mercoledì 7 settembre 2011

Campeggio last minute: una vacanza bestiale - Seconda Parte

La mattina dopo le cose mi appaiono un po’ più rosee, anche se ho i muscoli irrigiditi dal freddo e un sonno boia. Vado in bagno e solo una volta arrivata là mi viene in mente che in campeggio la carta igienica te la devi portare tu. Io lì non ho neanche un fazzoletto di carta. Un grugnito, una maledizione e si ritorna alla tenda dove scopro che ci siamo dimenticati pure la carta igienica.
Una volta superato anche questo scoglio, è ora di far colazione quindi metto a bollire l’acqua per il tè e apparecchiamo la tavola: pane preso al negozio del campeggio, nutella e marmellata, biscotti, miele e caffè. Tutto a posto, eccetto le tazze che sono rimaste a casa, insieme alla carta igienica, ai cucchiai, al coperchio. La lista si allunga.
Viste le condizioni pietose della nostra attrezzatura, l’obiettivo della mattinata diventa il reperimento di tutto ciò che manca. Partiamo diretti verso il locale supermercato conad ma quello che troviamo è un negozio sì a marchio conad ma molto molto piccolo; una volta arrivati alla cassa avendo trovato solo un misero pacco di carta igienica, la commessa ci informa che il vero supermercato conad è lì vicino ma dobbiamo fare attenzione perché non c’è l’insegna. E in effetti, quando arriviamo là è solo un edificio rosso come gli altri, devi guardare bene per capire cos’è. Ti viene da chiederti cos’abbiano avuto in mente i genialoidi che l’hanno progettato, forse volevano metter su un supermercato esclusivo, per pochi intimi, come quei ristoranti che fingono di essere altro per farti credere che sei un gran figo perché vai in un posto che conoscono solo gli eletti. Contenti loro.
Una volta entrati all’uberconad, con l’aiuto di un sollecito commesso (un po’ perplesso di fronte alla nostra richiesta di due coperte di pile), riusciamo a recuperare buona parte dell’equipaggiamento, eccetto i cucchiai che lì costano come l’oro e visto che non mangeremo brodo o zuppe, glieli lasciamo senza rimpianti.
Torniamo al campeggio e ci sistemiamo all’ombra del nostro melo per un aperitivo. Dopo pranzo pennichella e poi cazzeggio totale leggendo stesi all’ombra. Si potrebbe rimanere a poltrire tutto il pomeriggio e difatti è proprio quello che facciamo e che faremo nei giorni seguenti. Le uniche varianti saranno rappresentate da modifiche nella composizione dell’aperitivo (patatine al pepe, rustiche, standard, salamino, birretta, vinello, cocacola) e qualche puntatina in piscina (perché di notte ci saranno 8 gradi ma di giorno arriviamo anche a 30). Dette puntatine sono necessariamente brevi, data la densità di bimbi-minchia/m³. Si definisce bimbo-minchia un giovinetto di età compresa tra gli otto e i quindici anni che fa un casino insopportabile; inspiegabilmente, il bimbo-minchia è sempre italiano e quasi sempre maschio. Facciamo un esempio: in una di queste gioiose occasioni, arrivati in piscina ci sediamo a uno dei tavolini a bordo acqua per leggere un po’, essendo che la vasca straborda di gente. Trattasi di un desiderio irrealizzabile, considerando la tribù di bimbi-minchia che infesta i paraggi. Tra questi includo anche due individui che, seppur anagraficamente adulti, rientrano appieno nella categoria, essendo che non si vede alcuna differenza tra loro e i bimbi-michia di cui sopra: ridono a crepapelle delle varie bravate, anche quando esse consistono nello sputare l’acqua della piscina verso l’esterno (indovinate verso chi) e spintonare gli altri bimbi-minchia sparandoli in acqua incuranti di chi investono, salvo poi cadere dalle nuvole quando, dopo mezzora di gente che si salta sulla schiena, c’è quello che si fa male. Come diceva la mamma di Rico: a ridì, a ridì e po’ a rugì (traduzione libera: ridete ridete e poi piangete). Unica buona notizia: tra i mille urli dei troll mi è parso di sentire “Ultimo giorno”.

Da parte loro i gestori del campeggio fanno del loro meglio per incoraggiare la socializzazione, per  esempio organizzando allegre cene con intrattenimento musicale. Quando ci propongono la prima alla modica somma di quindici euri a cranio, visto che la nostra tenda è a dieci metri dalla piscina e quindi non c’è alcuna possibilità di sfuggire al pianobar, decidiamo di accettare, attirati anche dalla promessa di un menù di piatti locali (e dal sogno di cenare al caldo).
L’appuntamento è per le 20.30 ma, quando ci presentiamo alle 20.20, i quattro miseri tavolini disponibili all’interno sono già stati occupati e riusciamo a malapena a sederci a uno dei tavoli fuori. FUORI. Per un attimo il dubbio mi attanaglia ma l’alternativa è mangiare in sala con il piatto sulle ginocchia e vi sfido a tagliare il prosciutto tenendo un piatto di plastica sulle ginocchia (e il bicchiere poi? Serve la mano di riserva). Finiamo col cenare fuori, ovviamente coperti come eschimesi (noi, i nordici sono più spavaldi, c’è qualcuno in maglietta). Gli affettati però sono buoni. Fortunatamente, quando attacca il pianobar siamo già alla frutta (in più di un senso), quindi ci dileguiamo lasciando il campo a provetti ballerini e al revival anni ottanta con musica a palla.
La seconda notte va un po’ meglio, essendo il sacco a pelo avvolto in due coperte di pile; purtroppo però la felpa termica con cappuccio aumenta notevolmente il mio volume, rendendo difficili i movimenti all’interno del budello e più di una volta rischio lo strangolamento causa cappuccio, coperte o sacco.   

La mattina dopo mentre facciamo colazione compare un gruppo di giovani a cavallo che sfila a fianco della nostra tenda; in testa al gruppo c’è l’istruttore del vicino maneggio che offre ai campeggiatori la possibilità di affittare i cavalli per fare lunghe passeggiate nei dintorni. Veder passare un gruppo a cavallo mentre fai colazione è una cosa molto bucolica, e altrettanto bucolico è il quintale di cacca che gli enormi quadrupedi depositano davanti alla tenda dei nostri vicini nordici, che essendo nordici non fanno una piega. Ma aimè, la puzza è cittadina del mondo e pare trovarsi piuttosto bene anche dalle nostre parti. Nella mia ingenuità passo tutta la mattina aspettandomi di veder arrivare qualcuno del campeggio armato di paletta per rimuovere l’odoroso cadeau, invece ciccia.
Nel pomeriggio decidiamo di andare a fare una passeggiata nei dintorni, ci armiamo di bottiglie d’acqua, cappellino, ecc e partiamo con un obiettivo preciso in mente: durante il nostro breve spostamento motorizzato verso la conad, il navigatore insisteva per farci passare da una strada che pareva un tratturo e, temendo per l’incolumità della mia povera macchina che non è più una ragazzina, l’ho bellamente ignorato. Ci è rimasta però la curiosità di sapere dove saremmo arrivati se fossimo sopravvissuti a quel Camel Trophy.
La partenza è difficile, il campeggio è in una conca e la strada per uscirne è a tratti verticale (o almeno sembra), per non parlare del caldo torrido e della notevole distanza da percorrere per raggiungere il tratturo. Lungo la strada incontriamo vari cespugli di more e altri con strane bacche scure, seguiti a breve distanza da una fila di cassonetti per la raccolta di carta, vetro e… multe e sanzioni. Sono strani questi umbri.
Arrivati all’inizio del tratturo siamo più morti che vivi, ci facciamo un paio di foto per dimostrare che lì almeno ci siamo arrivati e poi torniamo sui nostri passi.

È stata una giornata intensa e il pensiero di cenare al freddo non ci va, in più siamo o non siamo in vacanza? Bene, allora stasera si mangia fuori.
Il primo locale che troviamo è un albergo ristorante pizzeria; ci sono dei tavoli fuori ma non se ne parla assolutamente, li ignoriamo e c’infiliamo dentro. L’arredamento è molto vecchio maniero, con un grande camino, mazze ferrate e spade sparse per la sala; credo ci fosse anche una testa di bestia ma non sono sicura.
Il cameriere ci dice di sedere dove vogliamo e dopo un po’ viene a prendere l’ordine, ci porta da bere e sparisce. In sala ci sono solo due tavoli occupati oltre il nostro, fuori ce ne saranno al massimo sei, non proprio una seratona. Eppure il servizio è lentissimo, passano venti minuti e neppure gli altri tavoli sono stati serviti, per fortuna c’è il cestino dei grissini. Mi distraggo guardando la pizzaiola che stende la pizza usando la macchina a rulli che vedo sempre nei chioschi di piadina; ma la pizza non si stende a mano? Boh, forse fanno tutti così e non me n’ero mai accorta. La osservo mentre impiatta sei pizze, peccato che di camerieri neanche l’ombra. Quelli del tavolo in fondo alla sala sembrano aver riconosciuto le loro pizze (o forse fingono pur di mangiare qualcosa) e dopo un po’, vista la penuria di personale, si alzano e se le vanno a prendere da soli mentre la pizzaiola si scusa imbarazzatissima. Quando finalmente compare il cameriere e lei gli fa presente la cosa questo si stizzisce e ribatte che è molto impegnato, deve preparare un tavolo da sette, non può fare tutto lui. Noi che seguivamo lo scambio ci siamo arenati sul numero sette. In che universo è un’impresa titanica apparecchiare un tavolo da sette? Forse qui ricamano le iniziali dei clienti sui tovaglioli.
Quando finalmente ce la portano (si vede che il tavolo da sette era pronto), la pizza è buona, ben condita anche se decisamente troppo sottile, non amo quelle pizze che appena le mordi ti si sbriciolano sotto i denti ma mi dicono che è una sclerosi mia quindi…
Chiediamo di pagare il conto e il cameriere ci risponde che il conto si paga alla reception dell’albergo per cui dobbiamo uscire dal ristorante e rientrare in albergo. Questi hanno una gran fiducia nell’umanità. Stavolta gli va bene, invece di fuggire verso la macchina, entriamo, paghiamo e ce ne andiamo, preparandoci mentalmente a un’altra nottata difficile.
Continua…

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