martedì 23 agosto 2011

Tacco quindici, paillettes e formaggio di fossa: Lou Reed a Sogliano sul Rubicone

“Sabato andiamo al concerto di Lou Reed, ti va di venire?” La Clodia mi sta guardando in attesa di una qualche reazione. Faccio una rapida ricerca mentale ma brancolo nel buio assoluto. “Chi è già Lou Reed?”
Essendo ormai avvezza alle lacune della mia cultura musicale, lei non si scompone “Dai, abbiamo visto un film su di lui, Berlin, era uno di quelli di Across the Movies!” Questo almeno restringe il campo, trattasi di rassegna di film musicali che si tiene da tre anni a Cesena; debole, debolissima, si accende una lucina “Ah, era quel film rosso?”
E qui anche la Clodia non ce la può fare, mi guarda perplessa “Ma che film rosso?”
“Dai, quel film che le immagini si vedevano un po’ così, sul rossiccio” La vedo annuire rassegnata e mi sento subito meglio, almeno il film l’ho inquadrato; peccato che avendolo visto l’anno scorso non è che mi ricordi molto.
“Allora cosa fai, vieni? Prendo il biglietto anche per te?”
Ci penso un momento. Vabbè, vediamo un po’ com’è.
“Costa 34,5 euro in prevendita”
EEEEEEEE!!!!!!! 35 euri!!!!!!!! Ma con quelli ci compro trentacinque sacchetti di patatine light dell’Eurospin!!!! Rinunciare alla droga è dura, una lotta che va combattuta giorno per giorno, a volte vinci a volte perdi. Oggi vinco. “Ok, ci sono.” Vediamo un po’ com’è.

Arriva il sabato. Siamo in cinque: Clodia, Ste, Io-me, Mohuro e Ale. L’appuntamento è alle 19 davanti all’Esquisito, dato che il concerto è a Sogliano e ci vuole circa un’ora per arrivare (trentacinque minuti se guida l’Albertini). L’Ale passa a prendermi e una volta caricati felpa, giubbotto, ombrello (previsioni incerte) si parte. Peccato che dopo cinque minuti arrivi una telefonata furibonda della Clodia “Sono passata a prendere Mohuro ma lui aveva capito che l’appuntamento era alle 20.45 invece che alle 18.45!” Come potesse pensare che saremmo arrivati in tempo per il concerto alle 21 è un mistero (forse stava guardando Star Trek) “Mi ha chiesto di ripassare dopo venti minuti ma gli ho detto che ha cinque minuti di tempo per scendere altrimenti lo lascio qui!” Meglio non scherzare con la Rinaldi furibonda.
Mi torna in mente che la settimana scorsa ci eravamo trovati in centro per pranzo e Mohuro aveva capito che l’appuntamento era alle 12.30 invece che alle 13.20, evidentemente legge troppo in fretta e con cento altre cose in mente. D’ora in poi gli manderemo gli orari scritti in lettere.
Riusciamo miracolosamente a riunirci e saliamo sul bolide sportivo della Ste; la strada per Sogliano è alquanto tortuosa e l’Albertini ci va a nozze, tagliando le curve come se fossimo in un videogame. Noi tapine sedute dietro ci avvinghiamo ai sedili nel disperato tentativo di non finire con la faccia spiaccicata sul vetro. Mi sa che a suo tempo la Ste ha visto troppe puntate di Automan.

Contrariamente ai miei timori, troviamo da parcheggiare abbastanza facilmente; adesso non resta che scendere dalla macchina. Uscire incolumi dalla tre porte dell’Albertini non è cosa facile, il sedile dietro è talmente indietro che occorrerebbe uno skilift per portarti fino allo sportello, in più devi essere celere, se esiti anche solo un po’ la pilota sospetta subito che tu stia facendo velata ironia sulla comodità della sua macchina e ti becchi uno sguardo bieco di quelli che gelano il sangue.
Saliamo verso la piazza centrale del paese dove, a rigor di logica, dovrebbe tenersi il concerto (non è che Sogliano sia questa megalopoli che brulica di luoghi adatti); anche per un forestiero il rischio di perdersi è nullo, basta seguire le bancarelle che vendono magliette rock. Una banana ci salverà.
C’è già parecchia gente e tra questa le facce note sono tante. Seduti a un tavolino troviamo la Cecca e U che sono astutamente partiti prima e infatti hanno già cenato. La cosa ci fa riflettere: non sarebbe bello trovarsi a metà concerto a ululare per i morsi della fame (fa molto rock da vedere ma per i protagonisti è un’altra cosa), quindi optiamo per una frugale cena e ci mettiamo in fila davanti a un cartello che promette piadina farcita più bibita alla modica cifra di cinque euri.
L’idea non è proprio originalissima e infatti la fila è lunghina, però essendo che si snoda lungo la via, vediamo passare tutti quelli diretti alla piazza e c’è l’occasione di fare due chiacchiere con le famose facce note di cui sopra. Dopo una mezzora, se dio vuole, arriva anche il mio turno. Ordino piadina prosciutto cotto e formaggio (purtroppo un misto standard, niente fossa di Sogliano) e, sorpresa sorpresa, una cocacola. A quel punto il cassiere mi spiazza chiedendo “La coca la vuoi subito?”
In che senso? Mi sforzo ma non ci arrivo proprio, che sia una domanda trabocchetto? Indago. “Perché?” In risposta mi rifila un bigliettino numerato e mi fa “Sei il numero 102, ci vorrà una mezzora” Neanche avessi chiesto un soufflé.
Mi rassegno all’attesa e insieme alla Clodia perlustriamo l’area individuando una panca e una sedia appena liberatesi su cui ci fiondiamo senza esitazione. L’Ale e la Ste ci raggiungono dopo poco, l’Ale brandisce un ghiacciolo al mojito di un verde talmente fosforescente che pare kriptonite. La Ste dà un’occhiata dubbiosa alla panca e chiede “C’è posto anche per me?” Risponde un attempato latin lover locale seduto di fianco a noi “Ma sì che ci sta! Con quel sederino…” Per fortuna del nonno, il suo commento è andato perso nella marea dei nostri “Sì, certo!”, “Ma figurati!” e “Dai siediti!”, quindi gli anni che gli restano potrà goderseli su tutte e due le gambe.
Nel frattempo Mohuro ci confida preoccupato di avvertire una certa, inspiegabile debolezza. Azzardo che forse deve mangiare qualcosa ma lui ribatte che non è possibile, ha mangiato cinque biscotti a merenda! Inevitabile l’infamata collettiva che lo spedisce a comprare della piadina.
Una volta rifocillati e riguadagnate le forze, ci avviamo verso la piazza. Tira un curioso venticello ma per fortuna il popolo bove scalda. Devo dire che, non avendo una gran esperienza di questo genere di eventi rimango un po’ sorpresa constatando che c’è veramente di tutto: dalle signore con passeggino ai teenager capelloni con maglia sanguinaria, fino alle panterone inguainate in roba scintillante e paiettosa. Non mancano le fighe di legno tirate a balestra con schiena nuda e tacco quindici, calzatura ideale per andare a un concerto dove si sta in piedi per ore; mi chiedo se anche sulla ciambella del wc (dove indubbiamente passeranno la notte, risultato inevitabile dell’addizione freddo + pelle di fora) terranno i tacchi. Toglietemi tutto ma non lo stiletto.

Minuto dopo minuto si accumula un’ora di ritardo; Mauro sostiene che lui in fondo doveva saperlo e che sicuramente il suo inconscio gli ha detto che era meglio partire alle 20.45. Il rumore delle unghie sui vetri è assordante.
Quando ormai s’inizia a disperare, la luminaria si risveglia, Lou esce sul palco e dà inizio alle danze. Mi alzo sulle punte tentando di vedere oltre il mare di teste e mi chiedo come mai in un paese mediterraneo dove in teoria l’altezza media è pari alla mia, ogni volta che vai a un concerto finisci col trovarti in un gruppo di Vatussi. Iella? Epidemia di tacco quindici? Boh.
Osservando meglio l’uomo sul palco, non posso fare a meno di notare la sua riga da una parte, gonfia come un nido di rondini. Mi sa che la parrucchiera ha avuto la mano un po’ pesante con la lacca. 
Intanto la temperatura si è ulteriormente abbassata (è luglio, porcaccia paletta! Luglio!!!!!), costringendomi a indossare tutto quello che possiedo; noi ovviamente siamo in zona poveri, non al centro dove si trovano le sedie per la nobiltà che ha sborsato ben 57,50 euri, però noto con una certa maligna soddisfazione che, essendo un po’ meno fitta di noi, la crème se ne sta lì come un mucchio di calippi, preda del vento siberiano che sferza la piazza. Rabbrividisco e mi torna in mente l’Impero colpisce ancora, non dico che sarei disposta a infilarmi negli intestini di una bestia ma un pensierino…. Il mio regno per una coperta di pile.
Dopo aver passato la prima ora a maledire le quattro biondone accanto a noi che invece di guardare e ascoltare passano tutto il tempo a chiacchierare e a ridere sguaiatamente, decidiamo di spostarci un po’ indietro ma più centrali, nella speranza di stare più tranquille e goderci il concerto. Peccato che là troviamo due coppie che fanno altrettanto casino e raccontano pure barzellette (l’uomo cresciuto che racconta male una barzelletta è la cosa più triste del mondo).
Nel vano tentativo di ignorare il barzellettiere improvvisato mi concentro sul pubblico in piazza e non posso fare a meno di notare che c’è parecchia gente che sta andando via. Ma non siamo neanche ai bis! Questa è una cosa che mi lascia sempre molto perplessa: hai pagato il biglietto, fatto un’ora di macchina e adesso te ne vai  quando potrebbero mancare ancora venti minuti? Hai paura di rimanere imbottigliato nel traffico? Ma quale traffico? SIAMO A SOGLIANO!!!!!!!

Dopo i tre bis di ordinanza, Lou si congeda e inizia il deflusso. Noi ci riuniamo nel punto di ritrovo astutamente concordato pre-inizio; Mohuro arriva con un’espressione soddisfatta, evidentemente la sua decisione d’infilarsi là davanti nella bolgia ha dato i suoi frutti; ci raggiungono anche la Cecca e U per un ultimo saluto. La Cecca si sta infilando un maglino di cotone e qualcuno  (non mi ricordo chi) commenta che avrebbe potuto portare una maglia di lana, viste le previsioni per la serata. Al che lei ribatte serafica che quella maglia è sì di cotone ma se la scrolla un po’ prima di metterla diventa di lana. Vorrei tanto poter pensare che era ubriaca.
Salutiamo tutti e ci avviamo verso la macchina; lungo la strada vediamo venirci incontro un gattino piccolo e tenero ed essendo tutti consapevoli della gattofobia dell’Albertini (avrei potuto dire ailurofobia ma sembra il nome di una medicina e poi, santo cielo, siamo a un concerto rock!), ci dirigiamo verso l’animale facendo muro per separarlo dalla Ste e producendo tutti quei suoni idioti che è inevitabile emettere di fronte a un cucciolo. Il quale cucciolo, evidentemente infastidito dal nostro casino, cambia repentinamente direzione nel tentativo di sfuggirci e si dirige proprio verso la gattofobica. Veniamo ripetutamente maledetti e per un istante si teme di dover tornare a casa a piedi ma poi per fortuna la crisi passa e l’Albertini ci riammette in macchina.

Dal basso della mia limitatissima esperienza, avrei compilato un piccolo vademecum per il maschio frequentatore di concerti che a mio avviso potrebbe migliorare notevolmente l’esperienza per il pubblico:
1)      Qualche consiglio tricologico:
a)      Il giorno prima del concerto, fai un favore a tutti e tagliati quei capelli.
b)      Se proprio non vuoi tagliarteli, legali o appiattiscili col gel.
c)      Per l’amor di dio, non li cotonare!!!!!
2)      Se sei alto come una pertica, trova un palo/lampione e appoggiatici, così minimizzi l’area di limitata visibilità per i diversamente alti.
3)      Se vai a prendere una birra, bevine almeno tre sorsi prima di tornare tra la folla così non la rovesci su degli innocenti oppure, in alternativa, dirigiti verso la figa di legno più vicina.
4)      Lo so che sai tutte le canzoni a memoria ma io preferirei sentirle da quello sul palco, quello intonato.

Il vademecum per le femmine non lo faccio, tra tacchi, paillettes, gridolini e risatine è un’impresa superiore alle mie forze, mi tremano le ginocchia al solo pensiero.


Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

martedì 9 agosto 2011

Gli spifferi ai tempi del Muto

Da alcuni giorni nella nostra ridente Cesena era in corso la manifestazione “Piazze di Cinema” e, quali orgogliosi cittadini, abbiamo deciso di dare il nostro contributo ingrossando le file degli spettatori. 

Il venerdì sera in Piazza del Popolo era prevista alle 21.30 la proiezione di un film muto, “La caduta della casa Usher”, un horror degli anni venti con accompagnamento musicale live dei Massimo Volume, quindi con un giro di sms ci siamo dati appuntamento in piazza alle 21.

Parto con il mio solito ritardo ma recupero qualcosa bruciando l’asfalto sullo scooter, una scelta praticamente obbligata se consideriamo che parcheggiare l’auto in centro a Cesena il venerdì sera rischia di toglierti quei due-tre anni di vita e io ormai ho parecchie lune, quelle che restano me le tengo strette.
Al mio arrivo in piazza trovo già una certa folla (anche se sospetto sia più per l’apertura serale dei negozi che per il film muto horror anni venti) ma dei miei compagni di serata neanche l’ombra: chiamo la Clodia e scopro che, visto il mio ritardo sono andati a prendersi un gelato bio. Mi chiedono di tenere tre posti fino al loro arrivo e, trovandomi dalla parte del torto, non mi resta che accettare.
A me questa cosa di tenere i posti mi mette sempre un po’ d’ansia, probabilmente perché ricordo perfettamente i casini che montava mio babbo quando si arrivava al cinema e c’era qualcuno che aveva sparso il proprio guardaroba nel tentativo di occupare quattro o cinque poltrone; ancora adesso quando mi capita di dover tenere più di un paio di posti ho il terrore che sbuchi il genitore da dietro una fila e me ne dica quattro
Non avendo alcuna esperienza di cinema di quel periodo, ero un po’ preoccupata perché io i film horror non posso guardarli, altrimenti non dormo più (mai più); in realtà sarebbe bastato riflettere sul fatto che, se proiettano un film in piazza alle nove di sera, è altamente improbabile che detto film sia spaventoso, ma in questi giorni fa un caldo africano e io non funziono bene oltre i 28 gradi.

Devo ammettere che la mia totale ignoranza sull’argomento cinema francese degli anni venti, non mi ha permesso di assaporare l’opera d’arte in tutta la sua pienezza. Del film conservo alcuni ricordi di cui farei volentieri a meno: ore e ore di occhi pallati e sguardi allucinati, chilometri di tende che svolazzano ovunque, causa vento imperversante, altri chilometri di velo bianco che seguono lo stesso copione, sopracciglia inquietanti, uomo sordo con cornetto acustico lungo quanto un avambraccio. Senza dimenticare che gli unici testi a fare capolino nel corso del film, quelli a cui ti saresti aggrappato come un naufrago a una scialuppa, erano in francese. Evidentemente il pubblico doveva essere cinefilo e francofono. 
E poi, va bene la sospensione dell’incredulità ma, dopo mezz’ora di bora è possibile che a nessuno venga in mente di chiudere almeno una finestra?
A ben pensarci, però, il cinema muto presenta alcuni vantaggi non trascurabili, uno su tutti il fatto che quando durante il film ti capita di condividere con i vicini di posto alcuni dubbi cinematografici che ti attanagliano (ma quante matite per occhi avranno consumato? Che lei si stia lasciando morire per sfuggire all’orrore di quella pettinatura?), la cinefila della fila davanti non può apostrofarti con parole pungenti sostenendo di non riuscire a sentire i dialoghi ma deve limitarsi a uno sguardo bieco.

Una volta terminata la proiezione, il desiderio di affogare i ricordi di cui sopra in una cocacola gelata si fa pressante, quindi attraversiamo il centro, passando dalla piazza a fianco dove sta iniziando Senso di Luchino Visconti e puntiamo verso il NeroSuBianco dove perlomeno si può star sicuri che la cocacola c’è e non ti rifilano della pepsi calda.
Propongo di sederci a uno dei pochi tavolini liberi ma la Clodia preferisce il muretto (per ulteriori evidenze della sua mania per le superfici in muratura, vedi la mia nota In fondo Bob è Bob). Una volta trovato posto sul famoso muretto e con il fresco beveraggio stretto in mano, mi capita di ripensare al film appena visto: non posso proprio affermare di averlo apprezzato, non potendo cogliere gli elementi rivoluzionari dell’opera che, mi assicurano alcuni più esperti, ha precorso i tempi. Però una cosa mi sento di dirla: a differenza di alcune recenti opere cinematografiche, celebrate come capolavori da critica e festival, se durante la proiezione avessero invertito primo e secondo tempo, ce ne saremmo accorti. E, coi tempi che corrono, non mi pare poco.



N.B. Si sconsiglia la visione di questo video a chi soffre di otite.

martedì 2 agosto 2011

Scusa Jeff ma quando è caldo è caldo

Tutto ha inizio con una mail con cui l’Ale ci invita alla sua festa di compleanno in spiaggia; l’invito è per giovedì ma, sfortunatamente, per i prossimi tre giovedì siamo in servizio volontario alla Rocca di Cesena, con funzioni che spaziano dalla consegna pizze al reperimento sedie, passando per la domatura folle turbolente, quindi decliniamo anche se un po’ a malincuore.
L’Ale però non è tipo da farsi scoraggiare, quindi ci manda una controproposta: martedì al Pappafico suona un gruppo (THE GRACE) in un tributo a Jeff Buckley, perché non andiamo a cena lì?
La cosa ci stuzzica, primo perché al Pappafico ci sono i maccheroncini Pappafico (per non parlare del mascarpone col salame di cioccolato), secondo perché qualche giorno fa Andrea ci ha parlato proprio di questo nuovo gruppo in cui suona e siamo parecchio curiosi.
In realtà quello che veramente brameremmo sentire e che abbiamo proposto in varie occasioni ai Big! Bam! Boo! (altro gruppo di cui fa parte) è un tributo ai Beehive (sì, quelli di Kiss me Licia), anche solo strumentale, con tanto di parrucche viola e ciuffi rossi, ma possiamo capire che serva tempo per mettere su un repertorio così esteso e complesso (da Freeway a Baby I love you) e per trovare dei passamontagna che assicurino l’anonimato ai musicisti, quindi per il momento portiamo pazienza e perlustriamo i negozi in cerca di parrucche.

Arriva martedì e dire che è caldo è un eufemismo. Tutto suda.
Partiamo da casa nostra alle 20.40: io, la Clodia, Mohuro e Rico con il giubbotto. IL GIUBBOTTO. Non ci è dato di sapere quale processo mentale abbia portato alla scelta del giubbotto con 35 gradi, scelta che il tapino difende a spada tratta contro qualsiasi critica; devo però ammettere che, quando la Clodia alla guida dell’Incudine attacca l’aria condizionata a palla, mi trovo a rimpiangere di non avere un colbacco e a pensare che, se non avessi usato pesante sarcasmo nei confronti di Rico e giubbotto, adesso potrei elemosinarne almeno una manica. A volte, la migliore musica è il silenzio.
A ristabilire l’equilibro termico ci pensa Mohuro il quale, senza minimamente accorgersi dell’aria condizionata in piena attività, abbassa il finestrino e appoggia fuori il gomito con evidente soddisfazione. Se guidasse l’Albertini, il poveretto si troverebbe presto separato dal suo avambraccio da una repentina e letale alzata di finestrino ma per sua fortuna questa sera la Ste è a Perugia da Santana e al volante c’è la Clodia che invece non fa una piega, anzi, quando Rico suggerisce di spegnere l’aria condizionata, visto il sabotaggio di Mohuro, rifiuta con decisione sostenendo che il finestrino aperto aiuta la circolazione dell’aria condizionata. Quei due potrebbero essere fratelli di camicia di forza.
Arriviamo in vista del Pappafico e parcheggiamo prudentemente a qualche centinaio di metri, non senza sorbirci le lamentele dell’ala scansafatiche della macchina. Il locale è già pieno di gente (perlomeno la zona all’aperto) ma noi, astuti come il diavolo, abbiamo prenotato e il nostro tavolo è proprio di fronte al gruppo.
Trattasi di un trio: chitarra, violino (Andrea) e batteria. Apprendo con un certo stupore che il batterista è anche il cantante e mi gira la testa; io già non riuscirei a fare due cose diverse con le mani (per non parlare dei piedi), figuriamoci cantare.
Arriva il cameriere con i menù e la fame mi riporta bruscamente alla realtà: dobbiamo ordinare. Ripercorrendo mentalmente la serata mi rendo conto che è proprio questo il momento chiave, l’istante in cui commettiamo l’errore madornale che influenzerà tutto il resto. Pur sapendo che quando tutto suda è meglio consumare cibi freddi, di fronte al maccheroncino Pappafico la carne (almeno la mia) è debole; mi consola però pensare che erro in buona compagnia: io vado di maccheroncino mentre la Clodia, che è vegetariana, si butta (dietro mio consiglio) sui cappelletti alle erbe profumate e gli altri si distribuiscono equamente su garganelli, cozze ecc.
Intanto la folla è aumentata e si è infilata in tutti i buchi possibili, rendendo praticamente l’area a tenuta stagna, non entra un filo d’aria neanche a morire.
Quando finalmente arrivano le cibarie, noi siamo già un pezzo in là, causa frizzantino fresco che va giù benissimo ma poi lo sudi tutto e ti taglia le gambe.
Mentre arpiono maccheroncini come fossi un baleniere, mi cade l’occhio sulla Clodia che sta fissando il suo piatto con aria sconsolata. Strano – penso – lì non c’è né aglio né cipolla (torneremo in un altro momento sull’affascinante tema della Rini e del suo regime alimentare); dando un’occhiata da vicino al piatto scopro però che, per una ragione che non riesco a immaginare, i cappelletti sono conditi con burro, erbe profumate come da titolo, e…un’abbondante dose di salsiccia. Come mai? – vi chiederete. Ce lo chiediamo pure noi ma sappiamo per esperienza che catturare l’attenzione del cameriere all’ora di cena, in un locale pieno, è impresa disperata e non ci resta che rassegnarci.
Facendo mente locale alle mie precedenti esperienze di cappelletti,  non ricordo di aver mai visto la salsiccia in questo piatto ma l’ho pur sempre consigliato io quindi l’ondata di senso di colpa è tale che ci potresti fare il surf; mi prostro in scuse, vorrei offrire in cambio il mio maccheroncino ma nel sugo c’è la pancetta, Rico ha  preso le cozze, Mohuro i bruciatini (sempre di pancetta), insomma, tutto quello che abbiamo ordinato contiene cadaveri. La nostra eroina sospira un “non fa niente” e inizia a rimuovere la salsiccia (tutta sbriciolata, un po’ un delirio) dai cappelletti mentre noi, dopo un buon mezzo minuto di parole consolatorie e sguardi mesti, ci ributtiamo allegramente sui nostri manicaretti animali. Ah, gli amici!
Quando scocca l’ora d’inizio del concerto, i musicisti imbracciano gli strumenti (tranne il batterista) e danno fuoco alle polveri;  noi vorremmo essere un pubblico all’altezza della situazione ma ormai l’errata scelta di menù si sta facendo sentire pesantemente. La situazione è talmente grave che quando arrivano le due porzioni di patatine fritte ordinate in precedenza da due incoscienti che resteranno anonime (visto come sono stata discreta, Ale e Clodia?!), io rifiuto categoricamente di mangiarle (è praticamente uno dei segni dell’Apocalisse).
Accanto a me Mohuro pare ancora più provato dal caldo e, guardandolo bene, è facile capirne il motivo: indossa jeans lunghi e scarpe chiuse. Interrogato sull’argomento mi informa che il vero uomo elegante aborre indumenti plebei e trasandati quali bermuda e sandali, certi standard vanno mantenuti.
Il fazzoletto dell'uomo elegante
In linea con questo pensiero sfoggia un fazzoletto di stoffa che utilizza per detergersi frequentemente la fronte imperlata di sudore. La vita dell’uomo elegante non è una passeggiata.
Il concerto prosegue ma per me rimane avvolto in una specie di nebbia, ho i neuroni ovattati dalla digestione e dal caldo, non ne posso veramente più; a un certo punto scoppio, mi alzo e fendo la folla puntando verso l’esterno come un naufrago che ha intravisto terra. Fuori dal locale mi accoglie un venticello che sa di mare e che mi restituisce alla vita; nel giro di qualche minuto la pressione si alza, l’occhio torna vispo e tutto ricomincia a funzionare, anche se a regime ridotto.
Guardandomi intorno mi accorgo di aver fatto tendenza: l’Ale e la Clodia mi hanno seguito come il popolo Mosè. I due baldi uomini sono rimasti dentro, un po’ perché trattandosi di musicisti secondo me non se la sentivano di alzarsi, un po’ perché il vero uomo non accusa debolezze di questo tipo, salvo poi sudare sette camicie e rischiare uno svenimento.
Una volta riprese le forze mi si sono riaperte le orecchie e il caso vuole che proprio in quel momento stessero suonando Halleluja. Tempismo perfetto.
Da quel momento in poi abbiamo seguito il concerto dall’esterno, e siamo riuscite a godercelo davvero, salendo a turno sul muretto perimetrale per sbirciare al di là della folla. Ogni tanto si riusciva a intravedere la testa del batterista/cantante, a volte un manico di chitarra o l’archetto del violino; però, si poteva ascoltare, guardando il mare seduti sul muretto e godendosi una signora stellata. Tutto considerato, proprio niente male.



Questo articolo è stato scritto per la rubrica l'Angolo dell'Estrema Riluttanza su stonehand.it: http://www.stonehand.it/wordpress/?cat=271

lunedì 1 agosto 2011

La battaglia di Branzolino

Intorno a questa serata c’è stato lo stesso livello di dubbio e incertezza che c’è riguardo al mostro di Lochness o al triangolo delle Bermuda; per giorni, quando incontravi qualcuno, dopo le solite due chiacchiere arrivava puntuale la domanda: ma poi domenica sera siamo a cena da Fabio? E la risposta: boh?
Tutto è iniziato di domenica a casa della Cecca e di U; Fabio ha proposto di fare una cena a casa sua la domenica successiva per salutare la Grazia che tornava in Messico.
La proposta è piaciuta al popolo, una serata in compagnia è sempre accolta con favore; e tuttavia, nel giro di qualche minuto ognuno ha iniziato a scervellarsi sul metodo migliore per compiere l’impresa: passare una serata a casa di Fabio evitando però di essere costretti a mangiare le 40 tonnellate di cibo che puntualmente prepara per le sue cene e che, se non trovi il modo di difenderti, possono ridurti in stato vegetativo per parecchie ore. 
Il problema origina fondamentalmente dal suo metabolismo alieno che ne farebbe un perfetto supereroe Slimfast o Figurella: quest’uomo mangia quantitativi di cibo che ucciderebbero lo yeti, eppure è secco come un chiodo. L’invidia è d’obbligo, in fondo siamo umani anche noi (Fabio non si sa).
La settimana trascorre così tra un non so e un chissà; arrivati al venerdì sera, l’amletico dubbio è sempre lì che rode: cena o non cena? Giro l’interrogativo alla Clodia che decide di prendere il toro per le corna e telefonare al gigino: estrae il cellulare e vi trova un sms che dice Sto preparando la lista della spesa per domenica, quanti siamo? Indovinate di chi è.
Alla fine, dopo una breve conversazione Clodia-Fabio, parte un vagone di sms d’invito e la situazione si sblocca.
Torniamo quindi a domenica sera: docciati e sistemati (io ho un look un po’ ghiacciolo: maglia giallo limone e bermuda verde bottiglia, farà parlare di sé), carichiamo in macchina sei sedie (dietro richiesta della Berti che ha ricevuto un SOS da Fabio) e una torta pere e cioccolato acquistata all’Ipercoop (con questo caldo in casa nostra chi tocca il forno muore, nel senso che lo uccido).
Prima di partire mi viene in mente che non so la strada per Branzolino, quindi chiedo a Rico se devo prendere su il navigatore. Risposta: no, tanto la strada me la ricordo (segnatevi queste parole).
Partiamo già un po’ in ritardo ed essendo domenica, decidiamo che non è prudente prendere l’autostrada, c’è il rischio di finire imbottigliati nel rientro dei turisti e passare la notte al Bevano mangiando rustichelle. Ci buttiamo sulle stradine alternative e tutto sembra filare liscio, almeno fino a quando l’autista, con la massima naturalezza, si gira e mi fa: Mi sa che di qui in avanti non la so più la strada. Peccato che siamo nel mezzo del nulla e non ci sia anima viva in giro, un cartello “Fine del mondo km 2” non mi stupirebbe.
A peggiorare la situazione c’è il fatto che non ho con me l’indirizzo, PERCHÉ LUI LA STRADA SE LA RICORDAVA!!!!!
Prendo il cellulare e comincio a chiamare ma, ovviamente, nel mezzo del nulla non c’è campo, solo il nulla. Quando finalmente riesco a parlare con Fabio, tra la linea che cade ogni tre per due e la mia totale incapacità di spiegare dove ci troviamo, l’impresa pare disperata e continuerà a sembrarlo fino a quando, quasi per caso, ci troveremo a destinazione. Resta il sospetto che una certa persona di mia conoscenza abbia finto di non sapere la strada per arrivare più tardi e ridurre il rischio indigestione.

Facciamo il nostro ingresso in giardino carichi come muli (sedie, torta, borse, felpe), solo per scoprire che ci sono altre sei sedie (nel marasma dell’invito last minute Fabio ha inviato SOS impazziti un po’ a tutti). Vorrei incazzarmi ma non ne ho il tempo: mentre avanzo verso il tavolo il piede incontra una buca abilmente mimetizzata dall’erba con conseguente inciampo e rischio di morire travolta dalle sedie. Le maledizioni volano come rondini a primavera.
Provvisto di grembiule da pizzaiolo, il nostro ospite presiede l’angolo forno, dove ciascuno deve recarsi a scegliere la guarnizione per la sua pizza; trattasi di un vero e proprio campo di battaglia perché lui non concepisce una pizza con meno di cinque ingredienti (pomodoro e mozzarella sono a parte) e fargli accettare una prosciutto e funghi richiede non poco impegno. Il popolo seduto in giardino si prepara al suo turno, come un esercito alla guerra, facendo gesti scaramantici e ripetendo dei mantra del tipo: solo rucola e crudo, solo rucola e crudo. Salvo poi tornare puntualmente sconfitto, con almeno due ingredienti in più.
Vista la situazione, Enrico decide di andare per ultimo nella speranza che finiscano le provviste. Io combatto la tensione ingurgitando smodate quantità di patatine fritte che qualche anima buona ha pensato di farci trovare belle croccanti sul tavolo.
Di lì a poco, però, la fortuna corre in nostro soccorso per la seconda volta: dato che le pizze vengono cotte nel fornetto elettrico, secondo le leggi della fisica non possono superare certe dimensioni, né essere troppo cariche quindi, dopo un paio di disastri con collasso della struttura portante, Fabio è costretto a cedere, piegato dall’universo e dalle sue strane regole.
Quando arriva il mio turno, affronto la tenzone con un piano ben preciso, sapendo che già il fatto di non volere la mozzarella mi mette in cattiva luce. Parto astutamente chiedendo zucchine e olive nere e, dopo un breve negoziato, torno al mio posto soddisfatta, avendo ottenuto la sola aggiunta del salame piccante (che si rivelerà poi essere la morte sua, fortuna che Fabio ha insistito).
La pizza, quando non è affogata di roba, è veramente da leccarsi i baffi; però una è più che sufficiente, soprattutto dopo il metro cubo di patatine ingerite e in previsione dei dolci (tutti dell’Ipercoop, evidentemente il caldo non spaventa solo me). Ragion per cui quando il pizzaiolo passa per il secondo giro di pizze, il popolo rifiuta compatto, con solo qualche eccezione nelle persone di Filo e della Cecca che chiedono di fare a metà di una pizza e, ovviamente, gliene arrivano due.
Finiamo le nostre pizze (c’è il dubbio che non siano le nostre, visto il semi-buio dato dai due timidissimi lampioni e da un cero che dovrebbe illuminare ma in realtà fa solo atmosfera, molto vecchio maniero), per poi buttarci allegramente sui dolci, mentre poco più in là, Fabio mangia soddisfatto la sua seconda pizza ultrafarcita.
La serata prosegue piacevolmente nel fresco del giardino; c’è chi si fotografa indossando maschere e alette d’angelo di provenienza sconosciuta, chi cade nella maledetta buca traditrice e ne dice di ogni, chi cerca di farmi tradurre all’esotico Paul delle robacce (che, se proprio le vuole dire, va là che se le traduce da solo) e, soprattutto, chi sta sempre in guardia, pronto a infrattarsi dietro a un cespuglio, nel caso lo chef opti per un ultimo attacco a sorpresa sotto forma di pizze alla nutella.