schiena, c’è quello che si fa male. Come diceva la mamma di Rico: a ridì, a ridì e po’ a rugì (traduzione libera: ridete ridete e poi piangete). Unica buona notizia: tra i mille urli dei troll mi è parso di sentire “Ultimo giorno”.

Da parte loro i gestori del campeggio fanno del loro meglio per incoraggiare la socializzazione, per  esempio organizzando allegre cene con intrattenimento musicale. Quando ci propongono la prima alla modica somma di quindici euri a cranio, visto che la nostra tenda è a dieci metri dalla piscina e quindi non c’è alcuna possibilità di sfuggire al pianobar, decidiamo di accettare, attirati anche dalla promessa di un menù di piatti locali (e dal sogno di cenare al caldo).
L’appuntamento è per le 20.30 ma, quando ci presentiamo alle 20.20, i quattro miseri tavolini disponibili all’interno sono già stati occupati e riusciamo a malapena a sederci a uno dei tavoli fuori. FUORI. Per un attimo il dubbio mi attanaglia ma l’alternativa è mangiare in sala con il piatto sulle ginocchia e vi sfido a tagliare il prosciutto tenendo un piatto di plastica sulle ginocchia (e il bicchiere poi? Serve la mano di riserva). Finiamo col cenare fuori, ovviamente coperti come eschimesi (noi, i nordici sono più spavaldi, c’è qualcuno in maglietta). Gli affettati però sono buoni. Fortunatamente, quando attacca il pianobar siamo già alla frutta (in più di un senso), quindi ci dileguiamo lasciando il campo a provetti ballerini e al revival anni ottanta con musica a palla.
La seconda notte va un po’ meglio, essendo il sacco a pelo avvolto in due coperte di pile; purtroppo però la felpa termica con cappuccio aumenta notevolmente il mio volume, rendendo difficili i movimenti all’interno del budello e più di una volta rischio lo strangolamento causa cappuccio, coperte o sacco.   

La mattina dopo mentre facciamo colazione compare un gruppo di giovani a cavallo che sfila a fianco della nostra tenda; in testa al gruppo c’è l’istruttore del vicino maneggio che offre ai campeggiatori la possibilità di affittare i cavalli per fare lunghe passeggiate nei dintorni. Veder passare un gruppo a cavallo mentre fai colazione è una cosa molto bucolica, e altrettanto bucolico è il quintale di cacca che gli enormi quadrupedi depositano davanti alla tenda dei nostri vicini nordici, che essendo nordici non fanno una piega. Ma aimè, la puzza è cittadina del mondo e pare trovarsi piuttosto bene anche dalle nostre parti. Nella mia ingenuità passo tutta la mattina aspettandomi di veder arrivare qualcuno del campeggio armato di paletta per rimuovere l’odoroso cadeau, invece ciccia.
Nel pomeriggio decidiamo di andare a fare una passeggiata nei dintorni, ci armiamo di bottiglie d’acqua, cappellino, ecc e partiamo con un obiettivo preciso in mente: durante il nostro breve spostamento motorizzato verso la conad, il navigatore insisteva per farci passare da una strada che pareva un tratturo e, temendo per l’incolumità della mia povera macchina che non è più una ragazzina, l’ho bellamente ignorato. Ci è rimasta però la curiosità di sapere dove saremmo arrivati se fossimo sopravvissuti a quel Camel Trophy.
La partenza è difficile, il campeggio è in una conca e la strada per uscirne è a tratti verticale (o almeno sembra), per non parlare del caldo torrido e della notevole distanza da percorrere per raggiungere il tratturo. Lungo la strada incontriamo vari cespugli di more e altri con strane bacche scure, seguiti a breve distanza da una fila di cassonetti per la raccolta di carta, vetro e… multe e sanzioni. Sono strani questi umbri.
Arrivati all’inizio del tratturo siamo più morti che vivi, ci facciamo un paio di foto per dimostrare che lì almeno ci siamo arrivati e poi torniamo sui nostri passi.

È stata una giornata intensa e il pensiero di cenare al freddo non ci va, in più siamo o non siamo in vacanza? Bene, allora stasera si mangia fuori.
Il primo locale che troviamo è un albergo ristorante pizzeria; ci sono dei tavoli fuori ma non se ne parla assolutamente, li ignoriamo e c’infiliamo dentro. L’arredamento è molto vecchio maniero, con un grande camino, mazze ferrate e spade sparse per la sala; credo ci fosse anche una testa di bestia ma non sono sicura.
Il cameriere ci dice di sedere dove vogliamo e dopo un po’ viene a prendere l’ordine, ci porta da bere e sparisce. In sala ci sono solo due tavoli occupati oltre il nostro, fuori ce ne saranno al massimo sei, non proprio una seratona. Eppure il servizio è lentissimo, passano venti minuti e neppure gli altri tavoli sono stati serviti, per fortuna c’è il cestino dei grissini. Mi distraggo guardando la pizzaiola che stende la pizza usando la macchina a rulli che vedo sempre nei chioschi di piadina; ma la pizza non si stende a mano? Boh, forse fanno tutti così e non me n’ero mai accorta. La osservo mentre impiatta sei pizze, peccato che di camerieri neanche l’ombra. Quelli del tavolo in fondo alla sala sembrano aver riconosciuto le loro pizze (o forse fingono pur di mangiare qualcosa) e dopo un po’, vista la penuria di personale, si alzano e se le vanno a prendere da soli mentre la pizzaiola si scusa imbarazzatissima. Quando finalmente compare il cameriere e lei gli fa presente la cosa questo si stizzisce e ribatte che è molto impegnato, deve preparare un tavolo da sette, non può fare tutto lui. Noi che seguivamo lo scambio ci siamo arenati sul numero sette. In che universo è un’impresa titanica apparecchiare un tavolo da sette? Forse qui ricamano le iniziali dei clienti sui tovaglioli.
Quando finalmente ce la portano (si vede che il tavolo da sette era pronto), la pizza è buona, ben condita anche se decisamente troppo sottile, non amo quelle pizze che appena le mordi ti si sbriciolano sotto i denti ma mi dicono che è una sclerosi mia quindi…
Chiediamo di pagare il conto e il cameriere ci risponde che il conto si paga alla reception dell’albergo per cui dobbiamo uscire dal ristorante e rientrare in albergo. Questi hanno una gran fiducia nell’umanità. Stavolta gli va bene, invece di fuggire verso la macchina, entriamo, paghiamo e ce ne andiamo, preparandoci mentalmente a un’altra nottata difficile.
Continua…

giovedì 1 settembre 2011

Campeggio last minute: una vacanza bestiale - Prima Parte

E finalmente anche quest’estate siamo riusciti a ritagliarci sei giorni di meritata vacanza. Ok, a questo punto dove si va? Mandiamo una mail al campeggio “da Quinto” di Pennabilli, dove abbiamo passato una splendida settimana un paio di anni fa e, lode lode, ci arriva la conferma il giorno successivo. Tutto sistemato.
E invece il solito contrattempo dell’ultimo minuto (ho mandato accidenti su accidenti, mi aspetto di vedere quanto prima obesità e calvizie nei destinatari) ci obbliga a una riorganizzazione totale: cancelliamo tra le lacrime la prenotazione e ci mettiamo a cercare un altro campeggio in Umbria. Non è così facile, primo perché questa è la settimana di ferragosto, secondo perché noi siamo di gusti un po’ difficili. Mi spiego: il campeggio non deve essere al mare perché noi di spiaggia, in agosto, preferiamo vederne il meno possibile, non deve avere l’animazione per i bambini perché questo significa che se ne prevede una densità/mq troppo alta e deve assolutamente avere la piscina.
Tra i pochi campeggi che rispondono a questi requisiti (e soprattutto che rispondono in giornata) ne scegliamo uno nella zona di Gubbio. Purtroppo la riorganizzazione ci ha portato via quasi tutta la giornata, quindi raduniamo in tutta fretta i bagagli, li sistemiamo alla meglio nella mia attempata macchina e la mattina dopo si parte.

 Se posso fare un appunto alle strade/autostrade italiane è che i cartelli dei limiti di velocità ti fanno venir voglia ti prendere a schiaffi qualcuno. Facciamo un esempio, siamo sulla A14 diretti verso Ancona e, dati gli immancabili lavori, c’è un cartello che dice 110. Ok. Peccato che dopo cento metri ce ne sia un altro che dice 90 e dopo altri cento metri si torna a 110. Ogni tanto appare anche un 60 e vi sfido ad andare in autostrada ai sessanta all’ora, con i tir che vi alitano sul collo! Ma non c’è di che preoccuparsi, tanto dopo cento metri si torna a 90 e dopo altri cento a 110. Per fortuna non sono da sola e Rico mi rassicura, non ho assunto nessuna droga pesante, sta tutto succedendo davvero.
Arriviamo al campeggio senza troppi problemi (grazie navigatore, grazie!) e dopo un rapido giro di perlustrazione scegliamo di posizionarci vicino alla piscina in una zona piena di meli selvatici che ci fanno da tetto, un gran bel posto. Montiamo la tenda e iniziamo a sistemarci. Intorno ci sono varie famiglie, alcune con bambini ma sono molto tranquilli. Scopriremo dopo che il campeggio è frequentato in gran parte da turisti stranieri (ecco spiegata la tranquillità).
Il clima è più fresco di quanto ci aspettassimo ma non ci diamo troppo pensiero, in fondo siamo in vacanza. Peccato che già verso le 20 calino l’oscurità e un freddo boia che ci costringe a indossare jeans, scarpe, felpa e giubbotto per poter cenare all’aperto. Stasera in programma per cena c’è la pasta; cominciamo a preparare la tavola e mettiamo su l’acqua ma dopo qualche minuto il fornellino si spegne, è finito il gas. Per fortuna abbiamo la bombola di ricambio quindi anche se con un po’ di ritardo ci rimettiamo in carreggiata, salvo poi scoprire che nella fretta di partire ci siamo dimenticati il coperchio della pentola, che non è solo un semplice coperchio ma funge anche da scolapasta (nel senso che io lo uso per tappare la pentola e scolare la pasta). Tentiamo una prima soluzione con il sottopentola (sì, non abbiamo coperchi ma abbiamo un sottopentola, misteri della psiche umana), peccato che questo sia di sughero (o di turacciolo, come dico io) e quindi dopo qualche minuto ci ritroviamo con un coperchio preoccupantemente gonfio. Immediata la rimozione e sostituzione con un piatto di plastica rigida che compirà il suo dovere senza tante ripercussioni. Solo una volta buttata la pasta ci accorgiamo di un altro problema: cerchiamo un cucchiaio per mescolare ma ci sono solo quattro cucchiaini da tè, nessun cucchiaio grande. Vista la piega della serata ovviamo al problema con una forchetta e io inizio a buttare giù una lista di cose da comprare l’indomani in paese.
Alla fine però riusciamo a cuocere la pasta e il sugo zucchine e gamberetti portato da casa è una bomba. Ci sediamo attorno al tavolo con i nostri piatti di pasta e Rico accende le lucine bianche (quelle del nostro albero di Natale) che ha avvolto intorno al ramo del melo che ci fa da tetto. Sembra di essere in una favola.

Una volta lavati i piatti torniamo alla tenda e constatato che, incredibilmente, si è fatto ancora più freddo, ci rifugiamo nel bar del campeggio per evitare l’assideramento. Tiriamo fuori il mazzo di carte da vacanza e ordiniamo un caffè e un tè. Chiedo alla barista se può darmi la teiera perché nella micro-tazzina che usano la bustina ci sta a fatica. Nessun problema, torno al tavolo con la mia teiera, la micro-tazza e lo zucchero. La pazienza non è tra le mie principali virtù quindi non è neanche immaginabile che io aspetti cinque lunghissimi minuti prima di bere il tè, di solito lo bevo bollente e mi ustiono; in questo caso dopo appena un paio di minuti alzo il coperchio per vedere se è pronto e noto con piacere che hanno riempito la teiera fino all’orlo, peccato che manchi la bustina. Torno al bar e ottengo finalmente la mia dose di droga; l’acqua non sarà più bollente ma ormai sono esaurita, voglio solo un po’ di broda calda nella pancia. Ne bevo tre tazze e mi sento subito meglio.

Una volta riacquistata una temperatura che ci garantisca la sopravvivenza, torniamo in tenda e ci prepariamo per la notte. In vacanza c’è chi porta il babydoll, chi il completo pizzoso supersexy, questa sera invece io alla partenza indosso il pigiama con calzoni lunghi ma nel corso della notte aggiungerò tutta una serie di indumenti fino ad arrivare a quanto segue: calzetti, mutande, canottiera, pigiama, felpa, felpa termica con cappuccio. Sono ovviamente rannicchiata nel sacco a pelo e mi sono avvolta intorno una coperta di pile. La notte più fredda del mondo. E non è ancora finita: alle tre e mezza di notte mi sveglio, semi congelata e con un gran bisogno di andare in bagno, le maledette tre tazze di tè non perdonano. Combatto per parecchi minuti, l’ultima cosa che vuoi quando sei rannicchiata nel sacco a pelo semi congelata è uscirne per affrontare il gelo della notte; aggiungo che il bagno non è vicinissimo ed essendo un po’ rimbambita dal sonno, il rischio di andare a sbattere in un albero non è remoto. Alla fine cedo, mi alzo e noto con sorpresa che sembra quasi meno freddo quando cammini. Fuori c’è una stellata spettacolare e mentre torno alla tenda per un attimo penso che questi sono proprio i giorni delle stelle cadenti, magari se aspetto un po’ ne cade qualcuna. O magari mi cadono le dita dei piedi. Sospiro e torno in tenda.